Un uomo con tuta protettiva e maschera antigas armeggia accanto a un capanno di lamiera. La campagna sarda è verde intenso dopo le piogge autunnali, cielo terso, la spiaggia poco distante, il mare blu, i belati di un gregge di pecore e all’orizzonte l’isola dell’Asinara, zona naturale protetta. E quella tuta bianca con maschera antigas. Sta prelevando campioni d’acqua di falda da un pozzo, spiega: “Ma voi qui non potete stare”. In effetti siamo in una zona interdetta, sotto le tubature di un oleodotto e a un tiro di schioppo dalla discarica chiamata Minciaredda, uno dei punti più contaminati del sito industriale di Porto Torres, Sardegna nordoccidentale.
Oltre la discarica si vedono le ciminiere del vecchio petrolchimico, gli impianti costruiti dalla Sir negli anni sessanta proprio a ridosso dell’abitato, e passati all’Eni intorno agli anni ottanta. Per più di quarant’anni quegli stabilimenti hanno lavorato petrolio per produrre chimica di base, dal pvc alle gomme sintetiche al polietilene; con il tempo si sono aggiunti serbatoi di stoccaggio di prodotti petroliferi e una centrale termoelettrica, poi un indotto di aziende chimiche e metalmeccaniche, laterizi, cemento. Nel momento di massima espansione il petrolchimico occupava 15mila persone, che raddoppiavano con l’indotto.
È la storia dell’industrializzazione italiana: per alcuni decenni il polo petrolchimico ha dato lavoro a migliaia di famiglie, sfornato operai specializzati, creato professionalità. Ha anche impestato l’aria, ma allora non molti ci facevano caso. Oggi qualcuno ricorda che quando pioveva molto, dalle falde risaliva acqua inquinata, maleodorante. Ma solo più tardi, quando la chimica ha cominciato ad andare in crisi e le fabbriche a chiudere, anche a Porto Torres è apparso chiaro l’impatto di quelle fabbriche. Per decenni il petrolchimico aveva riversato reflui tossici e nocivi nell’aria e nei terreni, contaminato le falde idriche e il mare. Reflui tossici erano stati sepolti senza nessuna particolare precauzione, come a Minciaredda.
Monumenti all’inquinamento
Così, anche se in una limpida giornata d’autunno si possono voltare le spalle alle ciminiere e ammirare il mare turchese e l’isola dell’Asinara che chiude il golfo di Porto Torres, questo è uno dei siti più inquinati d’Italia. Siamo in uno dei 44 Sin, o “siti d’interesse nazionale” per la bonifica, elencati dal ministero per l’ambiente: luoghi come l’Ilva di Taranto e l’ex petrolchimico di Augusta-Priolo in Sicilia, Porto Marghera in Veneto, l’Acna di Cengio in Liguria, la valle del fiume Sacco a sud di Roma, e tanti altri. Monumenti all’inquinamento industriale della penisola.
“Aspettiamo da anni la bonifica, ora sembra che qualcosa finalmente si muova”, dice Pietro Marongiu, lavoratore del petrolchimico oggi in pensione. Il 27 gennaio di quest’anno infatti il ministero dell’ambiente e la regione Sardegna hanno approvato in via definitiva la prima fase dei progetti di risanamento ambientale; alcune attività preliminari sono cominciate, nelle prossime settimane potrebbero aprire i cantieri. “Aspettiamo anche un serio investimento per la riconversione industriale”, aggiunge Enrico Pescio, lavoratore dello stabilimento Matrìca-Eni-Versalis, che incontro una mattina nel centro di Porto Torres.
Il sito industriale, infatti, resta in attività, almeno in parte. Il vecchio petrolchimico è fermo da tempo, salvo un impianto di gomme nitriliche (che l’Eni continua a lavorare perché, dice, è una produzione specializzata con alto valore aggiunto). Restano in funzione anche due unità alimentate a carbone nella centrale di Fiumesanto, già proprietà della tedesca E.On, ora Ep Produzione proprietà del gruppo ceco Eph. Soprattutto, su parte dei vecchi impianti si è insediata la nuova fabbrica di bioplastiche dove lavora Pescio, che produce materiali ottenuti “non più dagli idrocarburi, cioè materia fossile, bensì da materia vegetale, semi oleosi”, spiega. Tecnologia d’avanguardia, aggiunge con un certo orgoglio, “produzione ecocompatibile”.
