06 maggio 2019 10:08

Vi sono dei paesi dove si possa mangiare,
senza pericolo d’esser mangiati?
Carlo Collodi, Le avventure di Pinocchio

Alle dieci di sera di venerdì 2 settembre 2016 un ragazzo è fermo con la sua moto sulla corsia d’emergenza del grande raccordo anulare (Gra) di Roma. Il cielo è terso, un anticiclone ha spazzato via le piogge dei giorni precedenti e nell’aria c’è ancora uno scampolo d’estate. Sull’anello stradale che circonda la capitale il traffico sferraglia lento. Qualcuno sta uscendo, qualcun altro sta rientrando a casa, certi sono ancora in giro per lavoro. Tutti stanno andando da qualche parte, tranne il ragazzo.

Una pattuglia della stradale percorre lentamente la corsia esterna. All’altezza del chilometro 52 lo nota e si accosta per chiedergli cosa ci faccia lì. Il ragazzo non risponde e riparte immediatamente con la sua Honda silver wing 600. I poliziotti accendono le sirene e cominciano a inseguirlo. Per quindici chilometri il ragazzo li semina, tirando la moto al massimo sulle tre corsie del Gra e superando le altre auto. Dopo altri dieci chilometri, la questura manda i rinforzi. Tre volanti provano a formare dei blocchi stradali, ma il ragazzo li supera e continua la fuga.

A un certo punto “il conducente cambia la propria condotta di guida, effettuando brusche frenate probabilmente nel tentativo di essere tamponato”, scrivono gli agenti sul verbale. Dopo trenta chilometri di inseguimento, il ragazzo perde il controllo e cade. La moto schizza per 140 metri, urta prima il guardarail e poi una volante, ferendo uno degli agenti. Il ragazzo rotola sull’asfalto e comincia a sanguinare. Un’ambulanza lo trasporta in codice rosso all’ospedale Sant’Andrea, dove gli fanno le analisi del sangue e lo medicano. All’1.40 di notte lo dimettono e lo portano negli uffici della polizia stradale di Settebagni dove gli prendono le impronte, lo fotografano e gli leggono i diritti. Ora è ufficialmente in arresto per “resistenza, lesioni a pubblico ufficiale e danneggiamento aggravato”.

Sono passate tre ore da quando è cominciato tutto. Il ragazzo dice due cose: di non ricordare nulla di quello che è successo, e di non avere la patente. Sono vere entrambe. È confuso, dai controlli fatti in ospedale risulta positivo alla cocaina, alle benzodiazepine (ansiolitici) e al tetraidrocannabinolo (cannabis); da quelli alla motorizzazione risulta che non ha mai preso la patente.

Alto quasi un metro e ottanta, spalle larghe, capelli biondi e occhi azzurri, alle 3.20 chiama il padre, alle 3.25 l’avvocata. È scappato per più di trenta chilometri, ha seminato cinque volanti e si è schiantato sul Gra senza sapere bene perché. Non sa come spiegarglielo.

Oltre il caso giudiziario
Il ragazzo si chiama Valerio Guerrieri, ha vent’anni e il 4 settembre 2016 è condannato agli arresti domiciliari. Potrebbe essere una storia da niente, con una condanna da niente, se non fosse che a partire da questo momento si allunga un’ombra che risucchierà l’intera vicenda.

La linea che separa il prima dal dopo è tracciata alle 13.15 del 4 settembre, quando quattro agenti del commissariato di Ostia Lido vanno a vedere se la casa dove Guerrieri vive con i genitori va bene per scontare i domiciliari. “A domanda specifica degli operatori i genitori riferivano che l’abitazione in questione risultava abusiva”, scrivono i poliziotti. Aggiungono che “tutti gli ambienti della casa risultavano poco salubri con numerosi animali (cani e gatti)”. Nella stanza del ragazzo, qualcosa attira la loro attenzione: una scatola di munizioni su una libreria. E “sul superiore scaffale della libreria”, scrivono gli agenti, “occultata sotto un para schiena da motociclista rinvenivamo una pistola semiautomatica con canna libera”.

È il dettaglio che cambia il corso delle cose. I domiciliari sono revocati e il ragazzo finisce nel carcere romano di Regina Coeli. È lì che cinque mesi e mezzo dopo, il 24 febbraio 2017, si impicca. In un primo momento, la sua morte non fa notizia e finisce nel bollettino dei suicidi in carcere, un elenco tanto lungo quanto triste che raramente cattura l’attenzione. Tuttavia, con il passare dei giorni, emerge un particolare destinato a fare rumore: per ben due volte il tribunale di Roma aveva ordinato che fosse scarcerato, ma entrambe le volte le porte della sua cella erano rimaste chiuse.

La casa della famiglia Guerrieri all’Infernetto, Roma, aprile 2019. (Giovanni Cocco per Internazionale)

“La corte aveva riconosciuto che non poteva rimanere dentro perché soffriva di gravi problemi psichiatrici”, dice al telefono Stefano Anastasia, garante delle persone private della libertà nel Lazio e in Umbria. “Doveva essere trasferito, ma così non è stato”, aggiunge.

