Vanessa corre incontro ai volontari che hanno portato la spesa nel campo. Saltella con la cugina Esmeralda sul piazzale d’asfalto in un sabato pomeriggio di maggio. Le mancano la scuola, i compagni, le maestre, i compiti. Del coronavirus sa tutto, lo ha imparato in tv: che il virus è pericoloso, che bisogna stare almeno a un metro di distanza, che bisognerebbe mettersi le mascherine, che si deve stare a casa. Ma quale casa? A sette anni, la bambina vive insieme ai suoi cinque fratelli e ai suoi genitori in un container nel campo rom di Castel Romano, sulla via Pontina, appena fuori Roma. Sono le due del pomeriggio e a pranzo non ha mangiato, ha fatto solo colazione. Latte e biscotti. Forse mangerà a cena, ma non è sicura.
Indossa dei pantaloni di un pigiama bianco che le vanno troppo larghi. Così mentre parla spedita dei compagni di scuola della prima elementare che le mancano e della sua vita nel campo, deve fermarsi ogni tanto per tirarseli su.
Durante la pandemia, con la cugina Esmeralda ha giocato a nascondino e a “un-due-tre stella”. I pomeriggi passano rapidi anche durante il confinamento, con gli altri bambini del campo che giocano con quello che trovano in giro: cassette per la frutta e passeggini rotti.
Il rischio di denutrizione
La pandemia ha reso ancora più estreme le condizioni di vita di chi vive nei campi rom della capitale, molte famiglie sono rimaste senza reddito e alcuni stanno patendo la fame. Il rischio, secondo il presidente dell’Associazione 21 luglio Carlo Stasolla, è che molti bambini soffrano di carenze alimentari e di denutrizione, e per questo l’associazione si è fatta promotrice di un programma per la distribuzione dei pacchi spesa alle donne che hanno bambini da zero a tre anni.
Contemporaneamente sono distribuiti gli stessi pacchi anche alle donne con le stesse necessità del quartiere Tor Bella Monaca di Roma, dove si trova la sede dell’associazione.
Stasolla denuncia l’assenza totale delle istituzioni all’interno dei campi. I fondi provengono tutti da privati
“Ci siamo concentrati su questa fascia di età perché abbiamo pensato che sia la più vulnerabile, quella a cui non si rivolge nessuno. Subito dopo il 9 marzo abbiamo condotto una ricerca per capire quale fosse l’impatto della pandemia sulle baraccopoli romane e abbiamo scoperto che oltre al sovraffollamento c’era un problema di carenza alimentare, soprattutto per i bambini”, afferma Stasolla. “Abbiamo rilevato casi di denutrizione e di disidratazione proprio nella fascia di età tra gli zero e i tre anni, per questo abbiamo cominciato a confezionare cinque tipi di pacchi destinati a loro con latte in polvere, omogeneizzati e pannolini”. L’indagine è stata condotta sui 3.500 abitanti delle baraccopoli formali monoetniche della città di Roma, ovvero in sei villaggi attrezzati e in nove cosiddetti campi tollerati.
Ogni sabato pomeriggio, per tutto il periodo dell’epidemia, l’associazione insieme a un gruppo di volontari confeziona 250 pacchi, destinati al sostentamento di altrettanti bambini minori di tre anni che vivono nelle baraccopoli romane, in condizioni di vita poverissime. “Spendiamo 4.500 euro alla settimana per questi pacchi, abbiamo lanciato la campagna di raccolta fondi ‘Noi non ci fermiamo’ che ci consente di portare questi aiuti, ma da parte del comune non c’è nessun sostegno”, continua Stasolla, che denuncia l’assenza totale delle istituzioni all’interno dei campi. I fondi sono tutti versati da privati.
In un luogo dimenticato
Alcune famiglie nei campi hanno fatto richiesta dei buoni spesa messi a disposizione dal comune, ma solo pochissimi li hanno ricevuti. “La situazione per molte famiglie è disperata, si tratta di persone che erano in difficoltà anche prima della pandemia e ora si trovano senza mangiare. Ci è capitato di distribuire dei pacchi per bebè e vedere che poi le mamme spalmavano sul pane gli omogeneizzati per dar da mangiare anche ai figli più grandi”, conclude Stasolla. La madre di Esmeralda, per esempio, faceva la colf a ore prima dell’epidemia, ma con la quarantena ha perso il lavoro e le sue poche entrate.
