Da anni il dottor Tom Postmes propone agli studenti di psicologia sociale dell’università di Groningen, nei Paesi Bassi, sempre lo stesso problema, questo:
Un aereo è costretto a un atterraggio di emergenza e si spezza in tre. La cabina si riempie di fumo. A bordo, tutti si rendono conto di una cosa: devono allontanarsi. Che cosa succede?
• Sul pianeta A, le persone a bordo si domandano tra loro come stanno. Si dà la precedenza a chi ha bisogno di aiuto; tutti sono disposti a dare la vita anche per degli estranei.
• Sul pianeta B, la regola è ognuno per sé. Si scatena il panico. Tutti spingono e sgomitano. Bambini, anziani e disabili vengono calpestati.
Postmes lascia che i contorni della scena si definiscano nell’immaginazione dei suoi allievi, aspetta che diventino così vividi da spingere qualcuno tra loro a metterci piede, infine riporta tutti alla realtà con una domanda: su quale pianeta viviamo?
Cambiamo scenario. Un virus che finora aveva proliferato nel corpo di alcuni animali riesce a compiere il salto di specie e a infettare gli esseri umani. Cinquanta milioni di persone si contagiano, più di un milione muore, decine di paesi rischiano di implodere. In assenza di un vaccino, tutti si rendono conto di una cosa: bisogna frenare i contagi, curare i malati, evitare che i sistemi sanitari collassino. Che cosa succede? Sul pianeta A le persone si domandano come stanno, si dà la precedenza a chi ha bisogno di aiuto. Sul pianeta B, la regola è ognuno per sé. Domanda: su quale pianeta viviamo?
La bolla
La mattina dell’11 novembre a Roma c’è il sole: ed è una delle poche buone notizie per la capitale. In Italia i casi di covid-19 hanno superato il milione, rispetto al 10 novembre ci sono stati quasi 33mila nuovi casi, nel Lazio 2.479, a Roma 1.095. Intanto, nel giro di un mese, lo storico ostello per senzatetto della Caritas è diventato un focolaio.
Durante la prima ondata il centro era stato costretto a chiudere la mensa e a ridurre i posti letto da 180 a 80 per rispettare le distanze di sicurezza, ma aveva retto. Il 5 ottobre, nella struttura a pochi passi dalla stazione Termini, è stato segnalato il primo ospite positivo. A fine mese i contagiati erano 67. Sessantasette persone su ottanta: e non si capiva dove portarle, se ci fossero posti per loro o se fossero tutti occupati. Le risposte sono arrivate in ritardo, gli ospiti hanno continuato a contagiarsi. Il cortocircuito si è allargato a tal punto che alcune delle persone portate nei centri per la quarantena una volta uscite hanno rischiato di ritrovarsi per strada perché non potevano ritornare in una struttura che secondo il direttore dell’area sanitaria della Caritas, Salvatore Geraci, era stata lasciata da sola a frenare la diffusione del virus.
La bolla dalla quale Roma ha osservato Bergamo, Torino e altri centri del nord fare i conti con il virus – e piegarsi di fronte a terapie intensive strapiene, a bare trasportate da camion militari, a persone isolate in casa senza molta assistenza – quella bolla si è rotta ed è svanita anche l’illusione di essersela cavata con poco.
Una storia dietro ai numeri
La mattina dell’11 novembre, nella luce tiepida delle nove, una fila di persone aspetta di varcare i cancelli dell’Help center in via di Porta San Lorenzo, così da poter fare i tamponi nel piazzale della struttura e capire chi è positivo o negativo, gli estremi tra cui oscilla il pendolo di questi giorni.