Perché? Cos’è successo? Chi lo ha tenuto a Regina Coeli – fuori dalla legge e dentro a una gabbia, le due cose spesso vanno insieme – conosceva la sua storia? Non avrebbe dovuto conoscerla? Sembrerebbe di no. E anche nelle decine di articoli di giornali, di servizi tv e di denunce non ce n’è traccia. Eppure è la chiave per capire cosa sia successo davvero e per scoprire che non è solo la storia di un caso giudiziario, orribile espressione a cui spesso è ridotta la vita di chi muore, si uccide o è ucciso in galera. È la storia di come uno stato – con le sue leggi, i suoi tribunali, le sue galere e i suoi manicomi – possa implodere e fallire davanti a un ragazzo di vent’anni. Una storia più grande e comune di quanto si possa credere.

Per ricostruirla bisogna andare in quella casa dove i poliziotti hanno pensato non fosse il caso che scontasse i domiciliari.

Un’altra storia
All’Infernetto il vento di un pomeriggio di fine febbraio spettina le fronde dei pini marittimi. La casa si trova alla fine di una via che lambisce i campi della riserva naturale del litorale romano, a pochi chilometri dal mare di Ostia. L’asfalto non c’è più e intorno ci sono terreni incolti e spellati dall’inverno. Una recinzione in lamiera la circonda e un cartello avvisa di stare attenti ai cani. Ester Morassi, la madre di Valerio Guerrieri, arriva al cancello seguita da qualche gatto e una cagnetta. Gli animali si inseguono e giocano nel giardinetto che precede l’ingresso della costruzione. È piccola, come hanno scritto gli agenti, ed è divisa in due: da una parte vive Morassi e dall’altra l’ex marito. Gli animali entrano con noi in cucina e i gatti fanno le fusa sotto al tavolinetto da campeggio dove ci sediamo. Le sedie sono tre, i pensili sono vecchi e la luce entra per lo più dalla portafinestra.

Le prime parole che Morassi dice sono queste: “Lo sai qual è la cosa più triste della storia di Valerio? Ho fatto casino e ne hanno scritto tutti. Però ora le persone vedono Valerio solo in due modi. C’è chi pensa: se semo liberati de un matto, un cacacazzi in meno. E c’è chi pensa che è morto un povero cristo, ’na vittima. Ma non è così, mancano tanti pezzi”. Poi fa una pausa, si accende una sigaretta e chiede: “Lo sai com’è cominciato tutto?”. È cominciato così:

Due giri di cordone attorno al collo. Valerio è nato con due giri di cordone attorno al collo. Stavamo a Ostia, io m’arrangiavo con le pulizie, il padre con le depurazioni. La notte del tre dicembre 1995 ho le contrazioni fortissime, ma appena metto piede all’ospedale Grassi spariscono. L’ostetrica si insospettisce. Il ginecologo ausculta la pancia e sente la sofferenza del bambino. Me lo tirano fuori che è viola e non piange. Ce l’ha fatta solo perché aveva il cuore forte. Pesava più di quattro chili e io invece ecchime qua.

Morassi sorride, piccola e magra come un grillo. Se non fosse per qualche ruga sul viso e le borse sotto agli occhi azzurri, gli stessi del figlio Valerio, non si direbbe che ha 54 anni. All’epoca ne aveva trenta e quattro anni prima aveva avuto un altro bambino, Stefano. Durante quella gravidanza il marito se n’era andato di casa. Poi era tornato, ma Morassi racconta che era spesso assente: “Valerio è arrivato in un altro momento di crisi, però la sua nascita ha migliorato un po’ le cose”.

Dall’ospedale la dimettono insieme al neonato ma dopo qualche giorno la richiamano. “Mi dicono che glielo devo riportare perché se so’ dimenticati di fargli la puntura al piede al bambino e a passargli il dito sotto la lingua”, racconta. La puntura al tallone è un’operazione che fa parte delle procedure di screening neonatale, mentre il dito sotto alla lingua serve a controllare se il frenulo è corto o no, cosa che può dare dei problemi al bimbo quando cresce. È un dettaglio che tornerà in questa storia.

A cinque mesi e mezzo succede qualcosa che lo segna, dice la madre: “Giocando si rovescia addosso una pentola di minestrone bollente. Lo curano all’ospedale Sant’Eugenio di Roma. La pelle ustionata va via, però pure er carattere gioviale della creatura si perde, diventa diffidente, chiuso”.

A scuola
Un giorno, all’asilo comunale di Ostia, una maestra chiama la madre. “Mi dice: ‘Signora, lei mi deve spiegare che je fa a ‘sto bambino?’. Le chiedo che succede e lei mi spiega che appena lo lascio va all’attaccapanni, si butta i cappotti addosso e si nasconde lì. Lo devono tirare a forza. A mensa nun ce va perché ce stanno troppe persone e pare che il rumore lo fa ammatti’”.

