29 aprile 2018 10:56

Il pomeriggio del 14 aprile, a Timbuctù, un violento attacco jihadista ha colpito il quartier generale della missione delle Nazioni Unite di stabilizzazione in Mali (Minusma) e la vicina base del contingente francese nel Sahel (Barkhane).

Un attentato complesso e strutturato, definito dalla Minusma “senza precedenti”, che attesta un livello di professionalizzazione finora mai mostrato dai gruppi jihadisti saheliani: 11 mortai lanciati in direzione del “super camp” dell’Onu, tre autobombe mascherate da vetture delle Nazioni Unite e dell’esercito maliano, una cinquantina di assalitori con armi automatiche, cinture esplosive e finti caschi blu.

Un massacro in parte evitato dalla pronta risposta dei militari Onu e francesi. Parigi parla di sette soldati francesi feriti (di cui tre gravi) e almeno 15 terroristi “neutralizzati”. La Minusma registra la perdita di un militare burkinabé e una decina di feriti (cinque molto gravi), oltre a diversi civili maliani colpiti da proiettili vaganti e ingenti danni all’aeroporto cittadino, che ospita le forze internazionali.

Una liberazione a metà
Quello del 14 aprile è il 33° attentato di un conflitto che, a cinque anni dal suo inizio, non dà cenni di risoluzione ed è finora costato la vita a più di cinquecento soldati maliani e 22 francesi. Con 162 caschi blu uccisi dal suo dispiegamento, nel luglio 2013, la Minusma è ormai la missione più pericolosa nella storia del peacekeeping dell’Onu. Il dialogo tra ribelli indipendentisti tuareg e governo centrale, rilanciato dall’accordo di pace firmato ad Algeri nel 2015, stagna da mesi. Conseguentemente cresce il malcontento e si aggravano le condizioni economiche, sociali e umanitarie delle popolazioni locali che nel 2013 avevano festeggiato la “liberazione” del nord grazie all’intervento di François Hollande al fianco dell’esercito nazionale.

Oggi Timbuctù, come le altre città centrosettentrionali del Mali, è stanca della guerra. Negli andamenti che caratterizzano i conflitti asimmetrici, a periodi di relativa calma si avvicendano attentati improvvisi, che hanno un impatto psicologico e sociale devastante. Negli ultimi mesi, nelle regioni settentrionali e centrali del paese più di 200mila studenti hanno dovuto rinunciare all’istruzione. Molte scuole hanno chiuso i battenti a causa delle minacce di predicatori e imam radicali (come sta succedendo anche nel vicino Burkina Faso).

Il ronzio dei droni e degli aerei di ricognizione è stato coperto da graffianti chitarre elettriche, percussioni e canti

Oltre a scagliarsi contro obiettivi militari della “presenza straniera” gli attacchi terroristici sono finalizzati a isolare intere comunità dall’aiuto umanitario e dalla presenza dello stato per spingerle ad arruolarsi in una “guerra santa” presentata come unica alternativa alla disperazione, all’inattività e alla povertà. Ecco perché stavolta il fuoco jihadista ha colpito anche la struttura e la pista d’atterraggio dell’aeroporto di Timbuctù, unico scalo regionale usato dai militari francesi e dalla Minusma ma anche dalle ong internazionali e locali per il trasporto di materiale medico-sanitario, scolastico ed elettorale (in vista delle presidenziali del 29 luglio).

Appuntamento amato
Anche se oggi pare impossibile da immaginare, solo due mesi fa, dal 9 all’11 febbraio, la città misteriosa (come viene chiamata Timbuctù) ha ospitato l’atteso ritorno del Festival au désert, uno dei più amati appuntamenti musicali del continente che, dal 2001 al 2012, ha accolto annualmente migliaia di visitatori provenienti dai quattro angoli del pianeta (nel 2004 più di settemila spettatori registrati). Costretto sei anni fa all’esilio dall’occupazione jihadista della città, l’evento di world music di Timbuctù si era trasformato in Carovana per la pace, festival itinerante che ha attraversato diverse località dell’Africa occidentale.

