16 giugno 2017 09:30

Quando serve il caffè ai clienti del bar dove lavora in pieno centro a Roma, Florin Fota ne sente di tutti i colori: “I rom sono ladri, i rom rubano i bambini, i rom non vogliono vivere nelle case”. Tra tutte le accuse l’ultima è quella che lo ferisce di più perché la sua famiglia si è trasferita in un appartamento da tre anni, dopo aver vissuto per più di dieci in un container nel campo rom di via di Salone, a Roma. “Se solo sapessero che sono rom, non berrebbero il caffè che preparo”, dice Florin ridendo.

Scuote la testa, come a voler scacciare una mosca. “Non posso rispondere sempre agli insulti, dovrei stare tutti i giorni a litigare. Le parole me le lascio scivolare addosso”, dice il ragazzo con un’espressione luminosa e un forte accento romano, mentre è seduto sul divano a fiori della sua casa a Casal Monastero, un quartiere all’estrema periferia orientale di Roma, dove nuovi palazzi a quattro piani di mattoncini rossi lasciano gradualmente il posto ai campi di grano. Qui finisce Roma, fuori dal Grande raccordo anulare, oltre i quartieri storici della periferia: San Basilio, Rebibbia, le fabbriche abbandonate sulla via Tiburtina.

“La maggior parte dei rom in Italia vive in un appartamento, ma tutti pensano che siamo nomadi e che non vogliamo una casa. È una scusa per giustificare l’esistenza dei campi e continuare a spendere un sacco di soldi per questo sistema che è costato all’Italia diverse multe da parte dell’Unione europea”, continua Florin. “La mia famiglia a Craiova, in Romania, viveva in una casa. Poi quando ci siamo trasferiti in Italia abbiamo imparato cosa significa vivere nelle baracche”.

Un figlio speciale
Il giorno in cui Dantes, il padre di Florin, è partito dalla Romania pioveva a dirotto. “Mia moglie era già partita con i due figli più piccoli, Daniel e Florin, mentre io e Cosmin, il più grande, abbiamo aspettato che si sistemassero per raggiungerli in Italia qualche settimana dopo”, racconta, mentre si accende una sigaretta nel salotto di casa. Cosmin è sordo dalla nascita e in Romania non riceveva nessuna forma di assistenza. Oggi ha 26 anni, è un ragazzo alto e sorridente ed è da poco diventato padre di una bambina, Emilia.

“Nel 2002 avevo perso il lavoro nella fabbrica di mattoni in cui ero impiegato e mio figlio Cosmin stava crescendo senza nessuna cura. Avremmo voluto che fosse seguito dai medici, avremmo voluto comprargli degli apparecchi acustici. È soprattutto per lui che abbiamo deciso di trasferirci in Italia”, racconta Dantes, nella sua polo di un giallo sgargiante, circondato dal fumo azzurrino di una sigaretta. Pulca, la sorella della moglie Ioana, si era trasferita con la famiglia a Roma qualche anno prima e viveva in una baracca, così Dantes, la moglie e i tre figli decisero di raggiungerla per far curare Cosmin, che all’epoca aveva undici anni.

Fino al 1856 in alcune zone della Romania – la Valacchia e la Moldavia – i rom erano venduti e comprati al mercato come schiavi. Con l’arrivo del comunismo nel novecento, in particolare dalla fine degli anni sessanta alla fine degli anni settanta, in Romania la comunità rom fu sottoposta a programmi di assimilazione forzata: le autorità locali furono obbligate a mettere a disposizione delle famiglie rom alloggi e posti di lavoro nelle aziende pubbliche. Queste politiche portarono a una sedentarizzazione delle famiglie rom e alla diffusione delle coppie miste.

Dopo la caduta del regime di Nicolae Ceaușescu nel 1989, la minoranza rom fu penalizzata dalla fine dell’economia di stato. Ci fu un’ondata di licenziamenti e si registrò un incremento della disoccupazione tra le famiglie rom. Uno studio pubblicato nel 1993 dall’università di Bucarest sulla condizione dei rom in Romania (Ţigani între ignorare şi îngrijorare) mostrava che il 79,4 per cento dei rom era disoccupato e il reddito di una famiglia rom era molto più basso della media nazionale. Per queste ragioni molte famiglie decisero di emigrare. Tra il 2000 e il 2001, con l’abolizione dell’obbligo di visto per i cittadini romeni, in Italia c’è stato un aumento degli arrivi di rom romeni che trovarono un alloggio di fortuna nelle baraccopoli delle grandi città.