La diagnosi è pesante: i suoli sono contaminati da metalli pesanti e da idrocarburi leggeri e pesanti
A Porto Torres dunque la bonifica arriva preceduta dalla “chimica verde”, una riconversione industriale che suscita grandi aspettative – ma anche grandi polemiche.
Per capire, bisogna dare un’occhiata alla zona. Partiamo dalla torre aragonese, che è un po’ il simbolo di Porto Torres e chiude il porto. Passiamo accanto al sito archeologico con le vestigia della città romana (ma bisogna saperlo, che esiste: altrimenti non si nota, come pure il ponte romano nascosto da una tubatura industriale). Poco oltre ecco la darsena, dove le analisi hanno rivelato la presenza di benzene, un idrocarburo aromatico, in concentrazioni parecchio superiori alle soglie ammissibili. Un cartello avverte, “area interdetta per motivi ambientali”. Solo che il cancello è spalancato ed entriamo tranquillamente, anzi in pochi minuti vediamo entrare e uscire diverse automobili. Del resto, anche senza entrare, nulla vieta di guardare dal rialzo che chiude la darsena a est. “Senti il benzene?”, chiede Marongiu. L’odore si sente eccome, soprattutto nelle giornate ventose: ciò significa che chiunque transita nel porto lo respira. E poiché la darsena è attigua agli attracchi della Tirrenia e della Grimaldi e ha di fronte un imponente molo industriale, migliaia di persone ogni anno ci passano accanto, inconsapevoli di quella sostanza volatile e cancerogena.
“La priorità oggi è proteggere il bagnasciuga e la costa, impedire che i reflui tossici e nocivi vadano a compromettere la flora e la fauna marina”, spiega Pietro Marongiu. Ma questo è vero ormai da quattordici anni. L’area industriale di Porto Torres è stata dichiarata Sin nel 2002. L’anno successivo un decreto del governo ha definito il perimetro dell’area interessata alla bonifica, che comprende 1.874 ettari su terraferma nei comuni di Porto Torres e Sassari, e 2.741 ettari a mare; alla zona strettamente industriale sono stati aggiunti i terreni usati come discariche e l’area in cui c’è una ricaduta sanitaria.
Nel 2006 è stata completata la “caratterizzazione” del sito, cioè una diagnosi approfondita della contaminazione, necessaria per definire gli interventi di risanamento. Sono serviti migliaia di prelievi e analisi svolte dall’Arpas, l’Agenzia regionale per la protezione ambientale della Sardegna, e i controlli sono ripetuti nel tempo (come testimonia l’uomo con la maschera antigas). L’area da bonificare è stata divisa in quattro settori: quello A include il vecchio sito produttivo, il B comprende le discariche di rifiuti speciali, e così via.
La diagnosi è pesante. Risulta che i suoli sono contaminati da metalli pesanti e da idrocarburi leggeri e pesanti. I 35 ettari di Minciaredda contengono alifatici clorurati, metalli pesanti, solventi aromatici, idrocarburi. Le acque di falda contengono metalli, solventi clorurati (anche cancerogeni) e idrocarburi, e in molti punti sono coperte da uno strato galleggiante di prodotti organici che raggiunge a volte diversi metri di spessore.
Tracce pesanti sulla salute pubblica
In mare, sia in acqua sia nei sedimenti, sono state trovate concentrazioni elevate di reflui industriali e civili, idrocarburi pesanti, mercurio, cadmio. Nel settore C, in quello che era il petrolchimico Syndial-Eni, l’area di stoccaggio di palte fosfatiche rivela una concentrazione di radionuclidi superiore al fondo naturale (una buona sintesi è nel dossier sulle bonifiche industriali elaborato nel 2014 da Legambiente).
