15 luglio 2019 10:15

Ogni giorno migliaia di macchine a Roma si bloccano in un punto del lungotevere Arnaldo da Brescia, all’altezza della curva da cui poi si prende la salita del Muro Torto. Lì c’è un semaforo in cui puntualmente si crea un piccolo imbuto: molti automobilisti superano a destra per scavalcare la fila, le altre macchine suonano, rischiano ogni volta di tamponarsi. A tre metri da quel semaforo c’è un monumento in bronzo composto da una stele sinuosa e da una composizione informale. Somiglia a un gruppo di uomini stilizzati che urlano tra le fiamme. È la scultura che nel 1974 Jorio Vivarelli realizzò per il cinquantesimo anniversario dell’assassinio di Giacomo Matteotti. Il punto dove venne collocata si trova poco distante dal luogo dove Matteotti il 10 giugno 1924, poco dopo le 16, venne sequestrato da un gruppo di sicari legati al fascismo – Amerigo Dumini, Albino Volpi, Giuseppe Viola, Augusto Malacria e Amleto Poveromo – e caricato a forza su una Lancia Lambda.

Sono passato anche io centinaia di volta davanti al monumento a Matteotti senza fermarmi, né ci ho visto mai nessuno; ed è più probabile trovare bottiglie rotte e cartacce che fiori o biglietti accanto alle cinque piccole lapidi di commemorazione, una persino del Psdi.

La rappresentazione pubblica del fascismo è ancora così evidente a Roma – il ministero della marina a fianco ha una scritta su cui è scritto “Nil difficile volenti” e solo un chilometro e mezzo più a nord c’è l’obelisco con la scritta Dux – che è facile riesca ancora a nascondere e rimuovere la rappresentazione dell’antifascismo; l’unica ragione per cui recentemente si è parlato del monumento di Vivarelli è perché nel 2017 qualcuno l’ha sfregiato.

Idee e denunce
Dalle 16.30 del 10 giugno 1924 nessuno vide più vivo Matteotti. Tutto fa supporre che fu ammazzato pochi minuti dopo il rapimento, direttamente nella macchina. Il suo assassinio l’aveva profetizzato lui stesso – secondo la vulgata storica – dopo aver denunciato le violenze e i brogli che avevano portato alla vittoria del fascismo alle elezioni dell’aprile 1924. “Io il mio discorso l’ho terminato, ora preparate il discorso funebre per me”, è la frase che fa pronunciare Carlo Lizzani a Franco Nero nel film Il delitto Matteotti. La scena avviene alla fine dell’arringa in parlamento il 30 maggio di quell’anno, con Nero-Matteotti circondato dai (pochi) socialisti che lo sostenevano nella sua idea di opposizione più dura a quello che stava platealmente diventando un regime. “Uccidete pure me, ma non ucciderete mai le idee che sono in me” è la frase scritta su una delle lapidi davanti al monumento di Vivarelli.

È innegabile che Matteotti sia stato ucciso per le sue idee, ma soprattutto per le sue denunce. Comincia nel 1921 a raccogliere le informazioni sulle azioni delle squadracce; in una lettera di dicembre 1922 scrive a Filippo Turati che vuole metterle insieme per pubblicare un libretto. Meticolosamente annota tutto in un dossier che pubblica nel gennaio 1924 con il titolo Un anno di dominazione fascista, un’inchiesta che è anche il primo saggio militante sul fascismo per come lo intendiamo oggi. Nella parte iniziale ci sono le centinaia di citazioni dai comizi di Mussolini o dalla stampa fascista, Il Popolo d’Italia in primis, che incitano alla violenza squadrista; nella seconda quello che Matteotti stesso chiama “i fatti”.

Novembre 1922.
La Spezia. Achille Vallelunga e Arturo Micheli sono trovati uccisi nei giardini pubblici con arma da fuoco.
Spello. Il figlio del capolega, Bonci Guerrino, è pugnalato nel buio della notte.
Castelvisconti (Cremona). Due automobili di fascisti si presentano a una casa cercando di due fratelli socialisti. Presentandosi il padre lo uccidono con un colpo di fucile.

