22 gennaio 2018 09:50

Lasciata l’autostrada a Duino, la cittadina che annuncia la costiera triestina, ci vogliono una ventina di chilometri per raggiungere il capoluogo del Friuli Venezia Giulia. Venti chilometri che si dipanano tra una serpentina di curve appoggiate alla montagna carsica a strapiombo sul golfo. Il paesaggio è sempre spettacolare in qualsiasi stagione si percorra la costiera. Sui pendii di roccia grigia e frastagliata si allunga in estate l’ombra dei lecci e, d’inverno, le chiome di queste querce sempreverdi disegnano la passeggiata sul mare. In autunno le foglie rosso carminio del sommacco puntellano il bosco che all’inizio della stagione calda si riempie di asparagi selvatici e di altre specie vegetali che ne fanno un museo a cielo aperto di biodiversità. Il golfo, sulla destra mentre si raggiunge Trieste, è un enorme bacino che non ha quasi orizzonte. Le nuvole sono rare e spesso la bora, il vento gelido che spira da nord, spazza un cielo terso per gran parte dell’anno. Piccoli sentieri scendono al mare dove trattorie senza pretese preparano cozze e spritz – bevuto, come a Gorizia, con vino bianco mischiato ad acqua.

La montagna offre invece l’accoglienza delle osmice, osmize, piccoli ristori a conduzione familiare dove il proprietario, e solo in certi mesi, offre i prodotti della sua terra, dal vino al formaggio, ai salumi. Niente scontrini e un’atmosfera di frontiera che si percepisce già nel nome sloveno.

L’arrivo in città è un’ennesima sorpresa: ignorando i pochi mostri dell’edilizia più recente e tralasciando quel che si trova dietro i muri che nascondono la ferrovia e il vecchio porto, i primi palazzi otto-novecenteschi del capoluogo guidano il visitatore fino al lungomare, annunciato dalle rive – i canali che portano il mare fin dentro la città – e poi dal molo Audace, una lunga e antica gettata di cemento, costruita sul relitto di una nave affondata nel 1740, che si protende nel golfo come se la città si proiettasse in mare.

Il rovescio della medaglia
Opposta al lungomare, la Trieste asburgica avvolge chi arriva in un’atmosfera d’altri tempi. Nei caffè di piazza Unità si bevono tiepidi caffè con il cioccolato, mentre l’ombra dei grandi edifici bianchi, tra cui quello che ospita il comune, annunciano scoperte architettoniche ben conservate e specchio del tempo in cui questa città alla propaggine più orientale dell’Italia era il porto per eccellenza dell’impero con l’aquila a due teste. Insomma, una delizia, arricchita da un elemento davvero speciale: d’estate, nei fine settimana o dopo le cinque, la città va in massa al mare. Impiegati, operai, dirigenti, famigliole della classe media e ragazzi d’alto bordo bighellonano nella frazione di Barcola o lungo la costiera e, per i più audaci, c’è perfino qualche tuffo dal molo Zero, dietro le transenne che nascondono i cascami del porto vecchio. Sorpresa, anche a pochi passi dal centro il parcheggio non si paga.

Come tutte le cartoline e tutte le medaglie, anche Trieste ha però il suo rovescio. Ma chi capita in città potrebbe non accorgersene, soprattutto se ci resta tre o quattro giorni, abbastanza per vedere musei e palazzi e aggirarsi tra osmize e ristorantini dove fanno pescetti fritti o sardoni in savòr (alici marinate). Tutto è ben nascosto sotto il tappeto del salotto buono di piazza Unità.

Se con l’auto si percorre il lungomare per tornare a prendere l’autostrada verso est, cioè verso Lubiana, fatto qualche chilometro che costeggia il porto nuovo e un esteso polo della logistica che un tempo era appannaggio di Fincantieri, si è proiettati in una sorta di inferno industriale. Mentre il cavalcavia sale all’altezza dei piani più alti degli edifici sulla sinistra, sul lato destro appare una sorta di mostro ferroso male in arnese da cui escono fumi e vapori dall’aria minacciosa.

Complice la posizione e il vento, i fumi prodotti dall’impianto industriale di Servola, un’acciaieria che qui chiamano ferriera, restano tutti ben nascosti dietro la curva, un vero e proprio spartiacque tra una città paradisiaca e un inferno dantesco.

Giuliana Schrey nella sua casa a pochi metri dall’impianto siderurgico di Servola, Trieste, febbraio 2011. Quando è stata scattata la foto Schrey ha raccontato di avere due tumori. (Michele Borzoni, TerraProject/Contrasto)

L’acciaieria di Trieste, assai meno nota della sorella tarantina, non ha nemmeno quel piccolo braccio di mare che a Taranto divide l’impianto dalla città. La ferriera qui è circondata da tre piccoli nuclei urbani cresciuti nel tempo fino ad accogliere trentamila persone, quasi un sesto della popolazione della città.