Fatta la diagnosi però, gli unici interventi realizzati finora sono quello che i tecnici chiamano “mettere in sicurezza”, interventi d’emergenza per impedire che la contaminazione dilaghi ulteriormente nelle falde idriche e nel mare. In pratica sono state costruite “barriere idrauliche”, che significa scavare decine di pozzi tra il sito inquinato e il mare: attraverso i pozzi l’acqua contaminata viene estratta e passata a un impianto di decontaminazione (Taf, trattamento acque di falda), poi reimmessa sottoterra. Una sessantina di pozzi è stata scavata intorno al vecchio petrolchimico, una ventina intorno alla discarica di Minciaredda: ma è solo un intervento d’emergenza, e sembra che il “contenimento idrochimico” non sia neppure del tutto efficace.
Qui tutti i tipi di tumore sono in ‘eccesso’ rispetto alla media della regione Sardegna
Decenni di contaminazione industriale hanno lasciato una traccia pesante sulla salute pubblica. Nel territorio del sito d’interesse nazionale di Porto Torres abitano poco più di 146mila persone (al censimento del 2011). Le indagini epidemiologiche sono inconfutabili, la popolazione “mostra eccessi di mortalità per tutte le cause e per tutti i tumori”, si legge nel secondo rapporto Sentieri, coordinato dall’Istituto superiore di sanità e pubblicato nel 2014. Ovvero, qui tutti i tipi di tumore sono in “eccesso” rispetto alla media della regione Sardegna; sono in eccesso rilevante in particolare i tumori al polmone e alcune malattie respiratorie che la letteratura scientifica collega all’esposizione a raffinerie, petrolchimici e centrali termoelettriche. (Sentieri è l’acronimo di Studio epidemiologico nazionale dei territori e insediamenti esposti a rischio da inquinamento; è il progetto avviato nel 2006 dall’Istituto superiore di sanità per studiare 18 dei Sin nazionali, quelli in cui esiste un registro ufficiale dei tumori. I primi due rapporti hanno studiato i periodi 1995- 2002 e 2003-2010; un aggiornamento è atteso all’inizio del prossimo anno).
“Un dato allarmante è che il cancro al polmone è soprattutto in eccesso nella popolazione femminile”, osserva Vincenzo Migaleddu, medico radiologo e presidente della sezione sarda dell’associazione Medici per l’ambiente (Isde), che incontro nel suo studio a Sassari. Questo è un indizio dell’impatto dell’inquinamento industriale all’esterno degli stabilimenti, sottolinea, dato che i lavoratori del petrolchimico erano per lo più uomini.
Migaleddu è una delle persone più impegnate nel diffondere una coscienza pubblica del rischio sanitario a Porto Torres. Ma resta un vuoto istituzionale: nessuno qui ricorda un incontro pubblico delle autorità con le cittadinanze per spiegare la situazione sanitaria e informare dei rischi. Mentre la crisi rende tutto più pesante. Il comune di Porto Torres ha segnalato quest’anno un aumento di circa il 40 per cento dei casi di tumore tra persone in stato di “disagio economico e sociale”, che devono ricorrere all’aiuto della regione per finanziare le cure.
Ci sono stati momenti di grande scalpore, certo: come quando due deputati sardi hanno compiuto un “blitz” di denuncia a Minciaredda. Era il 2003 e la cittadinanza scopriva per la prima volta che quella collinetta davanti al mare era una discarica industriale abusiva. I giornali parlavano di “collina dei veleni”. Denunce simili si sono susseguite nel tempo (sono aperte anche diverse indagini giudiziarie), senza però grande informazione pubblica. “Sull’area di Porto Torres c’è un debito conoscitivo”, osserva Pietro Comba, direttore del reparto di epidemiologia ambientale all’Istituto superiore di sanità (dove coordina il progetto Sentieri). “Va colmato, per garantire il risanamento ambientale e anche per governare l’industrializzazione futura”.