La maestra le dice che la cosa non le piace e Morassi decide di chiedere aiuto al centro di tutela salute mentale e riabilitazione in età evolutiva di Ostia. Il figlio ha compiuto da poco i cinque anni e lo visita la dottoressa Simonetta Scerni, che nella sua relazione scrive di una “scarsa collaborazione del bambino”, di “aspetti regressivi e adultomorfi nel gioco”, e consiglia una “terapia riabilitativa del linguaggio” e “sostegno didattico” a scuola.

“Valerio lo capivamo solo io e il fratello”, racconta Morassi, “diceva frasi come ‘Lulutto cacà bombon’ per dire ‘Il lattuccio al cacao nel biberon’, o ‘cantinite’ per calamita”. Vede dei logopedisti, ma non funziona granché. Intanto, cominciano le elementari e i problemi si moltiplicano. “Non ci voleva andare”, racconta la madre, “scappava e tornava a casa. Un giorno mi chiamano per dirmi che si voleva buttare dalla finestra, anche se era alta poco più di un metro”.

Ester Morassi nella sua casa all’Infernetto, aprile 2019. (Giovanni Cocco per Internazionale)

Con i compagni non lega, accumula giornate inquiete e silenziose. Verso la metà della prima elementare una nuova logopedista si accorge che il frenulo gli incolla la lingua al pavimento orale. “Te ricordi che t’ho detto che nun j’avevano passato er dito sotto la lingua?”, chiede Morassi.

Lo operano al Bambin Gesù di Roma e nel giro di due mesi parla già meglio. Ma nel frattempo, tutt’intorno s’ingrossa una specie di burrasca. Negli anni delle elementari i genitori si lasciano e si riprendono, mentre la madre rischia la vita per via di un cancro. In terza “Valerio mena de brutto un altro bambino, tanto che lo sospendono”, dice Morassi. “Per fortuna una maestra s’è messa di mezzo, se l’è preso in classe e l’ha aiutato tantissimo”. È con lei che il bambino impara finalmente a leggere e a scrivere. “A nove anni”, dice la madre, “Valerio ha imparato a leggere e scrivere solo a nove anni”.

Il primo arresto, la prima diagnosi
Poco prima delle medie la famiglia è sfrattata dall’appartamento a Ostia dove vive e si trasferisce in questa casa all’Infernetto, dove Morassi iscrive il figlio alla scuola Mozart. Non sono anni semplici. Biondo come la paglia e ancora secchetto, Guerrieri continua a parlare poco. Nel quartiere, i ragazzi più grandi lo fermano, gli svuotano lo zaino, lo insultano. Lui comincia a girare con dei coltelli da cucina.

Uno glielo trovano un giorno al McDonald’s dei Parchi sulla Colombo. “Valerio sta lì co’ n’amichetto, che per scherzo rovescia un milk shake in testa a una ragazzina e quella chiama la madre, che è poliziotta, e je dice che Valerio c’ha i cortelli nello zaino. Quella ariva coi colleghi, lo pijano e lo portano alla questura di Ostia, dove compilano la denuncia per detenzione di arma da taglio e me lo ridanno”.

Nello stesso periodo “Valerio me pija i gatti, li mette nel trasportino e li butta in una piscinetta che avevamo in giardino”, racconta Morassi. “Un paio me li sotterra vivi, un cagnetto quasi me lo strozza col fil de fero”. La cosa allarma sia lei sia i servizi sociali, e così nel 2009 il ragazzino è ricoverato al reparto di neuropsichiatria infantile del Policlinico di Roma. “Ed è qui che je fanno la prima diagnosi”, dice la madre, “dopo una settimana di osservazione e colloqui i dottori me dicono che ha una personalità borderline con lievi tratti psicomaniacali”.

Quando chiede cosa significhi, gli psichiatri le spiegano che è un disturbo sfuggente e che può evolversi in mille modi. Sono cauti, e del resto la storia del disturbo invita a esserlo. “Per molti anni è stato considerato una condizione clinica incurabile”, ha scritto Russell Meares, professore di psichiatria all’università di Sydney. Solo negli anni novanta sono nate terapie specifiche per trattarlo, ma “non ci sono prove che dimostrino la maggiore efficacia di una rispetto a un’altra”. Lo psichiatra Luigi Cancrini usa l’immagine dell’oceano per afferrarne la complessità e il mistero. In L’oceano borderline scrive:

La manifestazione più semplice e più comune è una mente che tende a dare giudizi estremi (…) che giudica tutto cattivo o tutto buono (…) che si esprime di fronte ai compiti spesso gravosi che la vita ci presenta con l’irruzione improvvisa ed esplosiva di condotte poco meditate.