Da giugno il centro che aiuta senzatetto, migranti e chiunque ha visto franare la propria vita in strada o nella povertà ha deciso di dar loro una possibilità che sarebbe complicato, se non impossibile, strappare da altre parti. E questo per diversi motivi: alcuni di loro sono stranieri e non hanno i documenti in regola, altri non hanno una residenza o l’hanno persa, certi hanno documenti e residenza ma non hanno tutto il resto, per esempio una famiglia, una rete di affetti, la lucidità o la forza per occuparsi di sé. La maggioranza non ha un medico di base perché non ne ha diritto: succede se si vive per strada o se si è etichettati come irregolari. Pochi avrebbero i soldi per pagarsi i test.
In fila ci sono italiani, stranieri, senza dimora e persone che vivono in edifici occupati. Migliaia e migliaia di esistenze che finiscono nel pallottoliere delle grandi cifre oppure che sfuggono a ogni conta. “Circa 14mila persone che cercano di rimanere ‘in piedi’, al limite della dignità umana, in baracche, anfratti, sottopassaggi, sui marciapiedi, nelle piazze, nei parchi pubblici o che si trovano ‘bloccate’ nelle strutture di accoglienza della città per la mancanza di risposte adeguate”, scrive la Caritas.
Fra loro c’è anche Vlado, 62 anni, croato. Me lo presenta Valentina Di Fato di Binario95, il centro dove chi non ha una casa può passare del tempo durante il giorno e che offre una decina di posti per la notte. La cooperativa che lo gestisce è la stessa che si occupa dell’Help center.
“Vlado è una delle poche persone che sono riuscite a trovare un letto dove dormire prima che tutti i centri chiudessero le porte per paura di portare dentro il virus, più o meno sei mesi fa”, dice Di Fato. L’uomo accetta di raccontare la sua storia a patto che non si faccia il suo cognome. Alto, spalle larghe, occhi chiari, all’inizio fra una risposta e l’altra lascia che il silenzio scandisca i tempi, poi il racconto diventa pieno. Si interromperà solo una volta, una pausa più lunga delle altre, un passaggio che gli farà accendere una sigaretta.
“Sono cresciuto a Zagabria, con mia madre e due fratelli, che poi hanno cominciato a bere e con cui non ho poi avuto molti rapporti. Da ragazzo ho fatto qualche lavoretto, ma le giornate non andavano da nessuna parte, così sono salito su un autobus e sono arrivato prima a Trieste e poi a Milano. Era il 1988, avevo trent’anni ed esisteva ancora la Jugoslavia”.
In Italia vive per strada. “Insieme ad altri la notte ho cominciato a scassinare dei tabaccai. Quando mi hanno beccato avevo già degli altri processi in corso, sempre per furti e scassi. Alla fine mi hanno condannato a sei anni e mezzo”. La maggior parte li ha passati nel carcere di Aosta, dove si è fatto un’idea precisa della galera: “Non è facile, ma la strada è peggio”. Un’idea asciutta, chiara, a cui non ha molto altro da aggiungere. Quando esce è di nuovo senza una casa e di nuovo alle prese con i furti, prima con altri e poi da solo. “All’epoca ero ad Ancona, puntavo a bar, sale giochi e sale slot”. È durante questo periodo che conosce la donna che diventerà sua moglie: “Una ragazza polacca, aveva perso il lavoro a Napoli ed era venuta in città con un ubriacone”. Si incontrano in una mensa della Caritas e tre giorni dopo stanno già insieme.
Provano a lasciarsi alle spalle la strada, gli ubriaconi e i furti. Si trasferiscono prima ad Acilia e poi a Torvaianica, alle porte di Roma. Lei fa le pulizie e la babysitter, lui lavora in un benzinaio e distribuisce volantini. Nel 1999 riesce a comprare un furgone per fare traslochi e piccoli trasporti. Le cose vanno bene fino al 2002, quando ha un incidente con il furgone. Nessuno si fa niente, l’altra macchina si ammacca appena, ma lo schianto produce un’onda d’urto inaspettata: Vlado guida con una patente falsa e l’unico documento che ha in mano è il passaporto di un paese, la Jugoslavia, che nel frattempo si è dissolto tra guerre e violenze indicibili.
