28 aprile 2020 14:30

L’ultima notte prima di finire per strada sistema tutto. Niente panico, niente disperazione, da un mese Vivian si prepara per questo momento. Ha venduto le cose ingombranti, spostato quelle necessarie in un magazzino in centro, ordinato quelle fondamentali nel suo zaino nero. Dopo aver pagato un semestre di college e quattro mesi per l’affitto di una piccola stanza, i diecimila dollari con cui è arrivata da Lynnwood, una cittadina vicino a Seattle, sono quasi finiti. Di certo non sono bastati per rinnovare il contratto di locazione. Non ha detto nulla alla sua famiglia, ma da settimane sa che sta per arrivare il momento in cui ogni giorno se andrà bene passerà da un divano a un altro, dovrà lavarsi nei bagni dell’università e farà la spesa al discount. Solo una cosa non ha previsto: da quel momento non dormirà per davvero, chiuderà gli occhi, ma non potrà più abbassare la guardia. Quando esce per l’ultima volta da casa, Vivian – che preferisce dire solo il suo nome per evitare che qualcuno della sua famiglia la trovi su Google – ha 22 anni, studia cinema al college pubblico di Santa Monica, nella contea di Los Angeles. È il 16 giugno 2017.

Questa giovane donna dallo sguardo fragile e al tempo stesso tenace è una dei 59mila senzatetto di una contea grande come il Trentino-Alto Adige, che dalle montagne innevate arriva al deserto e all’oceano. “Abbiamo dato un alloggio a sempre più persone, ma nonostante questo nel 2019 la popolazione dei senza dimora è aumentata del 12 per cento rispetto all’anno precedente”, sintetizza con impotenza un comunicato dell’Autorità cittadina per gli homeless (Lahsa).

Sei persone su dieci che non hanno un’abitazione stabile vivono per strada. Si accampano ai bordi delle carreggiate, spesso nei sottopassaggi, rumorosi ma protetti dal sole, oppure sui ponti, dove nessun vicino o negoziante può chiamare la polizia per farli sgomberare. Stanno lì a ricordare che in questa metropoli sfacciatamente ricca – dove spuntano ovunque cartelloni che annunciano una nuova serie tv o un nuovo premio cinematografico – le debolezze non sono perdonate. Se cadi, sei fuori dal gioco in un batter d’occhio.

Più esposti al virus
I senzatetto sono anche più vulnerabili al nuovo coronavirus. Il rischio di contagio è più alto se non si possono rispettare le misure minime di protezione: senza una casa in cui isolarsi, in cui lavarsi, senza mascherine né igienizzante per le mani. Già in tempi normali, chi vive per strada a Los Angeles ha più probabilità di ammalarsi perché è esposto a forti escursioni termiche, spesso su strade trafficate e inquinate, e non va dal dottore perché non ha l’assicurazione sanitaria. “Il nuovo coronavirus sta esasperando quello che già vedevamo tutti i giorni: la differenza tra ricchi e poveri”, sostiene Barbara Ferrer, direttrice dell’ufficio di salute pubblica della contea, specificando che nelle comunità a basso reddito il covid-19 sta uccidendo il triplo delle persone che in quelle benestanti, con una media di sedici morti poveri e cinque ricchi ogni 100mila abitanti.

La pandemia tra i senzatetto di Los Angeles è scoppiata a fine marzo, quando un impiegato della Union rescue mission, un rifugio nel centro della città, è stato ricoverato con sintomi influenzali. Positivo al covid-19, è morto pochi giorni dopo. Per rispondere a questa situazione, il sindaco Eric Garcetti ha fatto allestire enormi dormitori, con brande e servizi igienici comuni, nei centri sportivi. Dall’inizio dell’emergenza ne sono stati aperti venti con mille posti (rispetto ai seimila promessi). Una scelta molto criticata da operatori e studiosi, secondo cui la soluzione migliore sarebbe ospitare i senzatetto in hotel, in modo che possano rispettare le distanze di sicurezza. Ma il piano di sistemare 15mila persone in camere a spese del comune si è arenato, e l’obiettivo è stato genericamente rimandato all’estate. Sia Garcetti sia Ferrer pensano che la soluzione dei grandi centri dormitorio funzioni perché è rapida e permette di sottoporre a degli esami medici chi fino a poco fa viveva come un fantasma agli occhi delle istituzioni sanitarie. Eppure non ci sono dati ufficiali su quanti senzatetto hanno fatto il tampone e sono risultati positivi.

