01 marzo 2017 11:35

Marisol è una baby-sitter di origine cubana, una donna sulla sessantina che parla l’italiano con un’inflessione dolce e si disegna le sopracciglia con una matita. Faceva le pulizie e si occupava dei bambini per una famiglia di Milano, senza contratto, per sei euro all’ora. È rinchiusa da due mesi nel Centro di identificazione ed espulsione (Cie) di Ponte Galeria, a Roma.

Un pomeriggio di dicembre, mentre tornava a casa è stata fermata per strada dalla polizia e nel suo italiano stentato ha ammesso di avere i documenti scaduti. È stata portata al commissariato, poi a Roma, nell’ex caserma della polizia sulla Roma-Fiumicino, dov’è entrata nella gabbia. Una gabbia nella gabbia, come il senatore Luigi Manconi ha definito molte volte il Cie di Ponte Galeria. Un chilometro quadrato di edifici di cemento, circondati da recinzioni altissime nel bel mezzo del nulla, a otto chilometri dall’aeroporto di Fiumicino, tra il Tevere e l’autostrada. Una recinzione, un corridoio, una recinzione. Un cortile, una recinzione, una stanza.

Marisol è seduta sul letto nella sua camerata, le gambe stese su una coperta marrone di lana, ai piedi le pantofole blu, addosso un pigiama con delle stampe di orsetti, un foulard nero sulla testa. “Sto in pigiama tutto il giorno. Tutto quello che ho me l’hanno lasciato le altre ragazze quando se ne sono andate, anche le cose che ho addosso”, dice mentre mi guarda un po’ imbambolata. La tv è sempre accesa e sparge una luce biancastra nella penombra della camerata, l’unica finestra sul mondo per le detenute. “Ospiti”, le chiamano al ministero dell’interno.

In un dormitorio nel Cie di Ponte Galeria a Roma, il 25 febbraio 2017. (Annalisa Camilli, Internazionale)

Marisol sembra un’attrice di teatro subito dopo uno spettacolo: le sopracciglia disegnate con il kajal le tagliano in due la fronte e le danno un’espressione severa. “Ho cominciato a prendere gocce e pillole per dormire. Non mi era mai successo in vita mia di dover prendere delle medicine per dormire, invece ora le prendo tutte le notti”, dice con le lacrime che le disegnano rivoli sulle guance. “Ci sono ragazze che impazziscono, c’è chi non riesce a stare ferma”, racconta. “Io non riesco a stare fuori, all’aperto, non mi voglio far vedere dalle altre, preferisco stare a guardare la televisione”.

Quando viene il momento di mangiare spesso scoppiano tensioni, litigi. “Siamo tutte molto nervose, stanche”, dice Marisol, che racconta di aver sviluppato un’allergia alla coperta di lana e mostra un piccolo arrossamento sul polso. “Ho mal di testa tutti i giorni e il medico mi ha detto di bere caffè, ma il caffè mi rende ancora più nervosa”. Mi guarda, è diffidente, ma ha voglia di parlare con qualcuno, di mettere in fila quello che le sta succedendo.

Internazionale

Mentre parliamo nella camerata entra Maria, sostenuta da altre ragazze che la tengono sotto braccio, e si va a sedere sull’ultimo letto in fondo alla stanza. Si tiene la pancia, zoppica, respira a fatica. “Soffre di epilessia”, spiega Marisol. “È da giorni che si sente male”. Maria è nata e cresciuta in Italia, da genitori montenegrini, non è riuscita a ottenere la cittadinanza italiana per via dei continui cambi di residenza e di altri problemi burocratici. Vive in un campo rom vicino a Napoli, non ha i documenti.

In realtà è apolide. Ma ogni volta che la polizia fa una retata nel campo, qualcuno finisce nel Cie. Hanno tutte lo stesso problema: sono italiane, nate e cresciute in Italia da genitori stranieri, spesso di paesi dell’ex Jugoslavia, ma non sono riuscite a produrre i documenti necessari per ottenere la cittadinanza. “Ci trattengono per identificarci, poi quando capiscono che non possono farlo ci lasciano andare”, racconta in un perfetto italiano Maddalena, un’amica di Maria, mentre l’aiuta a stendere le gambe sul letto prima che arrivino i medici.

Le più vulnerabili
Nella camerata ci sono otto letti, uno a fianco all’altro. Sulle pareti l’immagine di un sole, fiori colorati, petali e nomi di ragazze incisi sui muri. Sembra l’interno di un asilo, invece è una specie di carcere dove sono recluse le donne straniere che non hanno i documenti in regola, finché non vengono identificate o rimpatriate. Possono essere trattenute per un massimo di novanta giorni, tre mesi. Le statistiche dicono che solo la metà delle persone che passano da un Cie viene rimpatriata, gli altri vengono rilasciati e tornano a essere degli irregolari.

La sezione maschile del Cie di Ponte Galeria è stata chiusa nel dicembre del 2015, dopo una protesta. Uno dei ragazzi tentò il suicidio, scoppiò una rivolta: gli altri detenuti incendiarono i materassi e distrussero le camerate.

