24 gennaio 2019 12:56

Stephan ha una valigia pesante, nera, piena di vestiti. La porta da solo, mentre suo fratello e un amico lo aspettano fuori dal cancello del centro di accoglienza in cui abita da due anni. Si salutano, poi prendono la valigia un manico per uno, si avviano verso la lunga strada asfaltata che collega il Centro di accoglienza per richiedenti asilo (Cara) di Castelnuovo di Porto alla via Tiberina.

Da due giorni il centro di 12mila metri quadrati che sorge a 54 chilometri da Roma – in una zona di capannoni abbandonati tra il corso del Tevere e la via Flaminia – sta facendo parlare di sé, perché il ministero dell’interno ha deciso di chiuderlo e di trasferire senza preavviso le cinquecento persone che ci abitano.

Stephan viene dalla Repubblica Centrafricana e in Italia ha ottenuto la protezione sussidiaria, ha saputo due giorni fa che il centro in cui vive chiuderà entro la fine del mese e che anche lui sarà trasferito. Ma non sa dove lo porteranno, non ha ricevuto nessuna comunicazione ufficiale. Alcuni suoi compagni sono partiti ieri, altri stamattina. Nell’incertezza ha deciso di andarsene, perché ha appena trovato un lavoretto.

Niente di che, ma se si trasferisse in un’altra regione lo perderebbe. E la prospettiva di ricominciare tutto da capo in un altro posto lo getta nello sconforto. Molti nelle ultime ore stanno facendo come lui, lasciano il centro autonomamente per evitare di essere trasferiti.

Condannati a perdere tutto
Anche un altro ragazzo della Costa d’Avorio, Kombala Gbona, ha lo stesso problema: “Sono molto preoccupato, perché devo essere trasferito domani, ma io voglio rimanere a Roma, perché se vado fuori rischio di perdere il lavoro”. Da poco distribuisce volantini pubblicitari, guadagna poco, ma ha paura di perdere il poco che ha: “Meglio che non fare niente, per noi è difficile trovare lavoro”. Gbona però non ha nessuno che possa ospitarlo e quindi teme di dover accettare il trasferimento e di perdere tutto.

“Quello che lascia senza parole è che le persone siano state trasferite senza preavviso e senza che si sia tenuto conto delle loro diverse situazioni personali: qui ci sono persone che hanno fatto domanda di asilo, persone che sono in attesa, persone che sono in fase di ricorso e anche chi ha già il permesso di soggiorno”, spiega Tareke Brhane, mediatore culturale di origine eritrea che collabora con il centro. “All’interno della struttura ci sono ancora 22 famiglie e molte vittime di tratta”, continua. Per il mediatore soprattutto chi è in fase di ricorso non si vuole spostare in altre regioni italiane, perché non può trasferire la sua pratica. Altrimenti dovrebbe seguire il processo per il riconoscimento dell’asilo a distanza.

Fuori del centro i lavoratori della Auxilium hanno organizzato un presidio improvvisato che è stato allestito davanti al cancello della struttura. Francesca Maurizi, una delle psicologhe del Cara, conferma lo stato di agitazione diffuso: “Gli ospiti chiedono rassicurazioni, non sanno dove andranno, hanno paura di dover ricominciare tutto da capo”.

La partenza del primo pullman che era stato precedentemente bloccato, Castelnuovo di Porto, 23 gennaio 2019. (Matteo Minnella, OneShot)

Ma anche i lavoratori e le lavoratrici della Auxilium sono in una situazione di difficoltà. Giuseppe Asprella, responsabile del personale della cooperativa, conferma che “in tutto 120 persone dal 1 febbraio rischiano di rimanere a casa senza stipendio”. Asprella dice di aver appreso della chiusura del centro dai giornali e di non aver ricevuto ancora nessuna comunicazione ufficiale: “Ci faremo sentire, andremo in presidio al ministero dello sviluppo economico il 24 gennaio”. Tra le operatrici che lavorano al Cara da più tempo, Marilena Bartoli è stata prima un’addetta alla mensa poi un’addetta alle pulizie del centro. Insieme a un gruppo di colleghe sta organizzando la protesta: “Qui ci sono persone monoreddito oppure intere famiglie che lavorano al Cara, dal 1 febbraio rimarranno senza stipendio, senza che ci sia stato prospettato nessun piano di ricollocamento”.

Come pacchi
Il 23 gennaio senza preavviso e senza sapere la loro destinazione, dal Cara di Castelnuovo di Porto sono partiti tre autobus con 75 persone a bordo. Il giorno precedente ne erano partite 35. Le donne e le famiglie sono ancora nella struttura, tra loro 12 minori. Entro il 26 gennaio circa 300 persone delle 500 presenti fino a due giorni fa saranno trasferite in altre regioni italiane. La decisione, presa dal ministero dell’interno e dalla prefetta di Roma, Paola Basilone, è stata comunicata con solo 48 ore di anticipo alla struttura che è attiva dal 2008 ed è arrivata a ospitare in alcuni periodi anche mille persone.

