21 maggio 2015 13:13

Nel 2014, negli Stati Uniti, 15 stati hanno emanato 26 nuove restrizioni alle leggi sull’interruzione di gravidanza. Si è calcolato che oltre la metà della popolazione femminile statunitense in età riproduttiva viva in stati che sono ostili o estremamente ostili al diritto d’aborto.

In Europa, a dicembre del 2013, il parlamento europeo ha bocciato la risoluzione Estrela, con cui si chiedeva un impegno concreto degli stati per il diritto all’aborto sicuro e legale ovunque nell’Unione. La risoluzione è stata respinta per soli sette voti. È stata decisiva l’astensione di sei deputati italiani del Partito Democratico: Silvia Costa, Franco Frigo, Mario Pirillo, Vittorio Prodi, David Sassoli e Patrizia Toia.

In Italia, a Roma, il 17 novembre 2014, all’ingresso del “repartino” del policlinico Umberto I, in cui si effettuano le interruzioni di gravidanza, è stato affisso un foglio di carta: “Le prenotazioni sono temporaneamente sospese”. Il motivo della comunicazione era tanto semplice quanto emblematico: l’unico medico disposto a praticare gli aborti era andato in pensione, tutti gli altri ginecologi della struttura erano obiettori di coscienza.

Questo è il presente di un diritto: la sua negazione.

L’aborto non è una questione privata

Giugno 1973: a Padova, una donna, Gigliola Pierobon, subisce un processo con l’accusa di procurato aborto.

Nel 1973 in Italia erano ancora in vigore le norme del codice penale fascista del 1930, il codice Rocco, che definiva l’aborto reato “contro l’integrità e la sanità della stirpe”. Pena prevista: da uno a cinque anni di reclusione per le donne che si procuravano da sole l’aborto; da due a cinque anni per quelle che si sottoponevano all’interruzione e a chi la praticava, con una possibile riduzione della pena solo “se il fatto è commesso per salvare l’onore proprio o quello di un prossimo congiunto”.

Gigliola Pierobon aveva abortito nel 1967, quando aveva 17 anni. Stesa su un tavolo da cucina, senza sedativi, le era stato introdotto un lungo ago di ferro nella vagina. L’operazione le aveva causato un’infezione, curata da sola, in silenzio.

Ma la Gigliola del 1967 non è la Gigliola del 1973, in quegli anni si è avvicinata al femminismo, non è più sola come sei anni prima, su quel tavolo. Appena riceve la notifica del rinvio a giudizio ne parla con le compagne.

Il processo Pierobon diventa un fatto politico, un fatto pubblico. Le femministe scendono in piazza con una grande manifestazione, invadono il tribunale e si autodenunciano.

Il 6 dicembre 1975 più di ventimila donne sfilano a Roma in favore dell’aborto “libero, gratuito e assistito”.

Una parte del movimento femminista sostiene che sia importante intervenire sulla materia attraverso una legge, altre ritengono che l’unica strada verso l’autodeterminazione sia quella della cancellazione del reato di aborto. Il legislatore riesce a scontentare entrambe, approvando, il 22 maggio 1978, la legge 194 “Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza”.

Ventidue articoli, stringati, chiari, un testo di legge che possiamo capire tutti, leggendolo. Il suo intento è esplicito, già dal titolo: la legge 194 è, in prima istanza, una legge sulla salvaguardia della maternità, la disciplina dell’aborto arriva solo in seconda battuta. Molte femministe la definiscono una legge truffa, perché nega il diritto della donna di scegliere per se stessa.

Al contempo la legge scatena le ansie moralistiche e apocalittiche della società conservatrice e del mondo cattolico. Contraddizioni che si riflettono da subito e con chiarezza nella pratica, diventando ostacoli: obiezione; obbligo di indagare sui motivi che spingono ad abortire; nessun provvedimento nei confronti dei medici che si rifiutano di rilasciare il certificato di richiesta di interruzione della gravidanza.
Ostacoli che non bastano a chi non vuole una legge che renda l’aborto legale e pubblico. Nel 1981 si andrà al voto per il referendum abrogativo. La vittoria dei no all’abrogazione della legge sarà schiacciante.

Basta un poco di zucchero

Uno degli articoli della 194 prevede che ogni anno il ministero della salute presenti una relazione sull’attuazione della legge. Andamento del fenomeno, caratteristiche delle donne che fanno ricorso all’interruzione volontaria di gravidanza (ivg), modalità di svolgimento e perfino un monitoraggio ad hoc su ivg e obiezione di coscienza.

A leggere le parole della ministra Lorenzin, nella relazione presentata il 15 ottobre del 2014, parrebbe che l’Italia offra il migliore degli aborti possibili.