Una città che riesce a restituire salute e dignità ai più fragili è una città che sta lavorando per tutti
Con il foglio di via in mano, torna a Zagabria giusto poco prima della morte del fratello maggiore. “Non aveva neanche cinquant’anni, è finito sotto un treno e nessuno ha mai capito se l’abbia fatto apposta o perché era ubriaco”. Poco dopo muore anche la madre, anziana e malata. I rapporti con l’altro fratello non sono buoni. “Mi voleva morto per prendersi l’eredità. Beveva, maltrattava moglie e figli, ho chiuso con lui”. L’eredità è un insieme di terreni che Vlado prova a vendere senza successo. Le cose non vanno meglio con una serie di investimenti con cui prova a far girare la fortuna dalla sua parte. Apre un negozio di cambiavalute, un tabaccaio, un’edicola. Fallisce tutto. E lui ha due infarti. L’unica notizia buona di questi anni è che nel 2004 sposa la compagna a Zagabria. “Lei però è tornata subito ad Ancona perché in Croazia non trovava lavoro. Io lavoravo a Spalato e andavo a trovarla una volta al mese”. Poi decide di riprovarci. Nel 2015 mette abbastanza soldi da parte per pagare un tizio che gli promette una stanza e un lavoro a Roma. Quando arriva in città non ci sono né il tizio né il lavoro né la stanza.
Un amico lo ospita per qualche mese a Ostia ma poi finisce di nuovo per strada. “Prima a villa Borghese, poi a Termini, sempre da solo”. È poco dopo che comincia a frequentare Binario95. All’inizio fa solo qualche doccia, ogni tanto usa il bagno, ma continua a dormire dove capita. Nel 2015 la moglie torna in Polonia, le danno una piccola pensione, ma i soldi sono troppo pochi per permettere a lui di trasferirsi da lei. Vlado la va a trovare quando può. “L’ultima volta è stata lo scorso gennaio”. Ed è a questo punto che fa una pausa più lunga delle altre, si accende la prima sigaretta da quando ha cominciato a raccontare la sua storia, fa qualche tiro, infine riprende.
“Nel dicembre del 2019 è caduta, una cosa da niente. Ma durante i controlli in ospedale scoprono che ha un’ulcera che sta per perforarle lo stomaco. La operano due volte, la seconda volta le asportano un pezzo di stomaco”. Binario95 lo aiuta a fare il biglietto per andarla a trovare. “Non la riconoscevo più”, dice. La sigaretta finisce, Vlado si prende ancora qualche secondo, poi aggiunge: “Sono grande e grosso, ma dentro sono marcio, ho avuto un terzo infarto qualche tempo fa. Le cose non sono come sembrano”. Valentina Di Fato viene a chiamarlo, è arrivato il momento di farsi il tampone.
Colmare un vuoto
Sotto alla tettoia dell’Help center la fila procede ordinata. Una ragazza della Costa d’Avorio, treccine sulle spalle e occhi bassi, sorride in silenzio. Può succedere quando si ha un po’ di paura. Due medici vestiti dalla testa ai piedi con mascherine, tute e calzari protettivi fanno sedere le persone dietro a un separè e preparano il necessario per i tamponi. A coordinare il loro lavoro è Aldo Morrone, direttore scientifico dell’istituto San Gallicano di Roma. Il professore entra ed esce da una sala piena di macchine da cucire. Prima che si fermasse tutto, qui si tenevano laboratori di cucito per chi volesse imparare il mestiere. Alto, stempiato, voce calma e aspetto rassicurante, Morrone si siede dietro a una di queste macchine. Indossa un paio di occhiali, una giacca a vento e due mascherine, quella chirurgica sopra a quella ffp2. Negli anni ha fatto volontariato in vari paesi dell’Africa, ha visto le persone morire di aids, di colera, di ebola, e tutto questo gli ha insegnato che “durante una pandemia, o si curano tutti, a partire dai più fragili, o si creeranno dei vuoti dove il virus potrà continuare a proliferare, minacciando anche chi pensa di essere al sicuro”.