Una delle strutture in cui il centro Jóvenes ospita giovani senzatetto tra i 18 e i 24 anni. Quartiere di Boyle Heights, 23 novembre 2019. (Martina Albertazzi per Internazionale)

Mentre nascono nuovi rifugi, il virus costringe quelli vecchi a ridurre la capienza. Dopo il primo caso accertato, 79 tra ospiti e lavoratori della Union rescue mission si sono ammalati e il centro ha deciso di ridurre i posti letto da mille persone a 500, in modo da garantire le distanze raccomandate.

Il dormitorio dell’associazione è in un palazzo di cinque piani a Skid row, l’area di downtown dove si concentrano le associazioni che aiutano i senzatetto. È qui che Vivian ha passato alcune delle sue notti senza sonno. “Devi metterti in fila due ore prima dell’apertura per assicurarti un posto. Ci sono stanzoni immensi, le brandine erano così vicine che sentivo l’odore della donna stesa accanto a me. Alle 5 di mattina cominciano le pulizie, quindi devi uscire e non puoi lasciare le tue cose”, racconta, ricordando quell’estate del 2017. Aveva preso l’abitudine di andare al vicino Starbucks per un paio d’ore – “Ti permettono di rimanere anche se non consumi, basta non dare nell’occhio” – e poi raggiungeva Hollywood in metropolitana, in tempo per l’apertura del Los Angeles lgbt center, che accoglie le persone della comunità lgbt, dove faceva colazione, la doccia e a volte la lavatrice. Così è diventata una dei 1.500 senzatetto tra i 18 e i 24 anni che ogni anno ricevono aiuto dal centro, il primo di questo tipo fondato in tutto il paese, che ha da poco compiuto cinquant’anni.

Restare senza nulla è facile
Negli Stati Uniti tre milioni e mezzo di ragazze e ragazzi hanno sperimentato cosa vuol dire vivere per strada. Se nel 2019 i senzatetto di Los Angeles sono aumentati del 12 per cento rispetto all’anno precedente, quelli con meno di 25 anni sono cresciuti il doppio. “Restare senza nulla è facile, da queste parti”, spiega Kevin McCloskey, direttore del dipartimento per i giovani del centro lgbt, un pomeriggio di qualche tempo fa, prima che il nuovo coronavirus dilagasse negli Stati Uniti. “La crisi abitativa tocca tutti, gli affitti sono alle stelle, gli stipendi non crescono allo stesso modo. Se arriva una crisi – perdi il lavoro, la borsa di studio, ti ammali, ti separi – puoi tirare avanti per un mese, poi finisci per strada. Ma oltre che per povertà, i ragazzi ci finiscono perché i legami familiari si allentano o si spezzano, per via di un genitore violento o perché si sentono rifiutati”, spiega McCloskey.

“Non è un caso se i gay, le lesbiche e i transgender rappresentano il 40 per cento dei giovani senzatetto. E non è un caso se tra le persone che aiutiamo otto su dieci appartengono alle minoranze (afroamericani, latini o asiatici), comunità in cui ancora si fa fatica ad accettare un figlio omosessuale o transgender”, continua Angela Pachego, che nel centro coordina i programmi per trovare ai ragazzi di strada una soluzione abitativa più stabile dei dormitori di Skid row.

A sinistra: Nathan Ha, 21 anni, nel Los Angeles lgbt center, 21 novembre 2019. A destra: Relly Brown, 27 anni, con la sua gatta Minnie, fuori dal monolocale in cui vive a Koreatown, Los Angeles, 18 dicembre 2019. Brown ha vissuto per mesi in strada a Los Angeles, prima di ricevere aiuto dall’organizzazione Safe place for youth, che le ha trovato un alloggio. (Martina Albertazzi per Internazionale)

In un ufficio pieno di disegni e fotografie, al secondo piano della palazzina dedicata ai giovani che vivono in sistemazioni precarie, Vivian sta seduta in cerchio insieme ad altri coetanei. Con le dita raccolte a tulipano pesca patatine da una busta di Doritos e le infila svelta tra le labbra sottili. Poi le mani passano ai ferri da maglia, a scatti piccoli, nervosi. Ascolta e di tanto in tanto interviene durante la riunione dei rappresentanti dei senza dimora seguiti dal centro lgbt. I ragazzi che lo frequentano eleggono dei rappresentanti che ogni venerdì si riuniscono con gli operatori del centro, portano proposte e critiche, e ricevono incarichi che poi comunicano ai compagni.

