09 aprile 2020 13:55

Il 16 aprile la sua azienda avrebbe dovuto ospitare una grande festa per celebrare il primo compleanno. “Sarebbe stato l’inizio della fase più bella, quella in cui si comincia a cambiare velocità”. Quando nel 2019 l’idea di aprire una gelateria è diventata realtà, Ina Romano non poteva prevedere l’epidemia che di lì a poco avrebbe costretto tutta l’Italia al lockdown: adesso sul suo conto in banca c’è un saldo a due cifre, una manciata di euro, e gli ultimi soldi sono andati via per pagare l’affitto di un locale che non riaprirà ancora per settimane.

Ina Romano lo sa, ma azzarda una nota di ottimismo: “Se non altro mi stanno sospendendo il mutuo per l’acquisto delle attrezzature. Non ce l’avrei fatta: nei periodi freddi dell’anno le gelaterie chiudono, avevo riaperto il 7 marzo”. Appena tre giorni dopo è arrivato il nuovo stop, stavolta per decreto del presidente del consiglio.

Così, all’improvviso, ha dovuto inventarsi un modo per tirare avanti, perché anche il marito, che gestisce un ristorante, si è trovato a sua volta senza una fonte di reddito: al momento tutta la famiglia mangia grazie alle scorte alimentari rimaste in dispensa, ma anche quelle stanno per finire. “Alla fine”, osserva Romano, “dovrei poter accedere alla cassa integrazione come socia lavoratrice della mia stessa cooperativa. Chissà quando arriveranno i primi assegni, però”.

File alla Caritas e carenze sanitarie
La storia di Ina Romano ne richiama molte altre in Sicilia, e va letta in un contesto perfino più ampio, quello delle difficoltà che sta vivendo l’intero meridione: nella parte meno ricca del paese l’emergenza sanitaria sta mettendo in ginocchio un’economia già fragile, sommando nuovi poveri a vecchie crisi.

Per rendersene conto basta dare un’occhiata alla fila che ogni giorno si crea alla Caritas di Palermo: alla mensa di vicolo San Carlo, nel cuore del centro storico, sono sempre bastati cento pasti caldi, ma da qualche settimana le scorte vanno via in poco più di mezz’ora.

“In questi giorni”, spiega il vicedirettore, don Sergio Ciresi, “le persone che ci chiedono aiuto sono sempre di più. Quando il cibo finisce non sappiamo più che cosa dire a chi arriva. Li accogliamo con un sorriso, ma purtroppo le richieste sono aumentate”. Nei dormitori, gli ospiti sono diventati permanenti: cento persone vivono ormai 24 ore su 24 nelle quattro residenze comunali, che grazie ad alcune donazioni sono riuscite a comprare tavoli da ping pong, giochi di società e attrezzi da palestra.

Nell’isola il prezzo più grande lo pagano i lavoratori in nero

E dire che in Sicilia, Palermo non è neanche l’epicentro della crisi sanitaria.
Nell’isola, i tamponi fatti fino a mercoledì 8 aprile sono stati 27.438, le persone attualmente positive sono 1.932, mentre i morti in totale sono stati 133. Quattro i focolai più gravi, tanto da spingere la regione a dichiarare altrettante zone rosse: Villafrati, nel palermitano, dove il contagio si è propagato in una casa di riposo; Troina, in provincia di Enna, dove il virus ha colpito una struttura per disabili; Agira, ancora nell’ennese; e Salemi, nel trapanese.

Al momento, i posti disponibili nelle terapie intensive sono 235 e altri 357 stanno per essere attivati, mentre quelli occupati viaggiano stabilmente intorno a quota settanta. Il problema è l’approvvigionamento delle tecnologie: la posizione geografica non ha aiutato l’isola a far arrivare macchinari per attrezzare i nuovi posti letto. Domenica 5 aprile i rifornimenti di ventilatori e respiratori sono arrivati dalla Cina con un aereo cargo.

Il prezzo più alto
Più complessa è invece la partita economica: il governo Conte ha stanziato 43 milioni che i comuni siciliani stanno già usando per far avere aiuti alimentari alle famiglie più povere, mentre si aspettano ancora i cento milioni promessi dalla giunta regionale guidata da Nello Musumeci. Nel frattempo le amministrazioni locali fanno il possibile con i fondi individuati in bilanci già in difficoltà, ora perfino indeboliti dall’assenza di multe e dal rinvio del pagamento dei tributi comunali. L’aiuto più consistente, però, arriverà probabilmente dal bonus di 600 euro per i lavoratori autonomi previsto dal decreto cura Italia e dalla cassa integrazione in deroga, per la quale l’Inps siciliana ha già pronti 108 milioni.