Per tenere queste esplosioni sotto controllo, i medici danno al ragazzo i suoi primi psicofarmaci. A quattordici anni deve buttare giù ogni giorno un antipsicotico usato da chi soffre di schizofrenia o di mania bipolare. Non è così semplice come sembra. Gli effetti collaterali possono essere pesanti e il ragazzo li misura a uno a uno sulla sua pelle. Comincia a prendere peso e a perdere energia, si sente spesso annebbiato e capisce che non ce la fa più a giocare a rugby, sua grande passione. Inoltre, dopo l’ospedale lo mandano nella comunità terapeutica Casetta rossa di Roma, dove dorme cinque giorni alla settimana e prova a seguire un percorso terapeutico che dovrebbe aiutarlo.

Passano così le medie, le ultime classi dove metterà piede.

Tempo annichilito
A quattordici anni Valerio Guerrieri è alto uno e settanta e pesa quasi cento chili. Per le strade dell’Infernetto ora sono pochi a dargli fastidio, ma non ci resta molto. A Casetta rossa non fa molti progressi e così il 28 settembre 2010 finisce in un’altra comunità, la Lilium, in provincia di Chieti, a più di 230 chilometri da casa. “Io non l’ho accompagnato, perché lo sapevo che se arrivavo lì e lui mi diceva di tornare indietro, io me lo portavo, annatece voi a fa’ il cuore duro”, racconta Ester Marassi.

Nello stesso periodo, la donna si trasferisce ad Ambur, in Senegal, con un amico volontario. “In Italia non ce la facevo più”, dice, “volevo capire se riuscivo a portarmi via pure Valerio”.

A sinistra: il muro costruito dopo la morte di Valerio Guerrieri per separare la sua stanza dal resto della casa. A destra: oggetti appartenuti al ragazzo e una foto di quando aveva 18 anni, Roma, aprile 2019. (Giovanni Cocco per Internazionale)

Intanto, il ragazzo passa settimane tremende nella struttura abruzzese, oscillando tra l’annichilimento degli psicofarmaci e le fiammate di violenza. È in preda a uno di questi fuochi che un giorno picchia un operatore. Dopo l’aggressione lo cacciano e resta senza più reti di protezione, rischiando di andare in frantumi.

La madre è tornata dal Senegal, ma non ce la fa ad aiutarlo da sola. È per questo che nel dicembre 2011 accompagna il ragazzo a Villa Letizia, un centro a Roma che si occupa di chi ha problemi psichiatrici. Con l’aiuto di Santo Rullo, uno dei fondatori della struttura, Guerrieri riesce a evitare il crollo e a ridurre gli psicofarmaci. Sembra che il piano inclinato sul quale ha rotolato finora si stia raddrizzando, ma qualcosa proprio a Villa Letizia lo fa sobbalzare di nuovo.

Argento vivo
Racconta la madre: “Il ragazzetto al centro c’annava e nun c’annava, usciva, scappava. Se ne andava a ruba’ i motorini. Ne rubava ’na cifra. Però mica se li vendeva, li accumulava”. Santo Rullo ha un’immagine precisa per descriverlo in quei giorni. “Era come se avesse l’argento vivo addosso”, dice al telefono. Lo psichiatra ricorda che Guerrieri era arrivato a Villa Letizia dopo un periodo in cui aveva provato a vivere in una roulotte nel giardino di casa. “Non prendevo le terapie”, racconterà il ragazzo allo psichiatra Renzo De Cori, “andavo al discount e prendevo le zuppe preparate, le facevo sul fornelletto”.

Rullo dice che “Valerio era un leader, un magnete, costruiva rapporti intensi ma era capace di farli saltare in aria per niente, così poi da poter dire di essere stato scaricato”. Con i compagni lega poco e non partecipa alle attività di gruppo. “Bisognava inventarsi ogni giorno le cose da fargli fare”, dice lo psichiatra, “ed è per questo che una volta gli ho portato una vecchia Vespa. Si divertiva a montarla e smontarla, le moto erano la sua ossessione. Pensa che quando a Ostia ne spariva qualcuna, i carabinieri andavano a trovarlo per chiedergli se per caso non l’avesse presa lui”.

Il 1 maggio 2012 lo arrestano proprio mentre sta cercando di rubarne una. “C’ha ancora sedici anni, perciò lo portano al minorile di Casal Del Marmo, anche se poco dopo gli danno i domiciliari a Villa Letizia”, racconta la madre.

Un incontro pericoloso
Morassi dice che è proprio mentre sconta la pena nella struttura che il figlio conosce una persona che non avrebbe dovuto conoscere. “È più grande di lui, c’avrà avuto ’na quarantina d’anni, è il figlio di uno dei capi della banda della Magliana. È lui che gli insegna a rapinare i supermercati”, racconta. Guerrieri fa i suoi primi colpi sempre con un altro ragazzo, l’unico per cui la madre usa la parola amico. Si chiama Federico Caranzetti, ha diciassette anni e un padre in galera per narcotraffico. Insieme rapinano alcuni supermercati tra Roma, Ostia e Frascati. “Cominciano pure a tirare de coca e a sperperasse li sordi”, dice Morassi, “ma nessuno li scopre”.