“L’unico pensiero quando vivi in strada è: dove mi lavo? Dove mangio? Dove dormo? Non resta spazio per molto altro”, racconta Vivian con le mani finalmente quiete, nascoste tra le gambe accavallate. Di tornare a casa non se ne parla. “I miei genitori mi avrebbero comprato il biglietto per Seattle e avrei chiuso per sempre con il mio sogno di fare la produttrice creativa di serie tv. Non voglio affrontare le ansie di mia madre, le prediche di mio padre. Ho taciuto per far prima”.

Per qualche mese ha continuato gli studi, ma poi non è riuscita a pagare la nuova rata della retta. Dopo qualche settimana si è liberato un posto in un appartamento gestito dal centro lgbt. Nel frattempo aveva imparato che è meglio non tornare verso Skid row con il buio, che c’è una linea di metropolitana più sicura delle altre per passare la notte, quali catene di fast food sono più clementi con chi non ordina da mangiare e in quali punti vendita ci sono gli impiegati più gentili. La sua non è una situazione insolita: un’indagine condotta dal distretto scolastico di Los Angeles su seimila studenti dei community college (università pubbliche di primo livello) rileva che il 67 per cento delle persone intervistate vive in una situazione di insicurezza alimentare, il 55 per cento di precarietà abitativa e il 18 per cento ha dormito o dorme in strada o in macchina.

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Anche adesso che ha superato i 24 anni, Vivian continua a svolgere il suo compito di rappresentante al centro, ma dorme sul divano di amici e si porta dietro tutte le sue cose chiuse nello zaino. Fa i turni di notte in una casa di cura ed è riuscita a iscriversi di nuovo al college di Santa Monica.

Nathan Ha, 21 anni, freme al suo fianco. Si riconosce nella storia di Vivian, che ascolta per la prima volta: “Non avevamo mai parlato delle nostre esperienze. Per chi come noi si conosce qui al centro, tutto ruota attorno al presente, proviamo a recuperare un futuro, ma del passato parliamo poco”, sorride. “La consapevolezza di essere accettata, amata: questo è quello che non trovavo da nessuna parte prima di arrivare qui. Tra i miei ricordi d’infanzia, con la mia famiglia a Sacramento, non trovo il minimo segno di incoraggiamento o affetto. Solo paura”, dice scivolando sul bordo del divano per l’agitazione. Il padre – che come la moglie è arrivato dal Vietnam da adolescente – non accettava che il figlio maggiore si sentisse più femmina che maschio.

“Esprimeva il suo rifiuto con la freddezza, l’indifferenza. Non abbiamo mai parlato della mia sessualità, ma una domanda aleggiava nell’aria: cos’hai che non va?”, i ricordi incalzano e la voce di Nathan si rompe. Il suo corpo magro recupera contegno con un gridolino, un falsetto che la riporta per un attimo al presente. Quando nel 2016 è arrivata a Los Angeles con una borsa per studiare marketing all’università della California, il passaggio è stato inebriante e fatale. “All’inizio ero al settimo cielo, poi sono caduta in esperienze di sesso e droghe, ho saltato degli appelli, ho perso la borsa di studio, poi la stanza”.

Brendan dal barbiere a Boyle Heights, Los Angeles, il 22 novembre 2019. (Martina Albertazzi per Internazionale)

Una spirale che l’ha riportata al punto di partenza, nella sua camera a Sacramento. In quel periodo ha scoperto di avere contratto l’hiv e dopo settimane di depressione si è convinta a cercare associazioni di sostegno. “Dai miei genitori stavo morendo. Sono tornata a Los Angeles, ho dormito da amici, per strada e in auto parcheggiate. Una notte in metropolitana mi hanno rubato lo zaino con i diari e le medicine per la malattia. Ho toccato di nuovo il fondo”. Di nuovo, è scattato l’istinto di sopravvivenza e Nathan si è presentata al centro lgbt.