È per evitare che questo avvenga che ha accettato di collaborare con l’Help center e Binario95. E che fa la stessa cosa nel colonnato della basilica di San Pietro, proprio sotto alla finestra dove il papa si affaccia per la preghiera della domenica. I tamponi sono parte di uno studio che consegnerà al comitato tecnico scientifico nazionale. “I piani sono diversi. Da una parte c’è l’indagine conoscitiva che prova a capire in che modo il virus si diffonde tra le categorie più fragili, quali conseguenze può avere su di loro e come provare ad arginarle. Dall’altro offriamo un modello di intervento che si può replicare anche su altre realtà, dalle residenze per anziani ai centri per i migranti. Infine, c’è la convinzione che una città che riesca a restituire salute e dignità ai più fragili è una città che sta lavorando per tutti”.
In realtà, per ora quello che avviene nello spiazzale dell’Help center è tutto frutto di volontariato. Morrone recupera i soldi per i tamponi dall’istituto San Gallicano, il personale che li effettua viene qui gratuitamente, così come le operatrici e gli operatori di Binario95, che si occupano anche di gestire le prenotazioni e comunicare i risultati.
“Al momento”, spiega Morrone, “non c’è una sponda istituzionale”. Tuttavia spiega che c’è stata quando si è dovuto trovare il luogo dove consentire alle persone che vivono per strada di stare in quarantena se risultate positive. “Il monito di restare a casa finché il tampone non risulti negativo non ha senso per chi una casa non ce l’ha, per chi non ha un medico di base che gli dica cosa fare, per chi non può permettersi delle medicine. Grazie all’aiuto del comune e della regione si è trovato un hotel sull’Aurelia dove ospitare chi ne ha bisogno, con la supervisione dell’azienda sanitaria locale”. Al momento ci sono una cinquantina di persone. Una struttura simile si trova nel quartiere Balduina.
Il problema, come dimostra la vicenda della Caritas, è che in alcuni casi questi accordi sono arrivati in ritardo e i tempi per il trasferimento sono stati troppo lunghi. Durante un’emergenza, una risposta che arriva in ritardo, o che non arriva proprio, può far scoppiare un incendio più velocemente di un fiammifero in un fienile.
La mancanza di risposte
Il silenzio può anche aumentare la pressione su strutture che già in tempi normali lavorano in condizioni complicate. È quello che racconta l’operatrice di un centro che ospita donne migranti. L’11 novembre ha accompagnato alcune di loro a fare il tampone. Preferisce non fare il suo nome per non aggiungere altre tensioni.
Le ragazze arrivano dalla Nigeria, dalla Costa d’Avorio, dalla Somalia. Alcune di loro non hanno un medico di base. Tutte fanno corsi di italiano. Tutte avrebbero bisogno di fare il tampone, per la loro sicurezza e per quella del gruppo. “Ma dall’Asl nessuno ci ha dato una mano, zero tamponi, zero controlli, zero risposte”, dice l’operatrice. “Volevamo sapere dove fare i test e come, ma niente. Alcune di loro frequentano la scuola, volevamo sapere se c’erano delle procedure da seguire prima della loro riapertura, niente. Ieri ho chiamato cinquanta volte il servizio igiene e sanità pubblica senza riuscire mai a prendere la linea”.
Finora nessuna delle ragazze è risultata positiva. “Durante il lockdown abbiamo spiegato a tutte l’eccezionalità della situazione, le abbiamo pregate di stare il più possibile dentro la struttura e abbiamo cercato di lavorare sulla paura, la frustrazione e lo sfiancamento che tutti abbiamo provato in quei mesi”. Tutte hanno capito, nessuna è stata accompagnata alla porta anche se i termini per restare nel centro erano scaduti. “Ce la siamo cavata. È più che altro l’incertezza, la mancanza di risposte a sfinire”.