Il 6 gennaio 2014 Caranzetti ha un appuntamento a Tor Bella Monaca, nella periferia est di Roma. Alle 22.30 è in via di Villabate per comprare della droga. Ma non riuscirà mai a farlo perché qualcuno, prima che l’affare si concluda, si avvicina e gli spara in testa.

“Du’ botte e Federico more, per Valerio è un colpo tremendo”, racconta Morassi, “per reazione, come in un raptus, va a rapinare altri supermercati, uno dietro l’altro”. Lo beccano mesi dopo e siccome ha ormai compiuto diciotto anni rischia la galera. Tuttavia, gli riconoscono il vizio parziale di mente e lo rimandano a Villa Letizia.

Al manicomio criminale
Nel centro romano passa giorni complicati. La rabbia lo prende alla gola, lo scuote, lo spinge a essere violento con gli altri e contro sé stesso. La madre racconta che un giorno picchia un anziano perché non gli ha prestato l’accendino. Mentre Santo Rullo ricorda che “un giorno aveva provato a impiccarsi con le cinghie di una persiana”. Gli operatori di Villa Letizia gli fanno fare un trattamento sanitario obbligatorio (tso) all’ospedale San Camillo.

I tso sono sempre ricoveri complicati, spesso penosi, a volte violenti. Le persone finiscono contro la propria volontà nei servizi psichiatrici di diagnosi e cura (Spdc), e cioè nei reparti psichiatrici degli ospedali, dove spesso sono anche legati al letto se hanno delle crisi. In Italia gli spdc sono 285 e tra loro solo una trentina tiene le porte aperte e non usa la contenzione.

A sinistra: nel pacchetto di sigarette Ester Morassi tiene le matrici dei pacchi che spediva al figlio quando era nel carcere di Regina Coeli a Roma. A destra: la casa dove abitava Valerio confina con un bosco dove scappava ogni volta che le forze dell’ordine andavano a cercarlo. (Giovanni Cocco per Internazionale)

Guerrieri non ci pensa due volte a scappare. Passa mesi in latitanza, fino a che nel giugno del 2014 non lo riacchiappano e lo portano a Regina Coeli. È qui che a settembre lo va a trovare il dottor Renzo De Cori. Lo psichiatra lo incontra due volte nell’infermeria del carcere romano e alla fine scrive una perizia per il tribunale di Roma. Leggerla è come osservare una fotografia di Guerrieri scattata in quei giorni.

“Valerio è un giovane alto, dall’incarnato molto chiaro, con occhi e capigliatura anch’essi chiari”, annota De Cori. Ha diversi tatuaggi, sulle nocche delle dita si è fatto scrivere “Game over”. Sulle braccia ha delle cicatrici, “frutto di pratiche autolesionistiche”. Ha una ferita anche sul collo, un taglio che si è fatto perché lo avevano messo in isolamento e non aveva retto. A tratti i suoi occhi blu sembrano svuotarsi, due bottoni di madreperla sul viso ancora da ragazzo. Ha come dei tremori, spesso la voce gli si abbassa. A De Cori dice: “Me vorrei sgara’ un braccio ma non lo faccio per i miei genitori. Sto seduto o disteso e mi viene da pensare male, che a me sta’ qua dentro non me fa fa’ ’na bella fine e ho paura”.

Per pagine e pagine De Cori smonta e rimonta la psicologia del ragazzo, e alla fine scrive: “Riteniamo che sia incapace di intendere e volere”. Mentre “relativamente alla pericolosità sociale riteniamo sia rilevabile un elevato numero di fattori di rischio di recidiva”. Per una persona così a Regina Coeli non c’è posto. A una persona così, nell’Italia di appena cinque anni fa, tocca l’ospedale psichiatrico giudiziario, ovvero il manicomio criminale, ultima grande vergogna che neanche la legge Basaglia, che nel 1978 aveva rivoluzionato la psichiatria e avviato la chiusura dei manicomi, era stato in grado di cancellare.

Nel 2015 in Italia ci sono ancora sei manicomi criminali per un totale di 689 detenuti. Valerio Guerrieri è tra i rinchiusi di Secondigliano, nella periferia nord di Napoli. È l’unico momento nel racconto di Ester Morassi in cui la donna si interrompe e il fiato le si rompe. C’è una foto del ragazzo in quel periodo. Ha i capelli rasati, le borse sotto agli occhi, il viso gonfio come il resto del corpo. “Non sono mai andata a trovarlo, non ce l’ho fatta, è stato terribile, per lui e per noi”, dice.

Il figlio esce il 1 dicembre 2015, due giorni prima del suo ventesimo compleanno, perché Secondigliano, come tutti gli altri Opg in Italia, deve chiudere. Lo stabiliva una legge del 2011. Se ci si ferma un attimo a pensare a questo dettaglio, si capisce che Secondigliano è un altro di quei posti in cui il ragazzo non avrebbe dovuto trovarsi: nello specifico, questo non doveva neanche più esistere.

