11 luglio 2020 11:32

È una meravigliosa serata d’estate – effettivamente siamo in piena estate, nel momento in cui il giorno più lungo dell’anno volge lentamente al termine – e io e Ben ce ne stiamo dentro, davanti al televisore, a vedere la prima puntata di Chernobyl.

Come abbiamo potuto prendere una simile decisione, proprio non lo ricordo. Come tutti, anche noi in questo periodo ci siamo a lungo dedicati a film, cofanetti e repliche, e quando Ben ha visto la serie tra quelle consigliate mi ha chiesto che ne pensassi. Io in realtà l’avevo già vista ma lui, per paura di provare troppo orrore, se l’era risparmiato.

Ora era lui a chiedermi un parere… ed è stato allora che la mia mente mi ha giocato un perfido scherzo. Per un po’ mi è rimasto il ricordo di una serie bellissima – malinconica, appassionante e dall’atmosfera coinvolgente – e in qualche modo ho totalmente dimenticato che era anche cupa, angosciante e spaventosa.

Appena cominciamo a guardare mi rendo conto del mio errore. Fuori il sole è ormai calato e irradia ombre verdi sul prato. Si sentono il merlo sul suo solito albero e le voci soffuse delle persone, persone sensibili, mentre passano davanti casa dirette verso la brughiera.

E intanto noi ce ne stiamo qui, nella luce fioca del nostro salotto, a guardare un uomo che si uccide impiccandosi e un altro in preda ad atroci sofferenze ustionato dalle radiazioni, mentre dei bambini giocano in mezzo alle polveri radioattive. Lancio un occhiata a Ben, dall’altra parte della stanza, e vedo che sta guardando per terra.

Oggi però è come se i miei sensi fossero assaliti da tutte le parti; tutto sembra andare più veloce e a volume più alto di prima, senza tregua

Un istante dopo, riacquistato il senno, spegniamo la televisione e usciamo nella luce del crepuscolo: sotto braccio, senza quasi dire una parola, immersi nel calmo imbrunire.

Ma anche mentre ero lì continuavo a chiedermi: “Come ho potuto dimenticare tutto quell’orrore? Come ho fatto ad archiviare mentalmente la serie come un lavoro molto ben fatto cancellando dalla mia memoria il suo impatto emotivo?”. Questo pensiero è collegato a un altro che mi assilla anche ora: “È cambiato qualcosa dentro di me? Questa maggiore consapevolezza e coscienza, questa sensibilità e l’orrore per la crudeltà del mondo, sono sempre state in me e giacevano sepolte dall’abitudine e la distrazione? Oppure sono stati gli ultimi mesi a farmi maturare una diversa consapevolezza?”.

Un paio di giorni dopo siamo in auto per andare a trovare degli amici: la nostra prima uscita, una ventina di minuti di tragitto diretti alla parte ovest di Londra. Sfrecciare sulla Westway è una cosa che ho sempre amato perché mi fa sentire a casa, felice di vivere a Londra. Oggi però è come se i miei sensi fossero assaliti da tutte le parti; tutto sembra andare più veloce e a volume più alto di prima, senza darmi tregua. E ripenso alla battuta attribuita all’attore Ernest Thesiger, quando gli fu chiesto di descrivere l’esperienza delle trincee dopo la prima guerra mondiale: “Santo Cielo”, rispose, “che rumore! E quanta gente!”.

Paura del buio
Non reggo il livello di isteria che mi assale uscendo di casa e non mi piace rendermi conto del fatto che ora, nella città che tanto amo, mi sento piccola e vulnerabile. L’energia stessa della città, che prima mi dava la carica, ora mi sembra minacciosa e mi domando se il cambiamento avvenuto in me sia permanente oppure passeggero, e come farò a riprendere la mia vecchia vita. Oppure se ci sarà un nuovo e diverso modo di vivere.

Il periodo di isolamento sta terminando, almeno per ora, e io ricomincio a incontrare gli amici… ma l’argomento, per tutti, è la questione covid, come stiamo affrontando la questione covid, come superare la questione covid e quale sarà il futuro. Comincio a temere di essere diventata, oltre che più sensibile, anche più noiosa, ma forse questo è successo a tutti noi. E mi chiedo: “Gesù! Ma prima di che parlavamo?”.

Una mattina, ancora, attraversando il cimitero davanti alla chiesa, noto una lapide che reca un’incisione in latino: Post tenebra lux, dopo le tenebre la luce.

Mi torna in mente Chernobyl e come la mia reazione, guardandolo per la prima volta, sia stata molto in linea con la fascinazione per l’oscurità nell’arte espressiva che domina i nostri tempi; ripenso a quanto tutti noi tributiamo grande rispetto alle opere strazianti, senza mezze misure, che fanno raggelare il sangue, e a come le commedie siano appena prese in considerazione in sede di premiazione.

Ho cominciato ad avere paura del buio, forse perché al momento non so cosa vi si nasconda. E quindi mi sento attratta dalla luce, dai raggi di sole filtrati dagli alberi, dai riflessi sulla superficie dell’acqua e dalla gentilezza degli amici. Forse dovrei rivedere Detectorists.

(Traduzione di Maria Chiara Benini)

Questo articolo è uscito sul settimanale britannico New Statesman.

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