12 novembre 2018 10:16

Di fronte alla piazza assolata intitolata a Gesù Divin Lavoratore, il Minibar di Ignazio D’Andria tende a nascondersi, quasi a scomparire. È difficile perfino trovarlo, negli ampi spazi del quartiere Tamburi a Taranto. Non è appariscente come il bar tabacchi all’angolo della statale che costeggia l’Ilva e sale dolcemente verso i comuni di Statte e Crispiano. O come i chioschi ai lati di questa strada arsa dal sole in pieno autunno, davanti ai quali ozia fin dal primo mattino un’umanità varia e indolente. Di essa non c’è traccia dalle parti della chiesa che dà il nome alla piazza, e dentro la quale un mosaico raffigura Cristo circondato da un operaio, un impiegato delle acciaierie, un marinaio e un lavoratore degli arsenali della marina militare.

Il Minibar è di fronte alla chiesa, stretto tra una pasticceria e un circolo dopolavoro senza insegne e ancor meno fronzoli. All’inizio degli anni sessanta era una cantina dove gli uomini del quartiere andavano a bere vino e giocare a carte. Poi, nel 1968, tre anni dopo che il presidente della repubblica Giuseppe Saragat aveva inaugurato la più grande acciaieria d’Europa, furono aggiunti un bancone, qualche ripiano per i liquori e l’insegna Minibar.

Oggi, come al tempo in cui la fabbrica andava trasformando la fisionomia di un intero territorio e le abitudini di vita dei suoi abitanti, è il termometro degli umori del quartiere Tamburi e di quella città nella città che è l’Ilva.

Una camera di compensazione
In questi pochissimi metri quadri che fanno simbolicamente da contraltare al Moloch cittadino sono passate generazioni di operai, per un caffè prima di cominciare il turno o per un aperitivo all’uscita, e più spesso per scambiare quattro chiacchiere o confrontarsi a muso duro con colleghi e con chi vive nel rione. Più che un dopolavoro operaio, come quello di Bagnoli raccontato da Ermanno Rea in La dismissione – romanzo imprescindibile per comprendere cosa accadrebbe il giorno in cui Taranto decidesse di uscire dalla “monocultura siderurgica”, un processo che lo scrittore tarantino Alessandro Leogrande nel lungo periodo riteneva inevitabile – il Minibar di piazza Gesù Divin Lavoratore è una sorta di camera di compensazione delle contraddizioni di un’intera città e delle tensioni che l’attraversano.

Per comprenderlo, basta fermarsi una giornata ad ascoltare le conversazioni e le discussioni, con i toni che spesso si alzano e le voci che si sovrappongono nel tentativo di affermare, a suon di decibel, la propria opinione.

Da qui sono passati in tanti: politici in cerca di gloria, giornalisti di tutto il mondo e attivisti di ogni provenienza. Il proprietario Ignazio D’Andria ricorda quando si è trovato di fronte a Beppe Grillo e quando l’altro capopopolo dei cinquestelle Alessandro Di Battista è entrato a bere dopo aver tuonato in un comizio cittadino contro “il mostro”, annunciando “bonifiche” e “riconversione” della fabbrica il giorno in cui il Movimento 5 stelle sarebbe andato al governo.

Oggi, dice, se si affacciassero da queste parti rischierebbero di essere travolti dalla rabbia popolare, com’è accaduto alla deputata Rosalba De Giorgi, costretta ad andar via scortata dalla polizia da un presidio contro l’Ilva, il 6 settembre scorso, all’indomani di quello che da queste parti, più che un voltafaccia, considerano un vero e proprio “tradimento”.

Tensione tra gli operai
Il referendum sull’accordo firmato dall’ArcelorMittal e dai sindacati – ma non dal ministro del lavoro e dello sviluppo economico Luigi Di Maio e da quello all’ambiente Sergio Costa – ha fatto crescere la tensione.

Smaltita la sbornia mediatica, alimentata dalle dichiarazioni – “Non ci saranno esuberi, tutti i lavoratori riceveranno una proposta da ArcelorMittal”, aveva detto Di Maio – piano piano è emerso un quadro diverso da quello descritto.

Il piano industriale della multinazionale prevede che 3.100 lavoratori dovranno rimanere a casa. Le persone da mettere in cassa integrazione non sono, come qualcuno aveva pensato, i 2.500 cassintegrati di lunga data delle aree a freddo.