Dalla cassa integrazione alla “chimica verde”
Ora costeggiamo il vecchio impianto petrolchimico, ridotto a uno scheletro vuoto in attesa di essere smantellato. “Sono entrato in questa fabbrica nel 1973”, ricorda Pietro Marongiu. Racconta che prima in quelle terre si coltivava il grano. Alla fine degli anni sessanta l’avvento delle fabbriche aveva suscitato proteste, e alcuni suoi coetanei distribuivano volantini contro la chimica in Sardegna.
“Però le prime battaglie per migliorare l’ambiente le abbiamo fatte proprio noi lavoratori”, dice Marongiu. Le proteste degli operai hanno costretto l’azienda a istituire una “commissione ambiente”, ricorda. Gli stessi sindacati hanno cominciato solo allora a considerare il tema della sicurezza e della “nocività” sul lavoro. Guardando oltre il recinto Marongiu indica quelli che erano i punti chiave dell’impianto: “Gli impianti diventano tutt’uno con gli operai”, mormora, “li disegnano gli ingegneri, ma poi sono gli operai che sanno correggere i difetti e farli funzionare”. Ecco la colonna degli aromatici, nome dal suono esotico (è la colonna di distillazione che serve a estrarre dal petrolio i prodotti intermedi fondamentali: benzene, toluene e xileni).
Indica la palazzina della direzione, e la terrazza sospesa dove i lavoratori si erano asserragliati nel 2009 per protestare contro la cassa integrazione alla Vinyls, una delle aziende insediate nel petrolchimico. Pochi mesi dopo Marongiu è diventato uno dei volti più noti della clamorosa protesta di un gruppo di lavoratori che sono andati a occupare il supercarcere dell’Asinara, ormai dismesso. La chiamarono “l’isola dei cassintegrati”. Ci sono rimasti tutto il 2010 e oltre, ben 15 mesi, con le famiglie e un gran viavai di visitatori. Rivendicavano investimenti e lavoro. Protestavano per l’imminente chiusura dell’impianto del pvc (policloruro di vinile, una delle plastiche più usate al mondo), che però era ormai riconosciuto come una fonte di inquinamento e di rischio per la salute dei lavoratori.
L’occupazione dell’Asinara fu un’epopea che suscitò attenzione e simpatie in tutta Italia e nel mondo. “Però ci rendemmo anche conto che la vecchia chimica non era sostenibile”, continua Marongiu. “Generazioni di operai hanno sputato sangue, si sono avvelenati, hanno contribuito ad avvelenare l’ambiente, poi quando non servivamo più ci buttavano via”. In quei mesi di battaglia alcuni esponenti ambientalisti erano andati a trovare i cassintegrati all’Asinara. Oggi Marongiu lavora con Legambiente.
La “chimica verde” a Porto Torres è un risultato di quella battaglia – e i lavoratori ne vanno orgogliosi: hanno costretto Eni a cercare alternative alla chiusura definitiva del petrolchimico. Nel maggio 2011 l’Eni e il governo hanno firmato un protocollo d’intesa per la riconversione industriale, secondo cui nell’area dello stabilimento Syndial (Eni) sarebbe sorto un polo per la produzione di biomonomeri, bioplastiche, biolubrificanti, che doveva essere alimentato da una centrale di cogenerazione elettrica a biomasse. Gli ultimi lavoratori sono stati pensionati o messi in cassa integrazione; quelli che lavoravano nell’indotto sono rimasti a terra.
Per i lavoratori che si erano spesi a difesa dei posti di lavoro, la ‘chimica verde’ è una speranza, e si capisce
Intanto però l’amministratore delegato dell’Eni (allora era Paolo Scaroni) prometteva di investire 1.200 milioni di euro nella riconversione, di cui 450 milioni per avviare la “chimica verde”, e 530 per le bonifiche, almeno nei 600 ettari più inquinati. Così è nata la società Matrìca, joint venture tra Eni-Versalis e Novamont. Il nuovo impianto è stato avviato nel 2014. Oggi Eni dichiara di averci investito circa 200 milioni di euro; è composto da tre impianti in ciclo integrato e ha una capacità nominale di 70mila tonnellate all’anno di prodotti – dai sacchetti della spesa biodegradabili a vari prodotti intermedi, come l’acido zelaico. Capacità nominale, ma in realtà lavora ancora poco.