“Era tutto programmato, il ministero ha dato ordine di trasferire trecento migranti. Il contratto di gestione, che è già stato prorogato cinque volte, scade il 31 gennaio”, ha detto Paola Basilone, spiegando che “il centro andava chiuso e non c’era possibilità di continuare”. L’appalto vinto dalla cooperativa Auxilium a partire dal 2014 era stato già prorogato nell’aprile del 2017 ed era in scadenza. Secondo la prefetta Basilone, “non erano possibili ulteriori proroghe”.

In una conferenza stampa il 23 gennaio il ministro dell’interno ha detto che la chiusura di questo tipo di centri era parte del suo programma elettorale e che dopo Castelnuovo di Porto saranno chiusi altri centri simili: “Mi ero impegnato a chiudere le megastrutture dell’accoglienza, dove ci sono sprechi e reati, come a Bagnoli, a Castelnuovo di Porto, a Mineo. E lo stiamo facendo”. Intorno alle 12 mentre uno dei pullman con i migranti a bordo stava lasciando la struttura, la parlamentare di Liberi e uguali Rossella Muroni si è messa davanti al mezzo, costringendolo a fare marcia indietro.

Qui non c’è solo un problema con gli immigrati, questo è un problema di diritti civili, spiega Muroni

“Quando gli operatori di Auxilium mi hanno spiegato che avevano ricevuto una comunicazione da parte della prefettura che imponeva loro di far salire sui pullman un certo numero di persone, senza che fosse stato spiegato né dove fossero dirette, né in che tipo di centri, senza che fossero valutate caso per caso le storie di queste persone, lì mi sono arrabbiata e ho bloccato il pullman e ho chiesto che almeno questi tre pullman fossero informati sulla destinazione”, racconta Muroni. I pullman sono ripartiti, dopo che è stato comunicato dove sarebbero state trasferite le persone.

“Qui non c’è solo un problema con gli immigrati, questo è un problema di diritti civili. Ho incontrato un gruppo di vittime di tratta all’interno del centro che erano terrorizzate dall’idea di essere spostate, di essere divise, di essere portate chissà dove”, conclude Muroni. “Nessuno vuole difendere lo status quo, perché sappiamo che i grandi centri non funzionano, ma la cosa che non capisco è come sia possibile chiudere i Cara e contemporaneamente chiudere attraverso il decreto sicurezza i piccoli centri per l’accoglienza diffusa, cioè gli Sprar”.

Quale accoglienza?
In effetti il decreto sicurezza e immigrazione, approvato dal parlamento il 27 novembre del 2018, prevede il potenziamento della rete dei centri straordinari di accoglienza e dei Cara e al contrario un ridimensionamento dell’accoglienza diffusa, cioè del sistema Sprar. Quindi la decisione del ministero dell’interno di chiudere il Cara di Castelnuovo di Porto ha creato molta confusione, perché è sembrata andare in una direzione opposta a quella indicata dal decreto sicurezza convertito da poco in legge.

I Cara sono grandi centri, spesso capannoni o strutture dismesse riconvertite, che ospitano anche migliaia di persone come nel caso del Cara di Mineo, in Sicilia. Sono stati aperti nel 2008 e sorgono lontani dai centri abitati, in una condizione di isolamento per i richiedenti asilo. Sono gestiti dalle prefetture che assegnano gli appalti per la gestione a cooperative e soggetti privati dopo un bando di gara. Dovrebbero in teoria essere strutture per la prima accoglienza e invece nel corso degli anni si sono trasformate in strutture per la seconda accoglienza dove finiscono anche persone vulnerabili come vittime di tortura e di tratta, e famiglie. Per legge, nei Cara i richiedenti asilo dovrebbero stare fino a 35 giorni in attesa che la loro pratica sia esaminata dalla commissione territoriale competente, ma invece i soggiorni arrivano anche a periodi superiori ai due anni.

Nel corso degli anni Cara e Cas sono spesso stati protagonisti di inchieste giornalistiche e giudiziarie per le pessime condizioni dell’accoglienza, ma anche per appalti assegnati con criteri poco chiari o per la penetrazione di gruppi criminali nella gestione. Spesso gli attivisti e gli stessi migranti ospiti di questo tipo di strutture ne hanno chiesto la chiusura. Anche il Cara di Castelnuovo di Porto in undici anni di attività diverse volte è stato al centro di queste vicende.