Così comincia, e va avanti per pagine e pagine: in un rosario del quale l’autore – in modo ancora più straziante – sarà nemmeno inconsapevolmente il grano che manca. Ne fanno parte gli assalti ai giornali, ai circoli, alle associazioni, alle case del popolo, alle scuole, alle parrocchie, ai consigli comunali, alle sedi sindacali, alle case private, a ogni luogo democratico o resistente. Omicidi, agguati, devastazioni, aggressioni, linciaggi, bombe, attentati. Sfregi, bastonate, esecuzioni di fronte agli occhi dei familiari, stupri collettivi di fronte al marito. L’uso dell’olio di ricino, che oggi consideriamo come solo una delle caratteristiche del fascismo, è invece sostanziale in ogni azione squadristica, come una firma, un atto che garantisce che alla violenza si accompagni sempre anche l’umiliazione.

Il ritrovamento del cadavere di Matteotti a Riano, in provincia di Roma, il 16 agosto 1924. (Archivio A3/Contrasto)

Fa davvero impressione leggere Un anno di dominazione fascista e ascoltare chi oggi difende o discute del fascismo, ridimensionandone l’aspetto di pura, brutale e capillare violenza, o di tollerare l’ispirazione di formazioni neofasciste che a quello squadrismo si rifanno. “La violenza rigeneratrice”, “l’arditismo”, “il me ne frego” sono state e sono lo sporchissimo tentativo di dar lustro a una pratica di sistematico sopruso che non ha risparmiato nessuna città d’Italia: Imola, Bari, Alpignano, Afragola, Caluso in provincia di Torino, Galatina in provincia di Lecce, Pariana in provincia di Massa Carrara… L’elenco che Matteotti riesce a ricostruire è sterminato, centinaia di denunce al mese, e colpisce anche quando il fatto raccontato non è un omicidio.

Dicembre 1922. Avezzano. Il dottore Ettore Tramazza, svegliato nottetempo dai fascisti, è costretto a recarsi alla sede del Fascio. Sulla porta trova donne piangenti in attesa e alla ricerca dei loro mariti trasportati prima di lui nella stessa sede. Tutti sono costretti a ingoiare una forte dose di olio di ricino; ad alcuni vengono tagliati i capelli in segno di sfregio. Alcuni giorni dopo, alle 9 della sera, il dottore è di nuovo condotto al Fascio, e alla risposta che voleva querelarsi per le precedenti violenze subite, è di nuovo percosso violentemente. Recatosi alla caserma dei carabinieri per denunziare il fatto, all’uscita è nuovamente bastonato.

Ma Un anno di dominazione fascista non si limita a censire l’azione delle squadracce; ricostruisce anche il moltiplicarsi delle connivenze negli apparati dello stato, il crescendo di impunità che permette ai fascisti non solo di non rispondere della violenza, ma di inorgoglirsi, di acquisire consenso, di creare emulazione, fino a poter sospendere le libertà democratiche, sciogliere le amministrazioni, prendersi lo stato de facto prima di ottenerlo de jure.

Matteotti spera ancora di frenare questa deriva antidemocratica. Nel 1923 Mussolini è il presidente del consiglio, ma il fascismo ha in parlamento solo 35 rappresentanti. Le elezioni del 1921 hanno visto vincere i socialisti e i popolari, seguiti dai Blocchi nazionali di Giolitti, dove si erano presentati anche i Fasci di combattimento. Ma da quella legittimazione elettorale e dalla violenza di strada i fascisti riescono a conquistare lo spazio per distruggere ogni pezzo dell’infrastruttura democratica.

Uno stile, un’etica
La sfilza delle azioni squadristiche descritte in Un anno di dominazione fascista termina con un’avvertenza, che è allo stesso tempo teoria politica e analisi storica, e introduce la seconda parte del libro, che è lo studio sul caso emblematico del comune di Molinella, seguito da una grande mole di dati sul governo Mussolini, che mostrano quanto l’esecutivo stesse già distruggendo i diritti civili e sociali (le leggi fascistissime, emanate tra il 1925 e il 1926, saranno soltanto il contrassegno della fine della democrazia):

Notizie più complete ed esatte su altri fatti e su questi stessi, saranno bene accette alla Redazione. I fatti sopra elencati non rappresentano che una parte e un esempio delle manifestazioni dello illegalismo fascista, continuate nel primo anno di Governo fascista. L’illegalismo è ormai piuttosto un fatto permanente che specialmente in alcune zone d’Italia si è sostituito a qualsiasi legge e a qualsiasi garanzia e organo della legge, imponendosi ai cittadini con la violenza o ormai anche solo con la minaccia. Quello che, in dettaglio e specialmente nei comuni rurali, può essere avvenuto, con la aperta complicità delle autorità governative, per sottomettere i cittadini che legittimamente resistevano, è dato con chiaro esempio dalle cronache di Molinella, piccolo Comune sotto i 15 mila abitanti, nella Provincia di Bologna.