Il muro
A proposito di sfinimento. Cammini per strada e c’è un muro. Davanti a quel muro c’è una persona. Quella persona sta spingendo il muro. Se gli chiedi cosa sta facendo, risponde che sta provando a spostarlo di qualche centimetro. È un po’ quello che prova a fare ogni giorno una persona che lavora o che fa la volontaria in un ostello per senzatetto, in un centro contro la violenza sulle donne, su una barca che soccorre i migranti.
Alessandro Radicchi dice che chi lavora in questo mondo è anche un po’ incosciente. Alto, capelli lunghi e colorati di grigio qua e là, Radicchi è il fondatore di Binario95. L’11 novembre gestisce gli ingressi all’Help center, si confronta con Morrone, coordina il lavoro di operatrici e operatori.
Radicchi ha organizzato il sistema di prenotazioni per fare i tamponi mentre era a casa con il covid-19. Lui, la moglie e la figlia ne sono usciti dopo giorni. Radicchi ha avuto febbre alta e dolori muscolari, ma dice che l’esperienza gli è servita a capire meglio la malattia, e capire meglio la malattia gli ha reso più chiaro come aiutare chi si contagia. “Naturalmente facciamo i test anche agli operatori e ai volontari. Se qualcuno risulta positivo scattano le procedure che scatterebbero per chiunque. Il centro avvisa l’Asl, la persona in questione avvisa il suo medico curante. Per chi è da noi perché non ha un altro posto dove andare, la questione è diversa. In quel caso affrontiamo la situazione con l’aiuto della sala operativa del comune e la supervisione del San Gallicano”.
La macchina però non si mette in moto solo quando c’è il sospetto di un caso positivo. “A Binario95 finora non ce ne sono stati. Ma il lavoro di prevenzione è tanto, così come quello di informazione. Ai nostri ospiti cerchiamo di spiegare il più possibile cosa sta succedendo e come devono proteggersi. E cosa ancora più importante, gli facciamo capire che non sono soli”.
Tra docce, lavatrici, pranzi e posti letto, Binario95 accoglie circa sessanta persone al giorno. I senzatetto a Roma oscillano fra gli ottomila censiti dall’Istat nel 2014 e gli oltre diecimila di cui parlano associazioni ed enti che si occupano del problema. Le persone che vivono in edifici occupati sono dodicimila. Quelle nei campi rom cinquemila. “È facile capire che il lavoro da fare è tanto”, dice Radicchi.
Fuori, sotto al sole, la fila è ancora lunga. Sono le 11.30 e si andrà avanti ancora per un po’. Sopra l’Help center e le millenarie mura romane di porta Tiburtina gli stormi di uccelli disegnano le loro geometrie prima di dirigersi a sud. Tutt’intorno la città si muove lenta, molte saracinesche sono abbassate, poche ombre si allungano su strade silenziose. Vlado ha ricevuto l’esito del tampone. Negativo.
Quando il dottor Tom Postmes chiede ai suoi studenti su quale pianeta viviamo, sa già cosa risponderanno. “Calcolo che il 97 per cento delle persone ritenga che viviamo sul pianeta B”, cioè quello dove la regola è ognuno per sé, “mentre nella realtà viviamo quasi sempre sul pianeta A”, dove “le persone si domandano tra loro come stanno”. Quasi sempre, dice Postmes. Due parole che insieme possono esprimere una possibilità, perfino una speranza, ma che possono essere usate anche poco prima di un fallimento, di una bancarotta. Dipende molto dal pianeta sul quale si sceglie di vivere.
L’aneddoto e le parole del dottor Tom Postmes sono tratti dal libro “Una nuova storia (non cinica) dell’umanità” di Rutger Bregman (Feltrinelli, 2020).
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