Scarica i suoi fumi e i suoi vapori sulle case piccole e grandi della periferia, sugli asili, sui rari parchetti, su finestre e balconi e, ovviamente, nel sangue e negli alveoli polmonari di chi abita o lavora da quelle parti. Così tanti fumi e veleni che i parchi pubblici sono stati chiusi per un periodo perché troppo inquinati; e 83 operai sarebbero morti a causa di tumori, dal 2000 al 2013.

Storia di un ex gioiello
La ferriera ha una storia antica come antichi sono i tentativi, sia dei cittadini sia delle amministrazioni pubbliche, di affrontare il problema dell’inquinamento. Lo stabilimento si estende su un’area di più di 500mila metri quadri con cokeria, due altiforni, l’impianto di agglomerazione e la macchina a colare per la solidificazione della ghisa.

Nata nel 1896, in origine è il fiore all’occhiello di un’azienda di Lubiana. È di proprietà austroungarica, ma negli anni venti diventa italiana. All’inizio la affitta un gruppo locale, ma poi la assimila l’Ilva. Negli anni ottanta la acquista il gruppo Pittini, poi Lucchini. Ma la ferriera è sempre un problema: rimodernarla costa e la siderurgia perde pezzi in tutto l’occidente.

Agli imprenditori si alternano i commissari, poi nel 2015 arriva Giovanni Arvedi: cremonese, cattolico, imprenditore cresciuto in una famiglia di commercianti di acciaio. Rileva l’impianto e si impegna a mettere le cose a posto. Il primo punto dell’accordo è che l’area a caldo (quella che inquina di più) venga chiusa se non scenderanno i livelli di benzo(a)pirene, un idrocarburo cancerogeno, cosa che Arvedi rivendica di aver fatto.

Le proteste
Tutto a posto? Secondo Legambiente no, perché il benzo(a)pirene non è l’unico inquinante. Le associazioni di cittadini lamentano la scarsa trasparenza: NoSmog, storica organizzazione ambientalista di Servola, denuncia l’assenza di centraline di monitoraggio e stima che chi vive vicino alla ferriera sia esposto a livelli di benzo(a)pirene e polveri Pm10 che superano i limiti massimi sostenibili.

La federazione Gilda-Unams chiede conto di un aumento di patologie oncologiche e spiegazioni sul fatto che agli alunni sia stato impedito l’accesso al giardino della scuola. I più arrabbiati, del comitato 5 dicembre, hanno organizzato un lunghissimo presidio in città.

Sono preoccupati anche gli operai, sebbene tra loro ci sia chi difende l’impianto per paura di perdere il lavoro. In uno studio dell’azienda sanitaria locale, fatto per conto della procura della repubblica di Trieste, risulta che tra il 1995 e il 2007, chi di loro ha lavorato alla ferriera, si è ammalato di tumore molto di più rispetto alla media della popolazione locale.

Il sindaco aveva promesso di chiudere in tre mesi l’area a caldo. I tre mesi sono diventati sei

“Finora è stato trattato e spesso percepito come un problema di polvere sui davanzali. In effetti, potrebbe essere qualcosa di peggio, soprattutto per chi ci lavora”, ha detto il sostituto procuratore di Trieste Federico Frezza durante un’audizione alla camera nel giugno 2016.

Ma la ferriera sembra un muro di gomma. Il piano di copertura del parco minerale (una massa di polvere compatta che si allunga in mare e che svolazza nell’aria) va a rilento, le centraline di monitoraggio sono insufficienti, la trasparenza e la ricerca sui dati dei veleni sono scarse.

Arvedi dal canto suo ha gettato il guanto di sfida minacciando di chiudere la fabbrica. Il suo piano di scalata all’Ilva di Taranto, che gli avrebbe permesso in teoria di chiudere l’area a caldo di Servola, è rimasto un sogno. La ferriera resta un nervo scoperto.

Il sindaco
Tra gli interessi dell’industriale e la salute delle persone c’è di mezzo l’amministrazione pubblica, con un comune e una regione governati rispettivamente da un sindaco di destra, Roberto Dipiazza, e una governatrice di sinistra, Debora Serracchiani.

Dipiazza è un signore dall’aria simpatica e rassicurante: giacca blu e cravatta regimental su pantaloni di vigogna, scarpa Oxford liscia e lucida. Piace alle signore bene di Trieste, ma ha fatto razzia di voti anche nel quartiere operaio di Servola. Il suo asso nella manica è stato proprio la ferriera. Aveva infatti promesso di chiudere in cento giorni l’area a caldo. Promessa per altro ciclica, che ritorna a ogni tornata elettorale. Adesso i cento giorni sono diventati sei mesi.