“È difficile uscirne. È un lungo viaggio”, riflette Andrea Marchetti, economista romano sulla quarantina che dirige Jóvenes, il più attivo centro per senzatetto tra i 18 e i 24 anni nel quartiere di Boyle Heights, nella zona est di Los Angeles . “Non si tratta di una notte all’aperto. Questi ragazzi hanno alle spalle anni di traumi, paure, insicurezze. Inoltre sono abituati a pensare alla sopravvivenza, alla contingenza della notte, del prossimo pasto. Per salvarli davvero non basta una brandina o del cibo. Hanno bisogno di abituarsi a pensare a domani e a dopodomani, a cosa vogliono fare da grandi”. Jóvenes ha sede in un’ex fabbrica di condizionatori d’aria, dal 2003 non ha fatto che crescere ed è ormai un punto di riferimento in questo quartiere a maggioranza ispanica, non solo per i 34 posti letto nel suo dormitorio, ma anche per i suoi programmi di sostegno psicologico, disintossicazione, avviamento al lavoro, studio e ricerca di alloggi.

Senza difese e senza piani
Dalla finestra del suo ufficio, Marchetti indica una casa azzurro petrolio incorniciata di bianco dall’altra parte della strada. È una delle strutture che Jóvenes affitta grazie ai fondi pubblici (dal 2016 la contea di Los Angeles stanzia 355 milioni all’anno per l’assistenza a chi vive per strada). Da qualche mese in quella casa vive Lois Porras, 22 anni, spalle larghe e sguardo docile. È nato e cresciuto a quattro ore da Los Angeles, ma ci ha messo anni per arrivarci e trovare rifugio in questa casa dal profilo semplice, che sembra disegnato da un bambino. Lo dice subito, si toglie un peso: “Vengo da una broken household, una famiglia complicata. Mio padre non faceva che picchiarmi. Quasi non ci vedo dall’occhio sinistro per le botte. Ho dodici fratelli. Io sono il quinto, credo. Si accaniva su di me perché somiglio a mia mamma, che è morta. In certi periodi mi impediva di mangiare o mi faceva dormire in giardino. Andavo a scuola, certo, ma nessuno mi ha salvato da quell’inferno”.

Si è salvato da solo. Anche se non sapeva allacciarsi le scarpe e non distingueva la destra dalla sinistra perché nessuno si era preso la briga di insegnarglielo, alla fine è scappato. Con questa fuga ha festeggiato il suo diciottesimo compleanno: un fagotto di vestiti e documenti, e via verso ovest, nemmeno una foto ricordo. Da quattro anni non parla con suo padre, dice con lo sguardo basso e le dita che si intrecciano.

Come Nathan Ha è passato dalla gabbia alla libertà troppo in fretta, troppo solo, senza difese e senza piani. “Non sapevo far nulla e quindi stavo in strada. Vivevo di elemosina e mangiavo alle mense per i poveri. Avevo paura di tutto. Vagavo da un sottopassaggio a un parchetto, da un marciapiede a un parcheggio. È andata avanti così per due anni. Poi, un giorno, mi sono spezzato”, usa di nuovo quel verbo, break: “Ho iniziato a piangere, non riuscivo a smettere”. Accasciato su se stesso con le spalle in avanti, le mani in grembo, ha un sussulto. È uno scoppio di risa, un rumore nervoso che gli esce dalla bocca, ma non si vede in viso.

Racconta che l’ha aiutato la polizia. Con i singhiozzi quel ragazzino deve aver commosso l’agente che l’ha fermato per un controllo e ha finito per accompagnarlo in un centro per giovani con disturbi psichici. Ci è rimasto tre mesi e poi ha cercato un dormitorio. Gli hanno consigliato di rivolgersi a Jóvenes: “Ho telefonato e mi hanno detto: vieni domani, ti prepariamo il letto”. È stato come firmare una tregua.