L’amore nelle baracche
Quando la famiglia Fota è arrivata a Roma nel 2002, Dantes ha costruito una baracca in un insediamento informale in via di Villa Troili, sull’Aurelia. “Ci siamo associati con cinque famiglie e abbiamo costruito una struttura, una specie di gazebo. Abbiamo vissuto lì per sei mesi, fino a quando ci hanno sgomberato”, racconta. “Poi ci siamo spostati in un altro campo a via della Cesarina, ma ci hanno sgomberato anche da lì”. I figli di Dantes sono seduti nel salotto di casa: sono quattro, tutti maschi, si somigliano molto. In Italia è nato il più piccolo, Gabriel, che ora ha 12 anni e frequenta la prima media.

Casal Monastero, Roma, giugno 2017. (Simona Pampallona per Internazionale)

“Gli sgomberi sono terribili quando sei bambino”, ricorda Florin. “Arrivano le ruspe senza preavviso e distruggono tutto, sia che tu sia in casa, sia che tu non ci sia. E tutte le tue cose vanno perdute. Per loro sono solo costruzioni abusive, ma per te, per noi, erano casa nostra”, racconta. Nel 2006, dopo essersi spostata in diverse zone di Roma, la famiglia Fota si trasferì in un container nel campo attrezzato di via di Salone. Secondo l’ultimo rapporto dell’Associazione 21 luglio, in Italia risiedono 180mila rom, di questi 28mila vivono in emergenza abitativa nelle baraccopoli in 88 comuni italiani, gli altri vivono nelle case. In alcune città, come Roma, le amministrazioni hanno investito nella costruzione di campi rom istituzionali per superare l’emergenza, producendo assistenzialismo e segregazione.

Dantes confessa che quando ha chiuso a chiave la sua casa in Romania non avrebbe mai immaginato che avrebbe vissuto in un campo per tanti anni, prima in una baracca e poi in un container. “Quando mi sono lasciato dietro le spalle la mia casa a Craiova ho pensato che saremmo stati per sei mesi in Italia, il tempo di portare Cosmin da un medico e comprare degli apparecchi acustici”. Invece i mesi sono diventati anni: di baracca in baracca, di sgombero in sgombero. I figli si sono iscritti a scuola, i genitori hanno trovato un lavoro, è nato Gabriel, e Cosmin ha frequentato un istituto per sordi a Roma, dove ha imparato la lingua dei segni e ha incontrato la sua fidanzata, Sara.

Cosmin e Sara si sono conosciuti all’istituto per sordi Magarotto di Roma. Anche Sara è sorda. La sua famiglia è venuta in Italia dall’Albania per garantire cure e assistenza alla ragazza. “Quando la famiglia di Sara ha scoperto che Cosmin era zingaro, non è stata felice”, racconta Dantes. “Da genitore lo posso capire, erano preoccupati perché noi all’epoca vivevamo in un container”, ricorda.

Sono stati momenti difficili per la famiglia Fota, Dantes aveva costruito una baracca per Sara e Cosmin, ma la famiglia di Sara era pronta alla guerra. Allora la ragazza è stata rimandata a casa dai genitori, ma dopo qualche giorno si è ripresentata alla porta del container con la valigia. “Sara è minuta, ma ha un gran carattere ed era molto innamorata di mio fratello Cosmin, così ha convinto la sua famiglia che sarebbe stata bene anche al campo”, racconta Florin. “Un giorno i genitori di Sara ci hanno chiamato. ‘Che cosa le avete fatto?’, ci hanno chiesto. ‘Vuole vivere con voi’”. Sara e Cosmin ora vivono nella casa dei genitori e da tre mesi hanno una figlia.

Dantes e Ioana, il padre e la madre di Florin, nel loro appartamento a Casal Monastero, Roma, giugno 2017. (Simona Pampallona per Internazionale)

“In Romania con mio fratello comunicavamo con un linguaggio che ci eravamo inventati tra di noi e con le espressioni del viso, nessuno in famiglia conosceva la lingua dei segni e ogni volta che a casa discutevamo di qualcosa Cosmin ci guardava in silenzio, senza capire”, ricorda Florin. Ora sia Daniel, il secondo figlio di Dantes, sia Florin conoscono la lingua dei segni, perché hanno seguito un corso in Italia, e fanno da interpreti per il fratello maggiore ogni volta che serve. “A casa parliamo romeno, perché papà non vuole che dimentichiamo la nostra lingua; parliamo italiano perché ci viene naturale e per includere Sara nelle discussioni; parliamo qualche parola di romanì, la lingua dei rom, e infine la lingua dei segni con Cosmin. Quattro lingue”, dice Florin orgoglioso.