Una delle serate del Festival au désert, Timbuctù, Mali, il 10 febbraio 2018. (Marco Pavan, Fabrica)

Lo storico ritorno del Festival au désert ha riportato speranza a una città a cui la guerra ha strappato, fatta eccezione per sporadici matrimoni, anche il diritto allo svago. La felicità e il ritrovato senso di libertà di un’intera regione tornata a ballare è tutta nelle parole di Illilì Ag Elmehdi, giovane assistente del direttore del festival: “Prima, ogni gennaio venivamo a fare il nostro festival nel cuore del deserto. In piena notte prendevamo le piste che da Timbuctù raggiungono Essakane, un’oasi a 60 chilometri dalla città. Senza nessun timore, dormivamo sulle dune, sotto le stelle. Oggi invece siamo privati di questi momenti. Abbiamo ancora paura, ma la motivazione è ben più forte della paura, la soddisfazione di poter montare questo palco oggi qui supera ogni preoccupazione. Il terrorismo è un fenomeno internazionale che non tocca solo Timbuctù. Anche quando organizziamo dei concerti a Bamako abbiamo paura”.

Per un intero fine settimana nelle notti di Timbuctù il ronzio metallico dei droni e degli elicotteri della Minusma – che, con i francesi, ha garantito la sicurezza dell’evento – è stato coperto da graffianti chitarre elettriche, percussioni, canti e urla estatiche dei circa tremila spettatori (a serata). Il grande palco montato – grazie al finanziamento dell’ambasciata americana e della Minusma – nello stadio municipale ha visto sfilare una quindicina di artisti maliani molto amati come Khader e Omar Konate. Ospite d’onore: Vieux Farka Touré, figlio del leggendario Ali Farka Touré, inventore del blues del deserto e vincitore di tre premi Grammy.

Il turismo, principale settore lavorativo, è stato completamente annullato dal conflitto

Nonostante il valore fortemente simbolico, l’assenza di turisti e visitatori non maliani è stata l’inevitabile nota stonata di questa festa, fortunatamente risparmiata dai jihadisti (che per ora preferiscono non colpire eventi pubblici). “Gli stranieri non vengono più a Timbuctù perché ci sono ancora gli attentati. I turisti hanno paura perché i problemi sono gli stessi di prima della guerra: il nostro villaggio nel deserto, per esempio, viene regolarmente attaccato dai jihadisti, che rubano i nostri cammelli e uccidono i nostri figli. La crisi non finisce, i problemi di sicurezza nemmeno”, dice Ali Ag Mustafa, un giovane artigiano tuareg venuto al Festival con la speranza, tradita, di vendere la propria mercanzia.

“Appena ci è arrivata notizia del festival siamo saliti sui nostri cammelli e abbiamo trascorso due giorni nel deserto per venire fin qui a Timbuctù. Ma non ci sono turisti. Vediamo solo fratelli, cugini e zii, nessun turista. Prima, invece, il festival era bellissimo, venivano tanti stranieri a cui vendevamo i nostri oggetti, facevamo nuove conoscenze e non ci sentivamo soli”.

Il turismo, principale settore d’occupazione per gli abitanti della regione di Timbuctù, è stato completamente annullato dal conflitto. Ampie “zone rosse” tracciate dalle ambasciate occidentali, forte pericolo di rapimenti – come successo, per mano degli stessi jihadisti saheliani, l’11 aprile a un operatore umanitario tedesco in missione nel nord del confinante Niger – e crescente insicurezza negli spostamenti via terra fanno desistere anche i più temerari.

Intere regioni del Mali che prima della guerra erano tra le mete predilette dai tour operator stranieri, sono oggi inaccessibili. L’attacco terroristico del 28 marzo all’hotel La Falaise di Bandiagara, capitale dei paesi dogon, una delle poche zone turistiche finora risparmiate, ha confermato le preoccupazioni. Uno spauracchio che impoverisce intere comunità colpendo gli scambi non solo commerciali ma anche culturali e umani, su cui si sono sempre fondate le città-oasi alle porte del deserto come Timbuctù.

“Senza la musica e, più in generale, senza la cultura non ci sarà mai pace e riconciliazione”, ha detto dopo il concerto Vieux Farka Touré. Riuscirà la musica, una delle maggiori risorse del ricco patrimonio artistico del Mali, a salvare la gente comune dall’ingarbugliarsi di interessi geopolitici e mire espansionistiche di jihadisti, narcotrafficanti, milizie ed eserciti dispiegati? È quello che si augurano Illilì, Ali e molti altri abitanti della regione di Timbuctù, un ombelico del mondo che ha fretta di tornare a essere il luogo d’incontro, coesione e condivisione che era prima della guerra.

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