“Sono sola con mia figlia, sono separata da mio marito, vivo in quella roulotte”, racconta Jasminka Hrustic, la madre di Esmeralda. “In queste settimane senza l’aiuto delle altre famiglie del campo e dei pacchi dei volontari non avremmo mangiato”. Per Hrustic la situazione è particolarmente grave e i volontari della 21 luglio le hanno dato appuntamento fuori dal campo per darle un pacco supplementare con dei beni di prima necessità come pasta e riso, anche se non ha una figlia minore di tre anni.
Nel campo rom di Castel Romano vivono poco più di cinquecento persone in condizioni igieniche disperate: non c’è acqua corrente, l’immondizia non viene raccolta, i bambini giocano tra i topi e le pantegane. Il villaggio attrezzato di Castel Romano è stato costruito nel 2005 per volere dell’allora sindaco di Roma Walter Veltroni, e sorge all’interno della riserva naturale di Decima Malafede, in un territorio che in realtà dovrebbe essere area protetta.
È isolato ed è diventato negli anni un luogo dimenticato, le autorità sanitarie non hanno fatto controlli nei campi. Secondo il rapporto annuale dell’associazione 21 luglio, dal 2016 al 2019 la popolazione del campo si è dimezzata ed è passata da mille a cinquecento abitanti: c’è stato un grosso incendio nel gennaio 2020 e prima che scoppiasse la pandemia molte famiglie hanno lasciato il campo, che in teoria dovrebbe essere chiuso entro il 2022.
Il doppio delle richieste
Hanifa Govorusic, 29 anni, vive in uno dei container del campo e dice che la situazione è insostenibile: “Per noi rom stare a casa durante la quarantena ha significato non poter uscire dal campo, rimanere tra i topi e l’immondizia e qui sempre più famiglie non hanno di che vivere”. Govorusic sta aiutando l’associazione a gestire i pacchi per i bebè. “Se ci dovesse essere un solo caso di covid-19 sarebbe un disastro. Qui viviamo tutti vicini, non abbiamo acqua per lavarci”.
Secondo la Caritas italiana, che ha condotto un’indagine nazionale nel periodo dal 9 al 24 aprile, dopo due mesi di isolamento in Italia è raddoppiato il numero delle persone che per la prima volta si sono rivolte ai Centri di ascolto e ai servizi dell’organizzazione, rispetto a quelle che erano nel circuito prima dell’emergenza sanitaria. È aumentata notevolmente la richiesta di beni di prima necessità, cibo, viveri e pasti a domicilio, empori solidali, mense, vestiario, ma anche la domanda di aiuti economici per le bollette, gli affitti e le spese della casa.
Ma a far fronte a queste difficoltà sono quasi esclusivamente le organizzazioni di volontariato e il terzo settore. Nel quadrante nordorientale della capitale, a occuparsi della spesa solidale sono i volontari di Nonna Roma, che già da prima della pandemia si occupavano della povertà assoluta nella capitale. “La settimana dopo l’entrata in vigore del decreto che ha chiuso il paese a inizio marzo, abbiamo attivato la spesa sospesa in una settantina di supermercati della capitale e una raccolta fondi”, racconta Alberto Campailla, coordinatore dell’associazione Nonna Roma.
Le ong necessarie
L’associazione è attiva da tre anni con un banco alimentare che serve circa 250 nuclei familiari in tutta la città, soprattutto nella zona est della città. Nell’ultimo fine settimana prima dell’inizio della cosiddetta fase due, la rete ha distribuito pacchi alimentari a circa 3.700 famiglie, cioè a circa dodicimila persone. L’iniziativa è appoggiata anche dall’Arci, dal centro sociale Astra e dal centro sociale Dar Bazar. I volontari che partecipano alle attività sono 250, e si occupano di analizzare le richieste, reperire il cibo e distribuirlo in tutta la città. “Negli ultimi tre anni abbiamo intercettato soprattutto famiglie con problemi di disoccupazione strutturale, ma con l’emergenza sanitaria è cambiato il tipo di persone a cui ci rivolgiamo. Sono rimasti senza mangiare tutti quelli che lavoravano in nero, nell’edilizia, nei cantieri, nei servizi di cura alla persona come colf e badanti”, spiega Campailla.
“Poi c’è un nuovo tipo di povertà: persone giovani con partita iva o lavori precari, anche con un livello alto di studi che con l’emergenza si è trovato senza soldi e senza possibilità di lavorare”, continua il coordinatore del progetto. Per Campailla, questo tipo di persone in difficoltà è in aumento. “Sono persone che hanno fra i trenta e i quarant’anni, non hanno soldi da parte, hanno magari investito per aprire attività o per studiare, ma si ritrovano senza lavoro”.