L’Ilva vista dalla spiaggia di San Vito, Taranto, 2014. (Andrea Petrosino)

Un operaio entra nel bar sventolando le cifre degli esuberi, reparto per reparto. Si chiama Alessio Peretto, su un braccio ha tatuato il volto di Che Guevara e come tanti è rimasto ammaliato e poi deluso dalla sirena a cinque stelle.

Dalle acciaierie 1 e 2, legge dal foglio che ha tra le mani, andranno via 450 operai su 2.050, dalle cokerie 150 su 590, dai parchi minerali 80 su 460, mentre le officine centrali di manutenzione saranno falcidiate e perderanno un terzo della forza lavoro, 580 su 1.680 persone. Lui, come altri, ha appena ricevuto una lettera dall’azienda che prevede un incentivo di centomila euro lordi, 77mila netti, se accetta di andar via subito. Sostiene che hanno provato più volte a metterlo fuori, da quando non gli rinnovarono il primo contratto di formazione e lavoro, 15 anni fa, a quando avrebbero volentieri fatto a meno di lui approfittando di un riposo forzato a causa di un’“ansia depressiva”, a suo dire causata dal mobbing in azienda. Oggi guida il pulmino che trasporta i lavoratori nei reparti. Pur avendo votato contro l’accordo ed essendo convinto che l’Ilva dovrebbe essere chiusa, non accetterà i soldi offerti dall’azienda per andare via.

La pensa come lui Carlo Sibilia, un sindacalista della Confederazione unitaria di base (Cub) che lavora all’Ilva da 15 anni. “Centomila euro lordi sono una miseria, li accetterà solo chi ha un doppio lavoro, magari in nero da qualche altra parte”, dice. L’azienda farà anche delle proposte di assunzione, e chi non accetta e sceglie di restare in cassa integrazione fino alla fine dell’amministrazione controllata, nel 2023, poi sarà licenziato e riceverà un bonus di soli 15mila euro.

In 500 hanno scelto di andare via subito. Ad altri 2.600 la lettera di cassa integrazione è invece arrivata con un’email, provocando la reazione indignata dei sindacati, che hanno denunciato la discrezionalità nelle scelte e il non rispetto dei criteri delle “mansioni, della professionalità, dell’anzianità e dei carichi familiari”.

Una iniziativa che accende gli animi è quella di un caporeparto dell’acciaieria 2 – rimasta aperta perché il governo guidato da Matteo Renzi aggirò il sequestro che ne impediva l’uso disposto dalla giudice per le indagini preliminari Patrizia Todisco, sostenendo “l’interesse strategico nazionale”. Il caporeparto ha mandato un fax ai capisquadra con i nomi di chi mandare in cassa integrazione, “con criteri di scelta basati su simpatie e antipatie”, denuncia Sibilia.

Nella lista dei cassintegrati ci sono tutti i leader delle proteste ambientaliste, a partire dal portavoce del Comitato liberi e pensanti Mirko Maiorino, che immediatamente dopo l’esclusione ha denunciato l’epurazione “politica” con un post su Facebook.

“È partita la corsa a farsi notare dai nuovi padroni”, commenta Peretto, disilluso. Su 10.820 lavoratori, 6.452 hanno votato a favore dell’accordo e appena 392 contro, mentre il 37 per cento significativamente si è astenuto. Peretto ha votato no perché crede che la salute venga prima del lavoro. Dopo anni di militanza nella Fiom-Cgil era passato all’Usb, ma non ha esitato a lasciare il suo nuovo sindacato quando l’Usb ha accettato l’accordo. Ora si considera un “cane sciolto” e le sue battaglie in difesa dell’ambiente, dice, continuerà a combatterle “fuori della fabbrica”.

Paesani o metalmezzadri?
Vista dal Minibar di piazza Gesù Divin Lavoratore, l’Ilva mostra un’ulteriore linea di frattura: quella tra gli operai tarantini e i cosiddetti “paesani”, gli eredi di quei “metalmezzadri” di cui parlò Walter Tobagi il 15 ottobre 1979 in un articolo sul Corriere della Sera reso celebre proprio da quel neologismo, inventato per definire quegli operai che lasciavano il paese e l’orto per il turno in fabbrica, e poi vi ritornavano dopo le otto ore di lavoro.

Ancora oggi, lamenta Ignazio D’Andria, è così: “La gran parte degli operai non si ferma a Taranto neppure per un caffè, portano tutto da casa e, finito il lavoro, se ne ritornano nei loro paeselli in Puglia e in Basilicata”.