Fuga psicogena
I primi mesi del 2016 Guerrieri li passa in una comunità aperta a Rocca Canterano, 184 abitanti vicino a Subiaco. Prende nove psicofarmaci al giorno, ma li detesta perché gli spengono gli occhi in uno stato di sonno perenne. Smette di prenderli nel marzo di quell’anno. Riacquista energia, ma ritornano anche le giornate storte e furiose, durante le quali si scaglia contro operatori e medici, tanto che lo sottopongono a un altro tso. Questa volta lo ricoverano all’ospedale Grassi di Ostia, a pochi chilometri da casa. “E Valerio secondo te che fa? Scappa di nuovo e viene qua, ma arriva in uno stato…”, ricorda la madre. “Senza medicine era ingestibile, aveva momenti in cui era completamente assente e momenti che pareva ’n’animale”, dice.

La donna racconta di essere riuscita a riacchiapparlo grazie al modulatore d’umore che gli avevano dato anni prima a Villa Letizia. Ha provato a dargli altri psicofarmaci, ma il figlio glieli ha bruciati davanti agli occhi. “Passava le giornate ciondolando per casa, pareva uno zombie. L’unica cosa che lo riesce a tirare su è la notizia di un conguaglio della pensione d’invalidità che prendeva da anni. Ma quando arrivano i soldi lui sai che fa? Si compra subito una moto”, dice Morassi.

In realtà, nel giro di pochi mesi ne compra tre. Le prime due gliele sequestrano perché è senza patente e senza assicurazione, mentre la terza è quella a bordo della quale la notte tra il 2 e il 3 settembre 2016 riesce a seminare cinque volanti della polizia prima di essere arrestato.

A sinistra: Ester Morassi fuori della sua casa all’Infernetto, aprile 2019. A destra: l’ultima e unica foto che Morassi ha insieme al figlio. È stata scattata nel 2015, dopo che Guerrieri era uscito dall’Opg di Secondigliano. (Giovanni Cocco per Internazionale)

Quella sera, Guerrieri cena con i genitori e con il fratello. “Stavamo proprio qui”, ricorda la madre, “se semo fatti ’na bistecca e poi Valerio me dice ‘Ma’, ’so stanco, me metto a letto’. Va bene, je dico, mica me posso immagina’ che me sta a di’ ’na cazzata”. Poco dopo il ragazzo esce di nascosto, prende la moto e va verso il grande raccordo anulare.

Tre ore dopo – e cioè dopo la fuga sul gra, l’inseguimento e l’arresto – dice di non ricordare di essere scappato, né perché lo abbia fatto. Gli agenti ovviamente non gli credono. Era senza patente, era senza assicurazione ed era fatto di cocaina: ai loro occhi torna tutto. Ma non sempre le cose sono così semplici come appaiono. In questo caso c’è una variabile che è complicato afferrare, ma che aiuta a capire quello che potrebbe essere successo al ragazzo. Russell Meares la chiama fuga psicogena e dice che succede a chi soffre di disturbi borderline: “In questa condizione, lo stato psicogeno di amnesia, che è spesso parziale, è combinato con la componente motoria, somatoforme, del vagare automatico e apparentemente senza scopo. Il fenomeno è solitamente inteso come una difesa di fuga da circostanze con cui l’individuo è incapace di fare i conti”.

Suona familiare con la scena descritta all’inizio di questo articolo?

A Regina Coeli
In ogni caso, fuga psicogena o meno, il 3 settembre 2016 Valerio Guerrieri è processato per direttissima, è condannato ai domiciliari ma finisce nel pozzo nero di Regina Coeli perché polizia e tribunale ritengono che casa sua non sia il posto giusto dove debba stare. Il posto giusto è la gabbia trasteverina con i suoi 946 carcerati, quasi il doppio di quelli per cui c’è spazio. In poche settimane quindici persone si picchiano in una rissa violentissima e una prova a impiccarsi. I sindacati di polizia denunciano un clima insostenibile.

Il 25 ottobre sembra che Guerrieri possa lasciarsi alle spalle tutto questo. Alla prima udienza del processo – e cioè 52 giorni di galera dopo – la difesa del ragazzo dimostra i suoi problemi psichiatrici e la giudice Anna Maria Pazienza fa due cose: chiede una nuova perizia e per la seconda volta dà i domiciliari al ragazzo. Ma a questo punto si crea un cortocircuito.

La galera è ancora un posto dove rinchiudere qualsiasi forma di devianza, dai poveri ai malati psichiatrici

Nel 2015 Guerrieri era finito davanti al tribunale di Roma per rapina e ricettazione. Il 9 marzo 2015 la corte d’appello gli aveva riconosciuto il vizio totale di mente e lo aveva condannato a un anno da scontare in una residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems), e cioè in una delle strutture che hanno sostituito i manicomi criminali. La sentenza però diventa esecutiva solo il 13 settembre 2016, quando il ragazzo è a Regina Coeli. Cosa succede, quindi? “Succede che in attesa che venga trovata la Rems, Valerio resta parcheggiato in carcere”, dice Simona Filippi, l’avvocata che rappresenta sia Ester Morassi sia l’associazione Antigone, impegnata a fare luce sulla vicenda.