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Innanzitutto si sottolinea più e più volte la riduzione del numero di ivg, che ha subìto un decremento del 4,2 per cento rispetto al 2012. Un risultato che il ministero ritiene molto positivo e che lega direttamente all’efficacia della prevenzione: “La riduzione dei tassi di abortività osservata recentemente anche tra le donne immigrate sembra indicare che tutti gli sforzi fatti in questi anni, specie dai consultori familiari, per aiutare a prevenire le gravidanze indesiderate e il ricorso all’ivg stiano dando i loro frutti anche nella popolazione immigrata”. Analisi che si perdono nel vuoto degli eternamente inattesi impegni dei nostri governi sul fronte dell’educazione sessuale e della promozione dei metodi contraccettivi.

E poco importa se il numero degli aborti clandestini è enorme ed è quantificato – ottimisticamente, poiché non ci sono dati certi, con una ricognizione ferma al 2005 – tra i 12mila e i 15mila casi per le italiane e tra i tremila e i cinquemila per le straniere. Indagare su un fenomeno che tutte le analisi reputano in crescita e che è cambiato enormemente grazie alla possibilità di ricorrere ai farmaci, anche acquistandoli online, sarebbe quantomeno doveroso.

“Sono in diminuzione i tempi di attesa tra rilascio della certificazione e intervento (possibile indicatore di efficienza dei servizi). La percentuale di ivg effettuate entro 14 giorni dal rilascio del documento è infatti aumentata rispetto a quella riscontrata nel 2011 ed è leggermente diminuita la percentuale di ivg effettuate oltre tre settimane di attesa, persistendo comunque una non trascurabile variabilità tra regioni”.

Il verbo diminuire e il segno percentuale sono lo zucchero a velo su un pandoro scaduto, in numeri significa che ben sedici donne su cento sono costrette ad aspettare più di tre settimane dal rilascio del certificato per effettuare l’interruzione di gravidanza, interruzione che è consentita entro i novanta giorni. Anche l’intervallo di 14 giorni diventa un tempo enorme, da questa prospettiva.

Nella relazione, la prima che riporta i dati di un monitoraggio sulle attività di ivg e obiezione di coscienza voluto da un tavolo tecnico attivato presso il ministero della salute a giugno del 2013, si arriva ad affermare che “il numero di non obiettori è congruo rispetto alle ivg effettuate, e il numero degli obiettori di coscienza non impedisce ai non obiettori di svolgere anche altre attività oltre le ivg”.

I dati dicono che “considerando 44 settimane lavorative in un anno, il numero di ivg per ogni ginecologo non obiettore, settimanalmente, va dalle 0,4 della Valle D’Aosta alle 4,2 del Lazio, con una media nazionale di 1,4 ivg a settimana”.

Un caso di inversione dell’onere della prova: si va a vedere quanto lavorano i non obiettori e si dice che va bene così. Il fatto che ci sia una percentuale altissima di medici obiettori non ostacola il servizio e non impedisce ai non obiettori di svolgere anche altre mansioni.

Dei numeri si possono fare letture mistificanti tanto quanto delle parole. In Italia il tasso di obiezione è del 69,6 per cento per i ginecologi, del 47,5 per cento per gli anestesisti e del 45 per cento per il personale medico. Sono percentuali altissime, inammissibili. È come se il 70 per cento degli edicolanti non vendesse quotidiani.

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Percentuale di ginecologi che praticano l’obiezione di coscienza in Italia. Fonte: ministero della salute, 2013

Un ottimismo fuori luogo, una distorsione che contrasta con le testimonianze dei non obiettori e con le esperienze delle donne che hanno abortito. Gli alti tassi di obiezione – quello del Molise arriva al 90,3 per cento – legittimano il riferimento all’obiezione di struttura ossia la negazione del servizio, vietata dalla 194, e rendono di fatto la legge sempre più spesso inapplicabile.

Una situazione critica, quella italiana, sanzionata nel 2014 anche dal comitato europeo dei diritti sociali del Consiglio d’Europa, che ha riconosciuto che a causa delle elevatissime percentuali di obiezione di coscienza l’Italia viola il diritto alla salute delle donne che vogliono abortire.

Quella in cui viviamo è un’epoca reazionaria, ancor più che conservatrice. “Le politiche dell’utero, come la censura o la restrizione della libertà di manifestazione, sono un buon indicatore delle derive nazionaliste e totalitarie”, ha scritto Paul Preciado in un articolo su Libération (qui una mia traduzione).

I gruppi e i collettivi femministi sono stati e continuano a essere un argine resistente all’erosione del diritto di scelta, hanno condotto battaglie dure, allegre, colorate, fantasiose, radicali, fondamentali per un aborto libero e sicuro, per la salute sessuale, per i consultori laici e accessibili, per l’abolizione dell’obiezione alla legge 194.

Perché sì, la legge 194 è migliorabile. Ma dalla 194 non si può tornare indietro.

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