Sono tantissimi e lavorano quasi tutti nelle acciaierie. Ad ascoltare i commenti degli avventori del Minibar, rappresentano quella maggioranza silenziosa che, nel conflitto tra la conservazione del posto di lavoro e la tutela della salute e dell’ambiente, ha scelto la prima opzione, “tanto con l’Ilva siamo noi a doverci convivere tutti i giorni”, dice D’Andria.

Nei giorni di vento
D’Andria è un figlio dei Tamburi che, dal bancone del Minibar di famiglia, è riuscito a conquistarsi un’indiscussa autorevolezza, seconda solo a quella dell’operaio Peppino Corisi che, prima di morire per un tumore ai polmoni nel 2012, fece affiggere una targa davanti alla sua abitazione, nella poco distante piazzetta De Vincentis, per maledire “coloro che possono fare e non fanno nulla per riparare” i danni dell’Ilva.

È nato nel quartiere, e con quella polvere rossiccia, un composto di metalli pesanti che si depositava dappertutto – sulle facciate delle case, lungo i marciapiedi, sulle foglie degli alberi e nei polmoni delle persone – da piccolo ci giocava, come tutti i bambini del rione. “Per noi era una polvere magica, la raccoglievamo in bustine e poi la spargevamo”, ricorda. Al suo racconto l’artista tarantina Patrizia Emma Scialpi si è ispirata per un cortometraggio appena selezionato al Modena Via Emilia doc festival. Si intitola Ogni cosa rosa e ha come protagonisti proprio i ragazzini del quartiere Tamburi.

Da quando si è inventato una T-shirt con la scritta in dialetto “Ie jesche pacce pe te” (Sono pazzo di te) e con i proventi delle vendite, che hanno incredibilmente superato il mezzo milione di euro, ha finanziato il reparto di oncologia pediatrica dell’ospedale cittadino, nessuno osa più contraddirlo, neppure quando afferma che la tanto odiata fabbrica “per un lungo periodo ha fatto la ricchezza di Taranto”.

Rione Tamburi, 2016. (Andrea Petrosino)

Negli anni ottanta, quando il centro siderurgico tarantino sfornava più di due terzi dell’acciaio prodotto in Italia, l’Italsider arrivò a impiegare 43mila persone, in un quartiere che ne conta meno di 18mila. “Solo qui ai Tamburi c’erano nove ristoranti e numerose attività commerciali”, aggiunge D’Andria. L’economia del quartiere prosperava grazie all’Ilva e, allora come oggi – anche se in misura minore –, tutti nel quartiere avevano un figlio, un nipote o comunque un parente che lavorava nella fabbrica.

Nessuno però si curava di quella polvere rossastra che si depositava dappertutto, sulle facciate delle abitazioni che venivano ridipinte dello stesso colore per evitare che lo sporco si notasse, sui marciapiedi e perfino sulla vegetazione. Soprattutto, la respiravano tutti, operai e cittadini dei quartieri vicini alla fabbrica.

Oggi, invece, nei giorni di vento, quando le correnti spirano da nordovest spingendo le polveri verso il rione Tamburi, l’azienda sanitaria locale consiglia di tenere chiuse le imposte, limitare al massimo l’uso dell’auto e praticare attività sportive all’aperto solo tra mezzogiorno e le sei del pomeriggio.

L’anno scorso il comune, dopo aver vietato ai bambini di giocare nei parchi del quartiere, dovette ritirare tra le polemiche un’ordinanza che chiudeva le scuole nelle giornate più ventilate. L’allarme generato da queste decisioni ha fatto nascere un movimento, i Tamburi combattenti, composto in gran parte da mamme. Chiedono la “chiusura delle fonti inquinanti” e la messa in sicurezza delle scuole. Ne fanno parte anche diversi operai del rione, come Marcello Casto, che dice senza mezzi termini: “Se avessi potuto, me ne sarei scappato da qui”.

All’Ilva sono attivi tre altiforni su cinque. Le cokerie, nonostante il sequestro, sono ancora in funzione

Quando spira lo scirocco, invece, i fumi e le polveri si dirigono verso nord, tra gli uliveti e i campi coltivati di Statte, dove gli agricoltori sopravvissuti hanno dovuto disfarsi di pecore e vacche, perché la diossina finiva nel latte e nei formaggi. A guidare la resistenza in questo caso è la masseria Carmine, una struttura ottocentesca sopravvissuta agli espropri fatti per realizzare la fabbrica, ma non alle conseguenze dell’inquinamento.