Torniamo verso la città: lo stabilimento Matrìca-Versalis-Eni-Syndial (sui cancelli ci sono i quattro marchi) ha i cancelli a mare vicino alla darsena, e l’ingresso principale appena più su. Per i lavoratori che si erano spesi a difesa dei posti di lavoro, la “chimica verde” è una speranza, e si capisce. “Riconvertire gli impianti, rilanciare le attività produttive e il lavoro ma con un nuovo tipo di produzione, compatibile con l’ambiente”, riassume Enrico Pescio.
Aspettative deluse
La bioplastica è la via del futuro, insiste: “Bruciare petrolio è insostenibile. Serve un cambio di mentalità. Basta consumare risorse fossili e spargere sostanze tossiche nell’ambiente, bisogna favorire il passaggio a produzioni ecocompatibili. Dobbiamo anticipare i cambiamenti”. Anche Legambiente ha commentato con favore: è una filiera innovativa, la strada maestra per tenere insieme compatibilità ecologica e lavoro.
La realtà però è al di sotto delle aspettative. Lo stabilimento Matrìca oggi occupa circa 130 lavoratori diretti e un altro centinaio nell’indotto, spiega Pescio: “Gli impegni presi erano ben altro”. Il piano industriale è stato ridimensionato, dice; la centrale a biomasse è scomparsa dai progetti, lo stabilimento resta allo stato sperimentale. Eni si sta tirando indietro, dicono i lavoratori. “Quando hanno fatto tutte quelle promesse il petrolio costava più di cento dollari al barile. Ora che è crollato, la vecchia petrolchimica torna conveniente”. Non è un mistero che Eni abbia tentato di vendere la consociata Versalis (si era anche profilato un compratore, il fondo d’investimento statunitense Sk), anche se poi ha rinunciato.
Secondo i portavoce dell’Eni, la chimica verde a Porto Torres è “in corso di fine-tuning”, va rimessa in sintonia, “per ragioni sia tecniche sia commerciali”. Insomma, i sospetti dei lavoratori sono fondati. Del resto, in ogni discorso pubblico, amministratori locali e dirigenti politici parlano di “rilanciare Matrìca”. “Ci aspettiamo che Eni mantenga gli impegni definiti dal protocollo del 2011”, diceva in ottobre il presidente della regione Sardegna, Francesco Pigliaru, a Porto Torres per inaugurare due cooperative di lavoratori dell’ex petrolchimico (sostenute da Legacoop e da un programma pubblico di sostegno ai lavoratori in mobilità che avviano attività proprie).
‘Critichiamo le monocolture in Africa e dobbiamo accettarle qui?’
Nel progetto originale, Matrìca sarebbe stata alimentata dai cardi coltivati in Sardegna: una pianta autoctona che avrebbe fornito semi oleosi da trasformare in bioplastica e massa secca da bruciare. Intorno al vecchio stabilimento in effetti vediamo campi coperti di cardi, distesa verde intenso tra i depositi di carburante e l’oleodotto che corre dal porto alla centrale di Fiumesanto. Ma sono circa 500 ettari, irrisorio per il fabbisogno dello stabilimento, perfino nell’attuale versione sperimentale: e infatti oggi Matrìca lavora oli vegetali importati (dall’Europa, sostiene Eni). Nei progetti iniziali si parlava di creare coltivazioni di cardo su 30mila ettari: solo “terreni marginali e incolti”, era stato detto, senza nulla sottrarre all’agricoltura esistente. Ma con ogni evidenza non ci sono abbastanza terre disponibili o proprietari disposti a coltivare cardi.
L’idea di trasformare decine di migliaia di ettari in piantagioni di cardi è quella che solleva le obiezioni più forti dei critici della “chimica verde”. Semplicemente, sostiene Migaleddu, non ci sono le estensioni di “terre marginali” da coltivare, a meno di stravolgere l’ambiente della regione e trasformare la macchia mediterranea in monocoltura. “Critichiamo le monocolture in Africa e dobbiamo accettarle qui?”, argomenta (in una serie di pareri tecnici sul progetto di centrale di cogenerazione a biomasse, faceva notare che per alimentare l’impianto sarebbero servite ogni anno circa 250mila tonnellate di foglie e torsoli secchi di cardo o altri vegetali: calcolando il rendimento della pianta, sarebbe necessario coltivare tra 50mila e centomila ettari, ben più di quanto stimato dal progetto Matrìca).
