02 aprile 2020 15:48

Questa volta il paziente zero è noto e la sua storia non ha nulla di misterioso. Si tratta di un uomo di 69 anni di origine calabrese ma residente da anni a Casalpusterlengo, nella provincia di Lodi, in Lombardia. È tornato all’inizio di febbraio a Cetraro, il suo paese in provincia di Cosenza, circa mille chilometri più a sud, mentre l’epidemia di Covid-19 era ancora una realtà remota ed esotica per gli italiani. Di fatto la malattia, come assicurano ormai molti studi scientifici, aveva già cominciato a diffondersi nella pianura lombarda. Ma come avrebbe potuto quest’uomo immaginare di portare con sé il virus?

Ha dei problemi di salute (è in dialisi e probabilmente è stato contagiato proprio in ospedale) e si è isolato nella sua casa appena arrivato in Calabria. Solo tre settimane dopo, il 28 febbraio, è andato nel piccolo centro ospedaliero di Cetraro. Nel frattempo in Lombardia l’epidemia era ormai esplosa. E nell’ospedale calabrese è risultato positivo al test per il nuovo coronavirus, diventando il primo caso certo di Covid-19 in Calabria.

“La situazione poteva diventare molto complicata fin dall’inizio”, ricorda Antonio Belcastro, direttore generale dei servizi sanitari della regione. “Quest’uomo aveva viaggiato dalla Lombardia in pullman con decine di persone, ed era accompagnato dalla moglie. Abbiamo dovuto ritrovare i passeggeri e fare i tamponi a molte persone. Per fortuna sono risultati tutti negativi. La buona sorte ha voluto che qui l’inizio dell’epidemia sia stato relativamente lento e tardivo: nella notte tra il 7 e l’8 marzo, quando l’isolamento è stato decretato per tutta la Lombardia e 14 altre province dell’Italia settentrionale, migliaia di persone sono arrivate in Calabria. Fino a quel momento avevamo solo quattro casi”.

Nessun focolaio locale
Da allora l’epidemia ha cambiato dimensioni. La sera del 30 marzo, secondo i dati della protezione civile, la Calabria contava 647 casi in totale. Fra di loro 18 pazienti si trovavano in terapia intensiva e 31 erano morti dall’inizio dell’epidemia. “E tutti, senza eccezioni, sono collegati alle persone arrivate dalla Lombardia, a parte alcuni casi di chi tornava da una settimana bianca in Trentino dove aveva incontrato dei lombardi”, sottolinea Antonio Belcastro. In altre parole sul posto non è stato rilevato alcun focolaio di infezione.

Un po’ più di seicento casi per una regione di due milioni di abitanti. Per ora la minaccia sembra limitata, mentre al livello nazionale il paese registrava il 30 marzo più di undicimila morti. Una constatazione che vale del resto per tutto il sud del paese: a Napoli, per esempio, ci sono meno di mille malati. Ma questo non impedisce alla popolazione di prendere l’epidemia molto sul serio e di rispettare lo stretto isolamento che ha progressivamente interessato tutta l’Italia tra l’8 e l’11 marzo. “Tredici comuni della regione sono stati inseriti nella zona rossa”, continua Belcastro. “Abbiamo dovuto isolare completamente il piccolo comune di Fabrizia, un paese di duemila abitanti dove ci sono nove casi in tre famiglie. Bisogna agire in fretta per evitare che diventi un focolaio di infezione”.

Nonostante le difficoltà oggettive e decenni di investimenti mancati, si stanno facendo degli sforzi enormi

Dalla sua casa nel centro di Palmi, con vista sul Tirreno, lo scrittore Mimmo Gangemi osserva che le indicazioni delle autorità sono rispettate con attenzione. “Da casa mia vedo le strade deserte. La ragione è semplice: qui tutti sanno che l’epidemia non deve svilupparsi perché non abbiamo grandi infrastrutture. Se consideriamo la piana di Gioia Tauro, che conta 170mila abitanti, ci vorrebbero 510 letti d’ospedale per essere nelle norme nazionali, ma in realtà ce ne sono solo 120. E molti di questi posti letto hanno dei servizi igienici in comune. Sono ingegnere civile e per 15 anni ho lavorato su progetti ospedalieri. Qui, dall’inizio degli anni duemila, siamo in attesa della costruzione di quattro ospedali ed è per questo motivo che diverse strutture sono state chiuse. Ma i lavori non sono mai cominciati“.

Piano di battaglia
Di fatto la sanità è un settore di competenza delle regioni, e la Calabria è la regione più povera d’Italia (il pil per abitante è di 17mila euro, meno della metà del reddito della Lombardia). Di conseguenza qui le infrastrutture sanitarie accusano un ritardo considerevole, a tal punto che in caso di patologie gravi migliaia di calabresi non hanno altra scelta che trasferirsi a nord per farsi curare.

Ma nonostante queste difficoltà oggettive e l’impossibilità di cancellare in un mese gli effetti di decenni di investimenti mancati, si stanno facendo degli sforzi enormi. Pino Foti, primario del reparto di malattie infettive dell’ospedale di Reggio Calabria, la più grande città della regione, li enumera come un generale che rivela un piano di battaglia. “Il lavoro di preparazione è cominciato quando sono arrivati i primi casi e siamo riusciti a trasformare completamente l’ospedale. Oggi disponiamo di un’ala interamente dedicata al Covid-19 con 81 letti, ai quali se ne possono aggiungere altri 20, mentre tutti gli altri casi sono stati trasferiti altrove e raggruppati per evitare i rischi di contagio”.

Tuttavia le risorse rimangono scarse. Il 30 marzo la presidente della regione Jole Santelli ha affermato che in totale “sono stati predisposti circa cento letti di terapia intensiva”, anche se ha riconosciuto la grave mancanza di materiale (mascherine, respiratori, camici per personale medico e così via). “Ci sono due Italie”, osserva la presidente della regione, “quella del contagio su vasta scala e quella che cerca di sfuggire al contagio”. E il 90 per cento degli aiuti statali va alla prima.

Mentre l’ospedale si prepara ad affrontare la situazione con i pochi mezzi a sua disposizione, si chiede agli abitanti di fare tutto il possibile per contenere i rischi. E il controllo sociale ha una funzione molto importante. “Qui tutti si conoscono, e si vede subito se qualcuno è fuori e non dovrebbe”, osserva Gangemi. “Nel mio paese dell’Aspromonte, per esempio, due famiglie sono tornate dalla provincia di Milano durante il periodo di isolamento. Gli abitanti sono andati da loro e gli hanno chiesto di non uscire. Non c’è stato bisogno di ricorrere alla violenza: sono stati avvertiti e adesso non escono”.

(Traduzione di Andrea De Ritis)

Questo articolo è uscito sul quotidiano francese Le Monde.

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