Un anno di dominazione fascista è il modello di testo che dovrebbe scrivere un politico che pensa di fare opposizione a un regime o persino a un governo avversario: rigorosissimo, esaustivo, chiarissimo e strapieno di dati. È l’esempio luminoso di come l’antifascismo non sia solo il modo di avversare il fascismo, ma una proposta politica e soprattutto uno stile, un’etica.

Saggi e romanzi
Il corpo di Matteotti è ritrovato il 16 agosto 1924, ridotto malissimo, in un bosco vicino a Roma, chiamato bosco della Quartarella. Quel bosco oggi non esiste più, al suo posto ci sono caseggiati, erba alta, qualche albero da frutta. Vicino al luogo del ritrovamento c’è un altro monumento, non particolarmente bello: una stele di cemento con due triangoli cavi, collocata al lato sinistro della strada statale Flaminia, a trenta chilometri da Roma, in un posto assolutamente anonimo. Chiunque abbia percorso la Flaminia c’è passato davanti mille volte senza nemmeno farci caso. Anche qui, a parte durante la commemorazione che si tiene il 10 giugno di ogni anno, è davvero difficile incontrarci qualcuno; non c’è nemmeno una piazzola per parcheggiare.

È incredibile come la figura di Giacomo Matteotti sia oggi così dimenticata. Le fondazioni a suo nome, i premi, le iniziative sono sempre meno popolari. Anche il monumento in suo onore a Rovigo, la città dove Matteotti fu eletto per la prima volta in parlamento, una grande scultura astratta di Augusto Murer, è in uno stato di abbandono. L’anno scorso CasaPound ci mise davanti un gazebo; il Partito democratico giustamente lo considerò un oltraggio.

Deputati socialisti rendono omaggio a Giacomo Matteotti sul lungotevere Arnaldo da Brescia, Roma, 1924. (Angelo Palma, A3/Contrasto)

Un anno di dominazione fascista è mancato dalle librerie per molti anni. Solo qualche mese fa Rizzoli l’ha meritoriamente ristampato con una prefazione di Walter Veltroni e un saggio conclusivo di Umberto Gentiloni Silveri. Sicuramente è un libro che avrebbe meritato dei paratesti migliori: la prefazione di Veltroni è una buona introduzione alla vicenda storica, anche se ovviamente enfatica e piena di molti dei tic della prosa veltroniana; il saggio di Gentiloni Silveri riconosce la centralità di Matteotti, ma non rende conto quasi per nulla della bibliografia sulla sua figura, e lo piega in modo riduttivo al dibattito recentissimo su fascismo e sovranismo.

Un omaggio importante a Matteotti l’ha fatto Antonio Scurati, rendendolo uno dei protagonisti di M. Il figlio del secolo: l’antagonista di Benito Mussolini, l’unico che gli si oppone a lungo nella strada della conquista del potere dopo che il duce si disfa dei suoi concorrenti, da Gabriele D’Annunzio a Nicola Bombacci. Mussolini lo dovrà fare (lasciare) ammazzare.

La prima apparizione di Matteotti nel romanzo avviene in un comizio tenuto nella sua città natale, Fratta Polesine: è il 12 ottobre 1920. Scurati la descrive come un posto poverissimo: “I contadini del Polesine sono i più disgraziati d’Italia. Hanno vissuto per secoli una vita da bestie”. Ma Matteotti, di origine borghese, “il socialista impellicciato” come lo chiamano, ha fatto la sua scelta di campo, decidendo di stare dalla parte dei più poveri: “La sua gente non sono suo padre e suo nonno, sono questi contadini squallidi, questi bambini lividi per il freddo, queste madri di vent’anni che ne dimostrano quaranta”.