La situazione si sblocca solo il 30 novembre, quando finalmente Guerrieri è trasferito nella Rems di Ceccano. “Con il padre e il fratello lo andiamo a trovare il 3 dicembre, giorno del suo ventunesimo compleanno”, racconta la madre. Pausa, tiro di sigaretta: “La mattina del 4 me lo ritrovo a casa”. Lo riportano nella struttura, e lui scappa di nuovo. Secondo i responsabili è “lucido, ben orientato, e non si evidenziano alterazioni a livello della capacità di critica e giudizio”. Un giudizio che contribuisce a riportarlo a Regina Coeli e su cui però è stato aperto un fascicolo di indagine al tribunale di Frosinone. I giudici dovranno stabilire come sia nata una valutazione così in contrasto con quelle precedenti.

L’ultima perizia
Nel carcere romano il ragazzo incontra più volte lo psichiatra Gabriele Mandarelli, scelto dal tribunale per la nuova perizia. Il 14 febbraio 2017 il dottore racconta in aula quello che ha potuto capire parlando con Guerrieri e leggendo la sua storia clinica. Alla giudice Anna Maria Pazienza dice che si è trovato di fronte “un soggetto con un grave disturbo di personalità con aspetti antisociali e borderline”, che soffre di “un grave discontrollo degli impulsi (…) sicuramente cronicizzato e scarsamente responsivo alle terapie”.

La giudice gli chiede come mai a Ceccano abbiano potuto dire: “Secondo noi, lui non ha problemi”. E Mandarelli risponde: “Sono rimasto un po’ perplesso (…) Credo che volessero dire che alcune condotte che loro hanno stipulato in quel momento fossero determinate con consapevolezza”.

Il dottore ricorda anche un fatto successo a Regina Coeli l’ultimo dell’anno:

Lui ha numerosissimi tagli perlopiù superficiali sugli avambracci (…), però ne ha anche uno che, refertato il 31 dicembre del 2016, nel quale gli avevano detto che avrebbe dovuto mettere dei punti di sutura che lui ha rifiutato (…) non era un taglio superficiale quello, la cicatrice è ben diversa.

Sono queste ferite, oltre alla storia clinica di Guerrieri, che fanno dire al dottore una frase come questa: “Peraltro devo aggiungere che, una cosa che forse apparentemente è sottovalutata, è che lui ha un rischio suicidiario piuttosto significativo”.

Una cosa apparentemente sottovalutata. Un rischio suicidiario piuttosto significativo. Nella stessa udienza è il ragazzo a rendere ancora più esplicito questo rischio. Alla giudice dice:

Regina Coeli è un caos, io ogni mattina mi sveglio e soffro. Soffro mentalmente, psicologicamente… Guardate, veramente do la mia parola d’onore, di uomo, che se mi mandate a Villa Letizia o a casa mia, io seguo tutte le terapie che mi date, dal cim al sert… Io sono convinto di curarmi… perché voglio fare una vita normale, voglio sposarmi, avere dei figli, mi voglio fare una famiglia, voglio andare a lavorare, voglio essere normale… Perché sono un ragazzo.

Alla fine di questa udienza, cinque mesi e mezzo dopo l’arresto, la giudice Anna Maria Pazienza dichiara colpevole il ragazzo, ma gli riconosce un vizio parziale di mente. Perciò gli revoca il carcere e dispone per lui un “regime residenziale in una casa di cura per la durata di sei mesi”. A penna, nella sentenza, c’è scritto: “Con esclusione della Rems di Ceccano (eventualmente Rems di Sollicciano)”.

Nel dizionario della Treccani c’è una definizione di “eventualmente” che sembra fatta apposta per questa storia: “Che può avvenire o no secondo gli eventi, quindi possibile, incerto, casuale”. Nel momento in cui la giudice pronuncia la sua sentenza, il ragazzo non dovrebbe passare un minuto di più in carcere. Ma è lì che ancora una volta è tenuto. Nel caso che si trovi una Rems. Nell’eventualità. Nell’incertezza.

Il 16 febbraio 2017 scrive una lettera al fratello:

Ciao frate ti scrivo adesso 9.40 del mattino ti scrivo soltanto per dirti che mi dispiace x tutto io qui sto impazzendo non ce la faccio più ma vabbè me la so cercata (…) veramente ora son stanco di mangiare di fare qualunque cosa di scappare basta. se io me ne vado x sempre penso che voi non sentirete la mia mancanza voglio andarmene per sempre quindi ora ti lascio con la penna ma non con il cuore ciao fratellone mio ci rincontreremo stai ar ciocco addio!?!?

Otto giorni dopo queste parole la stanchezza ha la meglio. La sera del 24 febbraio il ragazzo va in bagno e si impicca. Secondo il racconto dei compagni di cella aveva preparato il cappio il giorno prima.