Dieci anni fa, durante un blitz con la polizia in assetto antisommossa, qui furono sequestrate e portate al macello seicento pecore perché contaminate da diossina. Da allora il titolare Vincenzo Fornaro è diventato uno dei leader del movimento che si batte per la chiusura dell’Ilva. Non si è fermato un giorno. Ha messo a disposizione la masseria per manifestazioni e iniziative ambientaliste, si è costituito parte civile al processo cosiddetto Ambiente svenduto – dove sono imputati i vertici dell’Ilva dal 1995 al 2012 – e ha guidato la lista verde Taranto respira alle elezioni comunali. Da allora non ha più allevato pecore perché, spiega, “sono ancora traumatizzato da quello che accadde e non sopporterei un altro abbattimento”.

Piuttosto, ha riconvertito l’attività. Si è messo a coltivare la canapa indiana, le cui radici sono indicate per bonificare il sottosuolo dalla diossina. E ulivi, che resistono all’inquinamento perché, spiega, le polveri si fermano sulla buccia delle olive, che poi vengono portate in frantoio, lavate e ripulite prima di essere spremute.

Se il Minibar di Ignazio D’Andria è il contraltare cittadino all’Ilva, la masseria Carmine può essere considerata il suo corrispettivo in campagna. Il gigante d’acciaio, osservato da qui, è meno incombente che ai Tamburi, ma produce un effetto straniante.

Il piano ambientale
Il Minibar di piazza Gesù Divin Lavoratore è un punto di riferimento anche per gli ambientalisti. È qui che incontro Luciano Manna, storico attivista di Peacelink, una rete ecopacifista nata nel 1991 che ha messo l’Ilva al centro delle sue battaglie. Da vent’anni l’associazione raccoglie testimonianze, foto e video anonimi realizzati all’interno dello stabilimento e ne fa oggetto di denunce pubbliche e alla magistratura. Sono stati loro a mostrare, con filmati inediti, come si lavora nelle cokerie e nei reparti più a rischio. Invitati all’incontro con l’azienda e il ministro Di Maio, alla fine di luglio 2018, hanno registrato le parole del vicepresidente dell’ArcelorMittal, Geert Van Poelvoorde, tirandole fuori il giorno in cui si è scoperto che l’accordo concede l’immunità penale ai dirigenti della multinazionale, in barba a uno dei princìpi cardine delle politiche ambientali dell’Unione europea, sintetizzato nell’espressione “chi inquina, paga”.

Il manager quel giorno diceva il contrario: “Pensate che io sia in grado di convincere il nostro management e i nostri ricercatori a venire qui e a dare una mano all’Ilva quando qualcuno dal primo giorno gli dice ‘attenti perché appena arrivati in Italia vi mettiamo in galera?’”.

Al Minibar interpretano la concessione dell’impunità ad ArcelorMittal come il segnale più evidente del “tradimento” del governo M5s-Lega nei confronti dell’elettorato tarantino, che ha creduto alle promesse di farla finita con le acciaierie al punto da consegnare ai cinquestelle quasi la maggioranza assoluta in città, dove hanno ottenuto il 47,6 per cento dei voti.

In città c’è stato un vero e proprio terremoto politico. Al punto che Massimo Battista, operaio dell’Ilva, ex sindacalista della Fiom-Cgil ed ex portavoce del Comitato cittadini e lavoratori liberi e pensanti, nonché uno dei massimi esponenti dei cinquestelle a Taranto, all’indomani dell’accordo per protesta ha lasciato il movimento.

Manna, l’attivista, ha con sé le 48 pagine del dossier consegnato al ministro dell’ambiente Costa nel luglio scorso. Il documento fa le pulci al cosiddetto addendum migliorativo del piano ambientale accettato dal precedente ministro Carlo Calenda, a partire dai “filtri ibridi” che dovrebbero contenere le polveri sottili. Peacelink li ha comparati con quelli attuali, giungendo alla conclusione che sono meno efficaci.

L’associazione ritiene un “mezzo bluff” pure la copertura delle discariche dove sono stoccati i rifiuti le cui polveri finiscono nell’atmosfera: si farà prima quella del parco dei minerali di ferro e in seguito quella del carbone; ma non sarà coperta la loppa, che sprigiona una polvere sottile come il borotalco, di colore grigio. Inoltre, non si parla dei rifiuti speciali: polveri d’altoforno, scaglie, fanghi e altre scorie di lavorazione. L’“addendum migliorativo” non dice nulla neppure sul reparto Gestione rottami ferrosi, uno dei peggiori, dove “le scorie liquide sono scaricate all’aperto con modalità ottocentesche, alla presenza di operai che respirano i fumi”, come spiega Peacelink nel dossier.