Volevamo pagare le tasse
“Cosmin è stato l’unico ragazzo del campo di via di Salone a frequentare le scuole superiori”, ricorda la madre Ioana. “I bambini rom del campo lasciano le scuole presto”. Invece per Cosmin la priorità era imparare la lingua dei segni e i genitori hanno fatto i salti mortali per fargli frequentare l’istituto. “A volte tutti i soldi che avevo li usavo per fare la benzina”, racconta Dantes. “Mi serviva la macchina per accompagnare i figli a scuola e andarli a riprendere perché le scuole erano lontanissime dal campo”. La sua unica preoccupazione era che i suoi figli non diventassero criminali.

“Nei campi diventare delinquenti è molto facile”, racconta Dantes. “I ragazzi vanno a rubare, perché non hanno niente da fare, non hanno prospettive e vedono gli altri che hanno dei telefoni più belli”. Per spaventare i figli, Dantes gli mostrava la polizia, quando arrivava al campo a sirene spiegate, con un mandato d’arresto per qualche ragazzino che aveva rubato un portafoglio o un cellulare. “Oggi vi può anche far piacere avere un telefono di marca in tasca, ma ricordate che non esiste ladro che non sia andato almeno una volta in galera”, diceva. “Prima o poi vi prenderanno e sconterete tutto”.

Per Dantes è sempre stato chiaro che dalla povertà estrema del campo sarebbero potuti uscire solo se i ragazzi avessero mantenuto la fedina penale pulita, perché solo così avrebbero potuto trovare un lavoro. “Ho sempre detto ai miei figli che dovevano tenersi lontani da certe compagnie, che i soldi si guadagnano con il lavoro. Se qualcuno di loro fosse finito in galera, niente ci avrebbe restituito la serenità”, dice Dantes.

A volte la polizia fermava i ragazzi alla fermata dell’autobus e controllava i documenti. Quando vedeva sulla carta d’identità la residenza in via di Salone 323 subito scattavano i controlli. “Era la prassi, ci fermavano, guardavano i documenti e controllavano se avevamo dei precedenti penali”, racconta Florin. La famiglia Fota, però, non risultava nell’archivio delle forze dell’ordine. “Noi volevamo lavorare, volevamo una casa, volevamo pagare le tasse come tutti gli altri”, dice Florin.

Il curriculum di un altro
Florin ha 21 anni e dopo aver frequentato un corso professionale dai salesiani è diventato cuoco e cameriere, ma quando ha cominciato a cercare lavoro ha incontrato grandi difficoltà. “Nel curriculum avevo scritto che ero residente in via di Salone e non mi chiamavano mai ai colloqui”, racconta.

“Allora con un’amica ho fatto un esperimento: ho cambiato la residenza sul curriculum. Ho scritto che vivevo alla Rustica e in effetti sono cominciate ad arrivare le telefonate e le risposte alle email”, continua. Vivere in un campo rom non è solo un problema per le condizioni di vita, per l’igiene e la salute delle persone, ma sopratutto per lo stigma sociale che porta con sé. “Tutti pensano di sapere cosa significhi essere rom, senza conoscerci”, continua.

Per rompere questi pregiudizi Florin Fota ha fatto molto volontariato e attivismo, prima con la Comunità di sant’Egidio, poi con l’Associazione 21 luglio, infine con il servizio civile in un programma di assistenza per le persone disabili a Tor Bella Monaca. “Solo quando sono con i disabili non mi sento discriminato, sento che mi accettano per quello che sono”, spiega Florin.

Da quando la famiglia Fota abita in una casa, tre stanze dipinte di rosa, cucina, bagno e due balconcini, la vita è migliorata per tutti. Florin fa il cameriere in un bar, Daniel fa il panettiere in un forno, Cosmin ha preso la patente e spera un giorno di poter lavorare. Gabriel frequenta la prima media e va a scuola a piedi. Ci va tutti i giorni. “Quando abiti in un campo devi aspettare il pulmino che ti viene a prendere a scuola, di solito arrivi che la lezione è già cominciata e ti metti all’ultimo banco, poi ti alzi prima che la lezione finisca per riprendere il pulmino. Sono stato bocciato due volte alle medie”, racconta Florin, che ora frequenta un corso privato d’inglese due volte alla settimana.

La sua famiglia è stata la prima a lasciare il campo attrezzato di Salone per andare a vivere in un appartamento. “Non dimenticherò mai come ci guardavano le altre persone del campo, non credevano ai loro occhi, ci chiedevano come avevamo fatto”, racconta Florin. “Vivere nei campi abitua le famiglie rom a dipendere dallo stato, favorisce l’assistenzialismo”, spiega. “Invece quello che lo stato dovrebbe fare è sostenere l’autonomia dei rom, aiutarli a uscire dai campi e renderli autonomi”.

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