La “chimica verde” è fumo negli occhi, obietta Vincenzo Migaleddu. “La realtà è che hanno costruito un nuovo impianto industriale senza prima fare una vera bonifica”. Anzi: l’impianto di Versalis, ha incrementato la combustione di fuel oil of cracking (Foc, il residuo della lavorazione dell’etilene, ovvero uno scarto del petrolio), importato dalla Sicilia: “Sprigiona quasi 180mila milligrammi per chilo di idrocarburi policiclici aromatici, tossici e cancerogeni, cioè quantità ben maggiori rispetto all’olio combustibile, aumentando il rischio di sviluppare tumori polmonari”.
Già, la bonifica. Dopo un lungo processo di pareri, revisioni e valutazioni, in gennaio è diventata esecutiva la prima fase del progetto presentato nel 2014 da Syndial, la consociata Eni specializzata in “servizi ambientali”, che ha la responsabilità di eseguirlo – secondo il principio “chi inquina paga”– e che ha affidato la progettazione ad Astaldi. Il “progetto Nuraghe” copre l’area dell’ex petrolchimico, cioè 1.200 ettari (sui 1.800 totali del Sin); include aree come Minciaredda, il sito delle palte fosfatiche (sono i residui fangosi della lavorazione dell’acido fosforico), l’area chiamata Peci Dmt (che sta per dimetiltereftalato). Ovvero i punti più contaminati della zona (il nuraghe c’è davvero: piccolo, diroccato, s’intravede dalla strada seminascosto da depositi e vecchi impianti).
La prima fase dell’intervento prevede la costruzione di una “piattaforma polifunzionale” dove trattare il terreno contaminato che bisognerà asportare da Minciaredda (circa 800mila metri cubi di terreno e scorie) e dagli altri punti dello stabilimento. Quello che non potrà essere trattato, sarà immagazzinato in un “sito di raccolta materiali irrecuperabili”, cioè una nuova discarica – di cui però saranno state impermeabilizzate e isolate le pareti. A questo si aggiungono alcuni nuovi interventi alla bonifica della falda. Eni-Syndial investirà più di 200 milioni di euro nella bonifica, diceva l’assessora all’ambiente della regione Sardegna quando il progetto è stato approvato. All’Eni dicono che la spesa sarà di 90 milioni per la prima fase del progetto e di cinque milioni per la seconda (quando sarà approvata), oltre sei milioni per la darsena. Certo sarà un lavoro di parecchi anni.
A Porto Torres i cantieri della bonifica sono attesi: finalmente un po’ di lavoro. Torniamo alla torre aragonese, da cui partono il lungomare e una delle vie principali della cittadina. Nel pomeriggio di un normale giorno lavorativo molte saracinesche sono chiuse. Nei bar si parla di cassa integrazione, di lavoratori in “mobilità”, di cantieri.
Con 23mila abitanti, Porto Torres ha seimila disoccupati. L’area industriale oggi conta circa 500 addetti in tutto – chimica verde, gomma. La crisi è visibile, la città non si è mai ripresa dal declino della sua area industriale. “Troppi giovani disoccupati, non sarò tranquillo finché non avrò visto una vera riconversione”, dice Pietro Marongiu. Per questo molti qui continuano a sperare nella chimica verde: “Porto Torres è il primo caso concreto”, dove un impianto è entrato in attività. “Guardatela nel quadro nazionale: se la chimica verde fallisce qui, non è un problema solo per la Sardegna ma per tutta l’Italia”, sostiene Enrico Pescio: “Si tratta di dimostrare che una riconversione industriale è possibile”. Che la “chimica verde” e la bonifica possano andare insieme, questa è una scommessa.
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