Rione Tamburi, 2016.
(Andrea Petrosino)

Attualmente all’Ilva sono attivi, 24 ore su 24, tre altiforni su cinque. Le cokerie, nonostante il sequestro giudiziario, non hanno mai smesso di funzionare. La fabbrica, a dispetto delle inchieste, non ha smesso di sbuffare neppure per un secondo. L’“interesse strategico nazionale” l’ha avuta vinta sugli scandali e sulle emergenze ambientali e sanitarie. Negli ultimi anni si contano ben dodici decreti governativi “salva-Ilva” e, in buona sostanza, le prescrizioni ambientali previste dall’Autorizzazione d’impatto ambientale – firmata nel 2011 dall’allora ministro dell’ambiente Corrado Clini e da attuare entro il 2015 – sono slittate al 2023, a causa del commissariamento e della vendita alla ArcelorMittal.

In una delle ultime udienze del processo Ambiente svenduto – “uno dei più importanti processi ambientali in Italia”, secondo Peacelink – l’ingegnera Barbara Valenzano, nominata dalla giudice per le indagini preliminari Patrizia Todisco, ha detto che “i canali dell’area parchi venivano bagnati con una ridotta frequenza perché il settaggio delle centraline meteo era tarato su valori alti, tali per cui venivano persi tutta una serie di dati che avrebbero comportato determinate conseguenze e obbligato all’adozione di rimedi”. Nei giorni in cui c’è più vento si chiudono le scuole e semmai si manipolano le centraline, non si spengono le acciaierie.

L’unico risultato delle inchieste penali – che hanno avuto come conseguenza il fallimento della famiglia Riva, che nel 1995 acquistò le acciaierie dallo stato, e il commissariamento governativo – è stato il rallentamento della produzione. Per ora funzionano gli altiforni 1, 2 e 4. Il 3, pieno di amianto, ha ormai esaurito il suo ciclo mentre il 5, il più grande, dovrà ripartire per aumentare la produzione, dalle attuali 4,8 tonnellate di acciaio all’anno alle otto previste – e giustificare così le 10.700 assunzioni – ma andrebbe letteralmente smontato e rimontato. Peacelink ha calcolato i costi ambientali della nuova gestione: le “emissioni convogliate” di polveri, senza calcolare quelle “non convogliate”, casuali e più pericolose, secondo i calcoli dell’associazione aumenteranno del 16 per cento, così come quelle di co2, che faranno dell’Ilva il maggiore diffusore di gas serra in Italia.

Il costo sociale è più difficile da stabilire. Non ci sono dati scientifici sugli effetti terribili delle sbuffate rosse e bianco-grigie, delle fiammate improvvise e delle esalazioni meno visibili ma altrettanto letali. Per trovare qualche cifra bisogna spulciare tra le pieghe di inchieste e processi: i periti nominati dalla procura hanno stimato in 11.550 le morti nell’area vicino alla fabbrica tra il 2004 e il 2010 – 1.650 all’anno, metà per malattie respiratorie o cardiovascolari – l’associazione Contramianto ha contato 472 morti per mesotelioma, 200 dei quali operai dell’Ilva, e un migliaio di tumori, ai polmoni, alla vescica, al colon e alla prostata. Ma, spiega Peacelink, “non esiste nessuno studio sistematico sui lavoratori delle cokerie, i più esposti alle sostanze cancerogene”. Nel 2010, secondo i periti, sono finite nell’atmosfera 4.159 tonnellate di polveri, essenzialmente diossina e piombo, e undicimila di ossido d’azoto e anidride solforosa. Sui muri delle case del quartiere Tamburi si vedono tutte.

Al Minibar sono consapevoli dei danni provocati ma, come sintetizza Romeo Reale, un operaio iscritto alla Fiom-Cgil, “senza alternative dove andiamo?”. L’economia tarantina ancora oggi dipende al 75 per cento dalla fabbrica che ha stravolto per sempre la fisionomia di una città che Pier Paolo Pasolini definì “perfetta”. “Vivere a Taranto è come vivere nell’interno di una conchiglia, di un’ostrica aperta”, scrisse nell’estate del 1959, con parole che oggi non possono essere più lontane dalla realtà. La prospettiva, per Ignazio D’Andria, è che con la prevista copertura dei parchi minerali “finirà che ci toglieranno pure il sole”.

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