Ricollocare almeno 300 operai, uno dei grandi temi sindacali che hanno sempre salvato l’impianto che ne impiega circa 600, non è più un problema. “Sono appena tornato da Roma con 18 milioni”, spiega il sindaco, “e altri 65 ne arriveranno dagli austriaci che vogliono investire a Trieste, e poi ci sono i cinesi”.

Un’auto coperta da un telo a causa della polvere di ferro proveniente dallo stabilimento siderurgico di Servola, Trieste, 2011. La polvere danneggia la carrozzeria dell’auto. (Michele Borzoni, TerraProject/Contrasto)

Già, i cinesi. Vorrebbero fare della città un hub della nuova via della seta e inoltre, dice Dipiazza, “è chiaro che i lavori pesanti di un’acciaieria li faranno loro a prezzi più bassi. Non servirà più produrre ghisa: la compriamo in Cina e la lavoriamo a Trieste”. Cinesi o no, la chiusura dell’area a caldo e la revisione dell’Autorizzazione integrata ambientale (Aia) sono le richieste che ambientalisti, cittadini e associazioni continuano a fare.

L’area a caldo della ferriera è dunque da sempre anche l’area a caldo della politica triestina, come si sente dire qui. Ma secondo qualcuno è solo un gioco di parole che serve a tener buoni i residenti e a pescare voti. Sia nel cuore della città, ricco e diviso tra conservatori e progressisti; sia in periferia, tra gli operai che questa volta hanno premiato la destra.

“Del resto”, dice una componente di un’associazione ambientalista che preferisce rimanere anonima, “di chi possiamo fidarci? Tutti promettono la chiusura dell’area a caldo ma nessuno lo fa. Dipiazza ha già fatto due mandati e niente. Poi c’è stato un sindaco del Partito democratico, Roberto Cosolini, e niente. Vediamo se stavolta Dipiazza sarà di parola. Al momento non abbiamo altra scelta”.

La regione
Alla regione la pensano diversamente. La scelta c’è, eccome. E riguarda, ancora una volta, la Cina. Il consigliere Giulio Lauri, un geologo prestato alla politica, elenca i segnali positivi che negli ultimi anni hanno cambiato il porto vecchio, una struttura gigantesca affacciata sul mare all’inizio della città.

In completa rovina e ormai inservibile, è un’area di capannoni dismessi e una discarica a cielo aperto di traversine ferroviarie, vecchie pavimentazioni urbane, masserizie e gatti selvatici, tutto nascosto da una fitta palizzata di cemento e rampicanti. Bloccato da una gestione conservatrice – per anni nelle mani di Marina Monassi, allora presidente dell’Autorità portuale – dal 2015 il porto vecchio ha voltato pagina: con il passaggio dal demanio statale al comune di Trieste, una parte è stata assorbita dal porto nuovo, ed è stata resa più efficiente.

“Tanto efficiente”, spiega Lauri, “che i cinesi hanno capito che la nostra città è la punta più a nord dove far arrivare le merci nel cuore del vecchio continente, con un risparmio di almeno tre giorni di viaggio rispetto ai porti dell’Europa occidentale. Il traffico del porto nuovo è già cresciuto, perché abbiamo snellito procedure e cercato alleanze”.

“Questa”, conclude Lauri, “non è più la città del no se pol”, alludendo a un’espressione locale usata per opporsi alle novità. Insomma, da porto fermo a porto franco, con più merci e più lavoro. “Ma c’è altro. Il turismo è in aumento, così come le attività culturali, e la città sta consolidando il suo polo scientifico e tecnologico, il più grande d’Italia”.

Lauri fa riferimento anche a quel che dovrebbe essere la Città della scienza 2020, un progetto che prevede la trasformazione di parte del porto vecchio, la costruzione di cinque auditorium e sale convegni, l’organizzazione di esposizioni, mostre, nuovi uffici, e la nascita di centri di ricerca e istituti nazionali e internazionali. Se ne fa un gran parlare, in città, e molti attendono che la data arrivi per sapere se sarà stata una scommessa vinta o un’altra promessa.

Intanto, lasciandosi alle spalle Servola, un certo senso di malessere rimane nelle ossa. E resta la domanda sul futuro delle persone che ci vivono e su quello di Trieste: industriale, postindustriale, hub logistico, polo tecnologico o meta turistica e culturale? In attesa delle risposte, dei cinesi, dei sei mesi per chiudere l’area a caldo, il vecchio mostro continua a sbuffare i suoi fumi sulla città, adombrando la sua immagine da cartolina.

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