26 febbraio 2012 10:42

Sono tempi duri. Solo per fare un esempio, una delle peggiori critiche che Newt Gingrich rivolge a Mitt Romney è di essere così antiamericano da saper parlare in francese. Fin dalla guerra in Iraq, la Francia e i francesi incarnano l’Europa antimilitarista e ostile agli Stati Uniti. Ma c’è di più. Chi parla una lingua straniera dimostra di dare importanza alle cose sbagliate, e cioè esprime la volontà di impegnarsi per conoscere un’altra cultura, con la sua lingua e i suoi costumi. Cose che i veri americani non fanno.

I britannici hanno un difetto un po’ simile, ma senza la scusa di essere la potenza dominante e di occupare un intero continente. Viviamo su una grande isola nel mare del Nord, che sta perdendo rapidamente il suo potere economico. Qualsiasi futuro ci aspetti, richiede un atteggiamento di apertura e scambio con il mondo. Perfino gli euroscettici sostengono che il nostro paese debba pensare in modo globale per garantirci un futuro migliore, e la Gran Bretagna fa bene a perseguire i suoi obiettivi a livello europeo e globale. Ma qualunque sia la vostra opinione in merito, la capacità di parlare una lingua straniera è di vitale importanza.

Recenti statistiche sui giovani e le scuole dimostrano invece che stiamo andando nella direzione opposta. Cosa rivelano questi dati, sull’interesse dei nostri giovani per le culture straniere? Sulla loro consapevolezza della crescente importanza della Cina, del mondo arabo e di altri popoli?

Le scelte di un ragazzo diciassettenne negli studi universitari sono il frutto di una serie di fattori personali, familiari e scolastici che a loro volta sono lo specchio del nostro atteggiamento culturale e mentale. Ma se i nostri giovani pensano che imparare una lingua straniera non sia importante per il mercato del lavoro, allora si sbagliano. Tra i laureati in lingue straniere il tasso di disoccupazione è molto basso. Il mondo del lavoro ha bisogno di loro.

Recentemente l’Observer ha pubblicato un articolo di Michael Hofmann, traduttore eccellente, sul piacere di padroneggiare più lingue. Parlare una sola lingua, afferma, significa restare ancorati a un’unica cultura ed essere destinati a vivere nella gabbia linguistica e culturale in cui siamo nati. “Chi non parla altre lingue rimarrà nella stessa situazione e userà le stesse parole per tutta la vita”, afferma Hofmann. “Con una lingua sola, è più difficile misurarsi con se stessi e mettersi in discussione. È più difficile rimettersi in gioco”. Imparare un’altra lingua significa aprirsi al mondo e ampliare le prospettive di trovare un lavoro.

Ma questo tipo di atteggiamento fa fatica ad affermarsi in una cultura forse troppo provinciale, in un popolo sospettoso verso gli stranieri e convinto della sua superiorità. Per fare il lungo e impegnativo cammino di imparare un’altra lingua, i ragazzi devono sapere che alla fine saranno ripagati dei loro sforzi, proprio come quando imparano a suonare uno strumento, quando disegnano il modello di un abito o fanno uno sport. È importante che abbiano insegnanti che li stimolino, compagni che li incoraggino e famiglie che li apprezzino. In Gran Bretagna manca questo tipo di mentalità.

Il vero problema è che né a livello di cultura popolare né di élite i britannici hanno accettato la nuova posizione internazionale del paese o le implicazioni della situazione economica: il ricordo della grandezza dell’impero e della superpotenza, insieme al fatto confortante che negli Stati Uniti si parla inglese, li fanno ancora illudere che imparare una lingua straniera sia una qualità accessoria.

Invece, per come la vediamo noi, il vero problema è che gli stranieri continuano a studiare la nostra lingua e ad adeguarsi ai nostri costumi. Peggio ancora, c’è una marea di persone, fuori dei nostri confini, che non aspetta altro che approfittare del nostro leggendario, generosissimo welfare state. L’obiettivo non è aprirci a loro perché ci aiutino a rafforzare la nostra economia e a costruirci una nuova immagine, ma escluderli, alzare il ponte levatoio, tagliare il più possibile sul sistema previdenziale e chiudere il bilancio.

Gli stranieri, per noi britannici, sono come una parte del problema e non della soluzione. C’è una ristrettezza di vedute rispetto ai bisogni del nostro paese: senza l’immigrazione, l’Unione europea e la crisi, staremmo benone. Questa è, più o meno, l’idea che va per la maggiore, sostenuta sistematicamente dalla stampa popolare.

Invece la Gran Bretagna deve creare, scambiare e avere un atteggiamento aperto. Il nostro paese deve sostenere i cittadini in un mondo molto competitivo, reso ancora più difficile dal decennio perso dopo il credit crunch. Deve essere generoso e curioso verso se stesso e verso gli altri. Sono passati i tempi in cui era una superpotenza, ora dobbiamo rimboccarci le maniche. Solo quando le persone comuni e l’élite intellettuale cominceranno a parlare in questi termini saremo davvero in grado di voltare pagina.

*Traduzione di Anna Zuliani.

Internazionale, numero 937, 24 febbraio 2012*

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