Oggi nel Cie di Ponte Galeria sono rinchiuse 97 donne, le trasferiscono a Roma da tutta Italia, la maggior parte sono nigeriane come Gioia e Bella, che mi vengono incontro nel cortile: una con un pigiama rosa, l’altra con una giacca enorme marrone che tocca quasi per terra. Bella è giovanissima, i capelli corti pettinati in tante treccine ordinate. Si mette in posa all’ingresso della camerata, mi chiede di farle una foto, poi mi prega di non pubblicarla. Ha paura di essere riconosciuta. Entrambe sono originarie dello stato di Edo, in Nigeria, la zona da cui provengono quasi tutte le vittime della tratta che arrivano in Europa via mare.

Nel Cie di Ponte Galeria a Roma, il 25 febbraio 2017. (Annalisa Camilli, Internazionale)

Mentre parlo con Bella, Gioia ci interrompe. È fuori di sé, guarda nel vuoto: mi dice che ha quattro figli in Africa, che deve mantenerli. “Non ci credi che ho quattro figli?”, mi chiede aggressiva in inglese, comincia a spogliarsi, ad aprirsi la giacca, ad alzarsi la maglietta per mostrarmi il corpo consumato, il ventre e il seno avvizziti. “Perché sono qui dentro?”, chiede con un filo di voce, mentre le lacrime le riempiono gli occhi.

Raddoppiate le presenza da gennaio
Prostitute, vittime della tratta, badanti, baby-sitter, ragazze marocchine e tunisine appena sbarcate in Italia, cinesi arrivate per lavorare con un visto turistico poi scaduto, ragazzine rom nate e cresciute nel nostro paese, che non sono riuscite a ottenere la cittadinanza italiana per problemi burocratici: sono queste le persone rinchiuse nel Centro di identificazione ed espulsione di Roma, che in realtà dal 10 febbraio dovremmo chiamare Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr), come previsto dal decreto approvato dal governo di Paolo Gentiloni. Molte di loro fanno richiesta d’asilo dopo essere entrate nel Cie.

“Al momento le ospiti sono 97, di cui 63 sono richiedenti asilo”, conferma Silvia Agostini, responsabile dell’ufficio immigrazione della questura di Roma. Per la maggior parte sono di nazionalità nigeriana, seguite da quelle di nazionalità marocchina, bosniaca e cinese. Ma i paesi d’origine sono molti: dall’Ucraina alla Tunisia, dalla Russia al Salvador, fino alla Costa d’Avorio. “Il dato significativo è che dal 6 gennaio, data della nostra ultima visita, le presenze sono letteralmente raddoppiate, all’epoca erano 48”, sottolinea il senatore Luigi Manconi, presidente della commissione diritti umani del senato, in visita al centro il 25 febbraio.

In un dormitorio nel Cie di Ponte Galeria a Roma, il 25 febbraio 2017. (Annalisa Camilli, Internazionale)

Secondo Agostini, nell’ultimo mese e mezzo, il numero di persone trattenute è aumentato: “Nei mesi scorsi la media delle persone recluse era venti o trenta”. Secondo la responsabile, l’aumento si deve al fatto che nel centro sono trattenute le richiedenti asilo in attesa che le loro domande siano valutate, per decisione del tribunale. Secondo la funzionaria del senato Vitaliana Curigliano l’aumento è notevole: “Si è passati da una media di cinquanta persone nel 2016 a queste cifre dall’inizio del 2017”.

L’ipotesi è che sia cambiato l’orientamento dopo le prime circolari del capo della polizia Franco Gabrielli con le quali, a fine dicembre, veniva annunciato un piano straordinario di controllo del territorio nei confronti dei migranti irregolari. Alle circolari è seguito, il 26 gennaio, un telegramma della Direzione centrale dell’immigrazione e della polizia delle frontiere, inviato alle questure delle quattro città italiane dove sono ancora aperti dei Cie, che chiedeva “mirati servizi finalizzati al rintraccio” di “sedicenti cittadini nigeriani” in “posizione irregolare”, per i quali – si diceva nel telegramma – sarebbero stati riservati 95 posti nei Cie: 45 per gli uomini e 50 per le donne.

Il tutto rientra nel piano del governo Gentiloni che prevede l’estensione della rete dei Cie, con l’apertura di un Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) in ogni regione italiana, per un totale di 1.600 posti. Di fronte alle preoccupazioni espresse da numerose organizzazioni impegnate per la difesa dei diritti umani, il ministro dell’interno Marco Minniti ha assicurato che i nuovi centri saranno piccoli, con una capienza di cento persone al massimo, sorgeranno lontano dalle città e vicino agli aeroporti e soprattutto saranno “tutt’altra cosa rispetto ai Cie”.

Durante l’audizione davanti alla commissione diritti umani del senato il 21 febbraio, il ministro dell’interno ha chiarito che i nuovi centri serviranno per trattenere gli stranieri irregolari “che rappresentano un rischio per la sicurezza del paese”. Spiega il senatore Manconi: “Il ministro ha indicato un profilo del trattenuto che dovrebbe integrare una qualifica di pericolosità sociale, cioè d’insidia per l’ordine pubblico, di minaccia per lo stato democratico e a questo, e solo a questo, dovrebbe essere destinato il nuovo Cpr”. Stando a questa indicazione del ministro Minniti, continua Manconi, “si può dire che secondo la normativa vigente, di 97 persone oggi presenti nel Cie, solo una aveva motivi fondati per trovarsi lì dentro, tutte le altre sono persone che hanno bisogno di assistenza, e in numerosi casi di protezione”.

I nomi delle recluse nel Cie di Ponte Galeria sono stati cambiati per tutelarne l’identità.

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