Soldi che potranno in parte aiutare Gaetano Merlo a non lasciare senza stipendio i suoi dipendenti. Merlo è un’altra delle persone che sta pagando le conseguenze collaterali della crisi sanitaria: fino a un paio di mesi fa si sarebbe definito un imprenditore con i conti in regola, con sei strutture ricettive tra Palermo e le isole Eolie, ma adesso deve confrontarsi con la chiusura forzata delle sue attività. “Alla fine”, sbuffa, “i flussi turistici saranno diversi, non ripartirà tutto come prima. Magari torneranno i viaggiatori interni, ma probabilmente non rivedremo presto quelli internazionali. E io, che ho 13 dipendenti, potrò tenerne con me solo quattro”.

Ho 36 anni, due figlie e un’azienda che fattura 300mila euro all’anno, eppure devo chiedere aiuto ai miei

Per il turismo la tempistica del lockdown ha avuto conseguenze enormi: marzo è infatti il mese in cui si chiamano al lavoro i primi stagionali, che dunque non avevano ancora fatto ingresso nelle strutture e non potranno neanche essere messi in cassa integrazione. Con i fornitori, invece, Merlo sta cercando di trovare un accordo: una sospensione dei pagamenti per rinviare tutto a tempi migliori. “Pagavo 12mila euro di affitti al mese”, spiega, “e in questa situazione non ce l’avrei fatta. Resta però il mio mutuo personale, che non viene sospeso. Al momento sopravvivo con il sostegno della mia famiglia. Curioso: ho 36 anni, due figlie e un’azienda che fattura 300mila euro all’anno, eppure devo chiedere aiuto ai miei”.

Nella Sicilia che si arrabatta, però, quella di Merlo è una situazione di privilegio. Il prezzo più grande lo pagano i lavoratori in nero: secondo le stime più recenti della Cgia di Mestre, nell’isola le persone costrette ad accettare un’occupazione non dichiarata nel 2019 sono state 303.700. Secondo i sindacati i settori più interessati sono l’agricoltura, l’edilizia e la ristorazione.

L’altra emergenza
In quest’ultimo ambito lavorava Maria Biondo, 31 anni: Maria – che accetta di raccontare la sua storia a patto che il suo nome sia sostituito da uno di fantasia – faceva la cameriera in un pub, e grazie a quel denaro, 50 euro a sera per tre o quattro giorni alla settimana, riusciva a sopravvivere. “Il 7 marzo”, racconta, “il proprietario del locale ha dovuto chiudere e ovviamente non può più pagarmi. Non ho diritto a nulla: né alla cassa integrazione, né al bonus per i lavoratori autonomi. Al limite posso chiedere gli aiuti alimentari”.

Così ora Maria – che ha in tasca una laurea in scienze politiche – non sa più come andare avanti: “Da poco avevo affittato un appartamentino in centro. Pago 400 euro al mese, e non è neanche tanto: al proprietario, però, non so davvero cosa dire”. Per non parlare della spesa: “Al momento ho dovuto chiedere aiuto ai miei. Avrei preferito evitare: una volta raggiunta l’indipendenza, tanto più dopo avere studiato, è umiliante dovere tornare a chiedere la paghetta”.

Tra vecchi e nuovi poveri, dunque, il ricorso agli aiuti alimentari è diventato strategico: la regione stima che ci siano circa 400mila persone da aiutare, e solo nelle prime ore di attivazione del servizio di registrazione per gli indigenti al comune di Palermo sono arrivate le richieste di 12mila famiglie.

Alla fine di marzo in un supermercato della periferia di Palermo alcuni clienti hanno cercato di portar via diversi carrelli pieni di cibo senza pagare. Nei giorni successivi la paura di assalti ai negozi alimentari ha spinto il ministero dell’interno a schierare le forze dell’ordine a presidio delle strutture. Sono episodi che sono rimasti isolati. Ma quello che è chiaro, in Sicilia, è che l’emergenza sanitaria porta con sé anche una crisi economica nera. Una crisi che mostra già i primi segnali.

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