Il sistema
“La cosa più probabile ora è che l’ultimo che si è trovato in mano il cerino paghi per tutti”, dice lo psichiatra Santo Rullo. È quello che lascia intuire la richiesta di rinvio a giudizio contro due medici e sette secondini fatta nel 2018 dal pubblico ministero Attilio Pisani. I nove sono accusati di omicidio colposo per non aver sorvegliato e controllato il ragazzo come bisognava fare, e cioè ogni 15 minuti e con visite psichiatriche quotidiane.

Contemporaneamente, Pisani ha provato ad archiviare le indagini sulla direzione del carcere e del dipartimento amministrazione penitenziaria (dap). Secondo il pm “non avrebbero agito con dolo, ma per negligenza”. Raggiunto al telefono, il magistrato ha risposto di non poter parlare “per via di nuove disposizioni in procura” e di “chiedere al procuratore aggiunto Paolo Ielo”. Ielo però non ha mai risposto alla richiesta di un incontro. Nel gennaio scorso, il giudice per le indagini preliminari Claudio Carini ha ordinato a Pisani di continuare a indagare sulla direzione del carcere.

Una foto di Valerio Guerrieri il giorno del suo secondo compleanno, Roma, aprile 2019. (Giovanni Cocco per Internazionale)

“Tuttavia, se ci si riflette, al di là dell’ultimo passaggio, che è grave perché ha portato a un fatto doloroso e che bisognava evitare, è l’intero sistema che ha fallito”, dice Rullo, “perché è un sistema che spesso usa il carcere, le comunità terapeutiche o le Rems come le uniche alternative per chi soffre di problemi psichiatrici gravi”. Secondo Rullo ogni paziente ha una storia e in molti casi la comunità non è la risposta giusta. “Prendiamo il caso di Valerio”, dice Rullo, “Valerio è un ragazzo con una forte spinta antisociale, e però che si è fatto per lui? Per tanti anni si è provato a risolvere il problema spedendolo in comunità, cioè in un luogo fondato per definizione sulla socialità. La risposta migliore, nel suo caso, sarebbe stata quella di un operatore che lo seguisse singolarmente, anche a casa, in maniera costante e continua, e non in un luogo dove il suo disagio non poteva che esplodere”.

Tuttavia, per immaginare soluzioni del genere c’è bisogno di soldi, e trovarli non è così semplice. “Nel Lazio il 90 per cento delle risorse (destinate alla salute mentale, ndr) è speso per residenze, comunità terapeutiche riabilitative intensive o case di cura”, ha detto Alessandro Reali, presidente della conferenza regionale del volontariato. “I budget che restano per fare altro sono pochi, legati a progetti saltuari, con figure professionali con retribuzioni inadeguate”.

La situazione delle Rems non è migliore. Sono poche – trenta in tutta Italia, con venti letti ciascuna – e spesso piene. Il risultato è che tanti, com’è successo a Valerio Guerrieri, non trovano posto e finiscono per restare in galera, incastrati in quella che il comitato nazionale per la bioetica lo scorso marzo ha definito una “crisi complessiva di sistema”. Questa crisi, scrive il comitato, “si manifesta con le liste d’attesa per le Rems”, usate anche in maniera indiscriminata: “Il ricovero in Rems deve essere uno strumento di extrema ratio, solo laddove le misure di sicurezza non detentive non siano assolutamente praticabili”.

Anche secondo Stefano Anastasia di Antigone “al di là delle responsabilità individuali, c’è un problema di ordine più generale”. “La galera”, dice, “è ancora oggi un posto dove rinchiudere qualsiasi forma di devianza, dai poveri ai tossicodipendenti, ai malati psichiatrici. La conseguenza è che le carceri scoppiano e i suicidi aumentano”.

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Nel 2017, quando Valerio Guerrieri si è ucciso, nelle carceri italiane c’erano 57.393 detenuti, settemila in più di quelli che le celle potrebbero contenere. Alla fine di quell’anno si sono ammazzate 52 persone. Nel 2018 i detenuti erano 59.655 e i suicidi sono stati 67. Oggi i reclusi sono 60.348 e nei primi quattro mesi di quest’anno si sono uccise dodici persone.

Per avere un metro di paragone si può riavvolgere il nastro della storia carceraria italiana e tornare al 1990, quando i detenuti erano 31mila. Allora le persone che provarono a suicidarsi furono 489. Nel 2018 sono state 1.197.

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Negli ultimi vent’anni in Italia il numero dei detenuti è cresciuto spaventosamente, nonostante i reati siano diminuiti. La galera è diventata sempre di più la risposta a una percezione di insicurezza, invece che a un pericolo reale. A farne le spese sono stati per lo più tossicodipendenti, stranieri e persone nate nelle regioni più povere dell’Italia del sud. E tra tutti, i 1.065 carcerati che dal 2000 a oggi non ce l’hanno fatta e si sono uccisi.

È anche questa la storia che il suicidio di Valerio Guerrieri racconta.

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