Sulla tomba
Oggi Fratta Polesine ha molti meno abitanti di allora (2.700 contro circa 4mila), però ci si vive bene, come mi dicono tutti al bar centrale in piazza, quando mi fermo per un caffè il giorno che vado a visitare la tomba di Giacomo Matteotti e la sua casa-museo, la piccola villa dove nacque nel 1885 e dove il 21 agosto 1924 fu allestita la camera ardente. Da meno di un anno è riconosciuta come monumento nazionale dalla presidenza della repubblica, apre solo il sabato e la domenica, ma si può visitare su prenotazione. C’è poco da spiegare perché sia un luogo dove facilmente ci si commuove: la stanza di Matteotti e della moglie Velia Titta, la cucina, le scale che portano alla stanza dove dormivano i bambini. Una tipica piccola villa borghese, arredata in modo sobrio. La maggior parte dei volumi della biblioteca sono stati trasferiti a Firenze nel fondo Turati, ma ci sono due librerie grandi che indicano in cosa sia consistita anche l’educazione antifascista di Matteotti: letteratura italiana, ma anche inglese e francese in lingua, diversi testi di economia e società, e poi favole, testi per ragazzi, Peter Pan di James Matthew Barrie, Jane Eyre di Charlotte Brontë, The scarlet pimpernel (La primula rossa) di Emma Orczy in edizione originale, con la copertina appena rovinata.

Si potrebbe fantasticare, nel girare per le strade di Fratta Polesine anche per un solo giorno, che ci sia un’anima della città che ha cresciuto Matteotti: un’anima dissidente e cosmopolita. “Siamo un posto di ribelli”, mi dicono alcuni frattensi in un bar davanti a villa Badoer, uno dei capolavori palladiani, dove invece incontro un gruppo di turisti statunitensi che sta visitando l’Italia in bici, percorrendo sessanta chilometri al giorno. “A parte Matteotti, c’erano i carbonari qui”, ci tengono a ricordarmi. L’11 novembre 1818 ci fu la prima repressione di un moto di carbonari, i cosiddetti carbonari della Fratta: in dodici furono arrestati mentre si trovavano a villa Molin, costruita a fianco di villa Badoer e oggi di proprietà della famiglia Avezzù. Furono portati nel famoso carcere austriaco dello Spielberg, quello di Le mie prigioni di Silvio Pellico. Oltre a villa Molin ci sono altri luoghi che accoglievano i primi giovani carbonari all’inizio dell’ottocento.

Il fantasma di Matteotti serve come guida per tanti sentieri diversi

Ma la cosa più straordinaria che è accaduta a Fratta Polesine negli ultimi decenni è la scoperta della più grande necropoli d’Europa, e di un grande sito archeologico preromano, che documenta la vita nella regione tra il dodicesimo e il decimo secolo avanti Cristo. Si cominciò a scavare nel 1974, e ancora ci sono cantieri aperti; il materiale più significativo emerso da queste ricerche è stato collocato nelle barchesse di villa Badoer, a cento metri dalla casa di Matteotti. Ci sono reperti di pasta vitrea che testimoniano come da qui passavano tanti traffici commerciali tra l’Asia minore, l’Inghilterra e il Mediterraneo. Fa specie pensare che Matteotti non abbia mai visto tutto questo.

Infine ci si potrebbe chiedere: per chi oggi Matteotti avrebbe lottato, quale sarebbe stato il suo impegno da socialista? Da dove sarebbe nata la sua militanza per i lavoratori, gli sfruttati? Fratta Polesine è un posto dove si vive bene; il lavoro per chi ci abita è garantito dall’agricoltura – tanti cereali, qualche frutteto – o per esempio dalla fabbrica di pali della luce che impiega molti frattensi, poco fuori dalla città.

Ma mentre torno alla stazione per riprendere il treno che mi porta a Roma incontro un paio di cinesi magrissimi, facciamo la strada insieme per un pezzo e proviamo a parlare anche se a parte “ciao” ed “euro” non sanno dire molto altro in italiano. Alla fine capisco che lavorano in alcuni laboratori tessili, otto-nove ore al giorno per seicento euro al mese, venti euro al giorno; non mi vogliono – non mi sanno – dire dove vanno a lavorare.

Negli ultimi anni nella zona di tutto il Polesine ci sono stati diversi sequestri di laboratori, denunce per sfruttamento della manodopera straniera, a Badia Polesine, a Villanova del Ghebbo, in tutta la provincia di Rovigo, e non ci vuole molto per arrivare a delle conclusioni.

Così, penso sul treno di ritorno, il fantasma di Matteotti alla fine serve come guida per tanti sentieri diversi. È forse una questione peregrina se oggi le forme di involuzione democratica o di propaganda di destra abbiano a che fare con qualcosa che possiamo chiamare fascismo; ma forse possiamo essere sicuri che la difesa dei più deboli, la denuncia della violenza, la prospettiva internazionalista, il senso della storia abbiano a che fare e molto con qualcosa che possiamo chiamare antifascismo, e per questo dobbiamo riconoscere un infinito debito a quest’uomo di nemmeno quarant’anni trucidato nel momento più alto del suo impegno politico.

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