Senza questa rete di associazioni, centri sociali, ong, la situazione in città sarebbe forse scoppiata. “I buoni spesa sono stati insufficienti dal punto di vista quantitativo e sono stati gestiti in maniera inefficiente dal comune di Roma. L’amministrazione comunale ha deciso di accentrare tutto e di non delegare ai diversi municipi, con il risultato di grandi ritardi e inefficienze nell’erogazione”, spiega Campailla. “A un mese dalla procedura di richiesta dei buoni spesa a Roma, la metà delle famiglie che ne hanno fatto richiesta non ha ricevuto risposte. Si tratta di persone che si trovano in una necessità immediata perché non lavorano da due mesi”.
Il comune ha recentemente appoggiato le associazioni con la distribuzione di 45mila pacchi spesa, in parte richiedendo alle associazioni stesse di fare la distribuzione. Nel quartier generale dell’associazione, un magazzino sulla via Palmiro Togliatti, fervono i preparativi per la composizione dei pacchi: pasta, riso, passata di pomodoro, tonno, verdura fresca. Tutti indossano la mascherina e i guanti e si passano i bustoni carichi di cibo, come in una catena umana,
“Ci siamo organizzati appena abbiamo chiuso il circolo Arci Sparwasser, prima non ci conoscevamo. La risposta dei volontari, ma anche della cittadinanza, è stata straordinaria. C’è stata una corsa alla solidarietà”, racconta Claudio Riccio, volontario del circolo Arci Sparwasser del quartiere Pigneto. “È incredibile che le istituzioni in questo momento non riescano a fare a meno delle tanto vituperate associazioni e ong. Per anni siamo stati considerati quasi un pericolo, ma ora sta emergendo molto chiaramente che senza questo tessuto sociale di associazioni, le istituzioni non sarebbero in grado di organizzare una rete che riesca a portare il cibo e assistenza in tutta la città”, conclude Riccio, che si augura che alla fine di questa crisi il governo sostenga chi, come i circoli Arci, sta facendo da presidio sul territorio, ma rischia di dover chiudere, avendo sospeso le attività culturali e ricreative.
Brutti, sporchi e cattivi
Alle 13 parte l’ultima auto dalla Palmiro Togliatti per consegnare quattro pacchi al Quartaccio, periferia settentrionale di Roma. Francesco Vitucci, 37 anni, è alla guida dell’auto che attraversa il raccordo anulare deserto. Nella vita si occupa di strumentazione scientifica, ora sta lavorando da casa, ma da due settimane fa il volontario con Nonna Roma per distribuire la spesa. “È il mio modo per continuare a sentirmi utile alla collettività”, racconta Vitucci.
“Mi sorprende la grande dignità delle persone che stanno chiedendo aiuto, spesso mi sono trovato in lacrime mentre distribuivo i pacchi. Non immaginavo che esistesse una città nascosta sotto alla città che vediamo tutti i giorni. Ho incontrato in queste due settimane soprattutto donne, molte sole, con figli che hanno perso il lavoro perché lavoravano in nero o facevano lavori saltuari”, racconta Vitucci. “Aiuta molto anche me questa cosa, a capire quali sono le priorità nella vita. Non mi immaginavo che fosse un’esperienza così forte. Pur avendo avuto altre esperienze di volontariato, anche in passato, è difficile intercettare queste persone che hanno una vita molto diversa e molto meno sicura di chi ha un lavoro”.
La cosa che l’ha colpito di più è che a occuparsi della sussistenza familiare sono ancora oggi quasi esclusivamente le donne, sono loro che richiedono l’intervento dei volontari e che si occupano di tenere unite le famiglie nella difficoltà.
Mentre ci avviciniamo al quartiere che recentemente ha fatto parlare di sé per aver dato i natali alla cantante Elodie, Vitucci descrive la zona residenziale, fatta di caseggiati popolari, ma anche di casette con gli orti. “Molte delle persone che stiamo aiutando sono badanti e colf filippine che sono state lasciate a casa dalle famiglie per cui lavoravano, senza nessuna forma di sostegno”. A Roma quando si dice “Roma nord”, si pensa agli appartamenti borghesi dei Parioli, ma c’è un’altra Roma nord, strettamente collegata a quella dei quartieri bene, è quella dove vivono i collaboratori domestici che ora chiedono l’intervento dei volontari. Passiamo vicino alla zona dove alla fine degli anni settanta Ettore Scola girò il film con Nino Manfredi Brutti, sporchi e cattivi. “Un film senza speranza sulle baraccopoli romane”, dice Vitucci. Un sentimento che ricorda la situazione attuale. O forse no.
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