Alcuni ragazzi del centro si avvicinano ai giornalisti per spiegare la loro situazione, Castelnuovo di Porto, 23 gennaio 2019. (Matteo Minnella, OneShot)

Nel 2014, quando la gestione era in mano a un’altra cooperativa, gli stessi migranti avevano protestato con blocchi stradali per far luce sulle pessime condizioni dell’accoglienza all’interno del centro, nel 2016 alcuni rapporti hanno denunciato le condizioni di isolamento, di sovraffollamento e la mancanza di servizi del centro che nel frattempo si era in parte trasformato in un hub per i ricollocamenti dei richiedenti asilo nei paesi europei che avevano aderito al sistema delle quote. Sempre nel 2016 l’Autorità nazionale anticorruzione (Anac), dopo alcune ispezioni aveva rilevato problemi legati all’erogazione dell’acqua calda.

Un articolo del manifesto pubblicato il 13 gennaio del 2019 denuncia le condizioni fatiscenti dei dormitori e la mancanza di un impianto di riscaldamento funzionante. Scrive il manifesto: “Per ogni ospite, la cooperativa Auxilium dei fratelli Chiorazzo, vincitrice dell’appalto, incassa 21,90 euro al giorno”, una cifra inferiore ai 35 euro previsti dal ministero per questo tipo di accoglienza. “L’immobile di proprietà dell’Inail dal 2008 è stato dato in concessione alla prefettura di Roma, ma del contratto che doveva essere redatto a seguito di accordi non esiste traccia. Viene definito nella relazione dell’Autorità nazionale anticorruzione (Anac) del 2016 un ‘contratto passivo’ e la passività sembrerebbe risiedere anche nella irresponsabilità con la quale entrambi i contraenti gestiscono le opere di manutenzione”, è scritto nell’articolo.

“Quello su cui non c’è alcun dubbio è la somma corrisposta dalla prefettura all’Inail, che dal 2008 al 2017 è stata di 12.260.735,2 euro, spese emergenziali escluse”, conclude l’articolo. I ragazzi lasciano in bicicletta il Cara di Castelnuovo nonostante la pioggia intensa, il centro abitato più vicino è a cinque chilometri di distanza. I richiedenti asilo confermano: “Il centro è lontano da tutto, viviamo in condizioni pessime, siamo agitati perché non sappiamo dove finiremo, ma il centro non va bene così”.

Le vittime di tratta e il decreto sicurezza
Blessing e suo figlio Ibrahim sono usciti dal centro senza giacca e quando ha cominciato a piovere hanno cercato riparo nella tenda allestita dalla protezione civile. Ibrahim è nato a luglio e ha solo pochi mesi di vita. Blessing ha la protezione umanitaria e rischia di finire per strada con il suo bambino, senza essere ricollocata da nessuna parte.

La chiusura del Cara di Castelnuovo di Porto non è legata all’approvazione del decreto sicurezza. Sulla questione si è fatta molta confusione. Anzi la chiusura di un centro di prima accoglienza va in una direzione opposta alle linee guida previste dal decreto. Lo conferma Antonello Ciervo, avvocato dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) che il 23 gennaio è davanti al Cara con Valentina Calderone di A buon diritto per raccogliere le procure dei richiedenti asilo che sono stati spostati dal centro senza preavviso e senza conoscere la destinazione del loro trasferimento. “Gli effetti del decreto sicurezza sono slegati dalla chiusura del centro e ci sarebbero stati in ogni caso, in particolare ci sono diverse persone titolari di protezione umanitaria che rischiano di finire per strada e per loro si può fare molto poco, perché la legge è cambiata e non sono previste forme di accoglienza per chi ha una protezione umanitaria”.

Tra loro c’è anche Blessing: avevamo raccontato la sua storia qualche mese fa, la ragazza è stata riconosciuta vittima di tratta, ma non ha voluto denunciare i suoi aguzzini per il timore di avere ripercussioni, per questo è finita in un centro come quello di Castelnuovo e non in una casa rifugio o in un centro per donne vittime di tratta. È terrorizzata dall’idea di finire per strada con un bambino così piccolo, e insieme a lei un’altra ragazza nigeriana che ha lo stesso problema: Lovett.

“Nel Cara di Castelnuovo di Porto ci sono diverse donne che stanno facendo un percorso di emersione dalla tratta, alcune di loro hanno anche concluso il percorso e hanno scelto di non entrare in una struttura protetta, ora hanno bisogno di una seconda accoglienza. Anche loro sono a rischio deportazione. Questo è molto grave perché queste donne hanno costruito nel contesto romano un percorso e ora si troveranno senza nulla”, afferma Francesca De Masi, operatrice della cooperativa Be Free che si occupa di vittime di tratta.

“Nessuno ha chiesto agli enti antitratta della regione Lazio se trasferire queste donne sia pericoloso per la loro incolumità”, afferma l’operatrice che parla di 24 persone in questa condizione. “Abbiamo compilato una lista di questi casi: molte di loro hanno appena ottenuto la protezione internazionale, altre sono in attesa di una risposta della commissione. Quello che vorremmo è che queste persone non fossero spostate dal territorio perché gli effetti per loro potrebbero essere gravissimi”, conclude De Masi.

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