Lois Porras nel dormitorio del centro per senza tetto Jóvenes a Boyle Heights, Los Angeles, novembre 2019. (Martina Albertazzi per Internazionale)

Lois Porras si alza presto nella casa azzurra, si lava, fa colazione e poi attraversa la strada e prende lezioni per diventare tecnico di computer e telefoni. “Quando ero nel primo rifugio ho aggiustato il telefono a un compagno. Mi sono accorto che mi riusciva bene e si è sparsa la voce. Era la prima volta che ero bravo a fare qualcosa, la prima volta che ricevevo dei complimenti. È stato bello”.

Gli ospiti studiano, qualcuno lavora, ma devono anche prendersi cura dello spazio comune. “Spolveriamo, spazziamo, passiamo lo straccio, laviamo i piatti”, Porras entra nel dettaglio, scegliendo i verbi come fossero gli ingredienti segreti della sua nuova vita: “Collaboriamo. È come avere una famiglia, no?”, per la prima volta alza gli occhi.

Anche Emilio Ramírez, 22 anni, ha scoperto qui la fiducia in se stesso e negli altri. “Voglio cinque figli, voglio essere un padre dolce, uno di quelli che non si perde una partita o una recita manco morto”, risponde senza bisogno di riflettere quando gli chiedo dei suoi desideri. “La famiglia è tutto, ti dà forza”. La sua è là fuori da qualche parte e non funzionava granché come punto di riferimento: genitori tossicodipendenti che uscivano ed entravano dal carcere, lavori saltuari ed espedienti, Ramírez non ha mai avuto una casa. “Abbiamo vissuto in macchina, in tenda, nei garage di amici, nei motel, usando i cartoni per coprirci”. Ora è ospite del centro gestito da Marchetti, lavora come magazziniere e “la sera ho sempre da mangiare, torno a casa, posso fare la doccia, mi sdraio su un materasso e penso a loro che sono là fuori, magari hanno freddo, ma non devo tornare indietro. Sono io l’adulto della mia vita”. Sorride, piegato sul tavolo a raccontare i suoi 22 anni sembra un bambino cresciuto in fretta.

Dopo aver consultato internet e ordinato gli spazi comuni, i ragazzi giocherellano attorno alla vecchia fabbrica di condizionatori. Scherzano come gli adolescenti, spintoni amichevoli, bonarie prese in giro. Brendan è il più giovane e il più scanzonato. Oggi deve andare dal barbiere: “All’immagine ci tengo, sono un attore drammatico”, dice ridendo. Ha 19 anni, due in più di quelli che aveva sua madre quando l’ha messo al mondo in Ohio. È finito in orfanotrofio, prima che i nonni riuscissero ad adottarlo. “Mi vogliono un gran bene, sono cresciuto con loro, nel famigerato midwest”, dice muovendo la mano come a indicare un posto lontano nello spazio e nell’animo. Andava alle superiori, ma davanti allo specchio esercitava il suo sogno hollywoodiano.

Appena diplomato, ha compilato la domanda di ammissione al college e la richiesta di prestito in banca. È partito senza aspettare la risposta, che – racconta – è arrivata mentre era già sull’aereo per Los Angeles. Niente prestito e quindi niente scuola. “Ero a tremila chilometri da casa e non avevo più niente”. Tornare indietro non era un’opzione: “I miei nonni hanno cresciuto un uomo indipendente, un lottatore con la fede in Dio. Se torno, tradisco me stesso”.

I nonni lo immaginano impegnato tra laboratori di teatro e corsi di dizione. Invece Brandon carica pacchi nei camion dell’Ups e dorme al centro per giovani senzatetto di Boyle Heights. Nel frattempo mette i soldi da parte e aspetta di sapere se potrà iscriversi al prossimo semestre. La risposta doveva arrivare in questi giorni, ma ora a tenerlo lontano dal suo futuro ci si è messo anche il nuovo coronavirus. La pandemia ha messo in attesa anche Vivian e tutte le ragazze e i ragazzi con pochi anni e tanta vita che questa città patinata spinge ai margini. “Gli angeli caduti”, li chiamano qui. Ma più che l’emblema del fallimento, ricordano un passaggio del Visconte dimezzato: “Avrai perso metà di te e del mondo, ma l’altra metà rimasta sarà mille volte più profonda e preziosa”.

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