29 dicembre 2023 09:42

In classe non sta mai fermo, è spesso arrabbiato ed è ingestibile. Le poche parole di italiano imparate a scuola non bastano a Faiz, tredici anni, a esprimere qualcosa dei suoi desideri e delle sue paure. Arrivato in Italia dall’Afghanistan con la madre e la sorella (il padre in Iran, un fratello in Germania), si affaccia all’adolescenza con un carico di sofferenza che i suoi insegnanti possono solo intuire.

Nelle classi multiculturali delle scuole italiane si incontrano casi simili: un malessere trascurato, a volte confuso con svogliatezza o capacità scarse. Se il disagio psicologico degli adolescenti è preoccupante, le ragazze e i ragazzi con background migratorio rappresentano una fragilità nella fragilità. Spesso fanno parte di famiglie divise, che hanno vissuto guerre e percorsi migratori complessi. Nuclei monoparentali, in cui un genitore è assente o è in un altro paese. Sradicati dai loro affetti, catapultati in una lingua che non capiscono, divisi tra culture e valori in conflitto, a volte non riescono a trovare il proprio posto, e per gli altri è difficile comprenderli.

Sono gli invisibili, quelli dell’ultimo banco, quelli che spariscono dai registri da un anno all’altro e nessuno sa perché. Storie come quella di Samira, tunisina, affetta da mutismo selettivo per un anno; Selma, egiziana, che ha cambiato quattro scuole e tre paesi, e non riesce a farsi degli amici; Yuan, cinese, che in classe si addormenta e non impara l’italiano.

Isolamento e chiusura

Una forma ricorrente del loro disagio è l’isolamento, la chiusura: un muro che non si riesce a scalfire. A Prato, dove un minore su quattro è cinese, succede ai ragazzi che vivono la cosiddetta doppia migrazione. “Spesso i bambini nati qui”, spiega Francesco Giura, professore di lettere, “sono portati in Cina da piccoli e affidati ai nonni: i genitori lavorano quindici ore al giorno e non possono tenerli. A dieci-dodici anni sono rimandati in Italia, da un padre e una madre che quasi non conoscono. A quel punto non sono né italiani né cinesi, ed entrano in crisi”.

Marco Armellini, neuropsichiatra infantile, dirige il dipartimento salute mentale e dipendenze dell’unità sanitaria locale Toscana centro, che comprende le province di Empoli, Firenze, Pistoia e Prato. “Abbiamo notato un disagio particolare nei dodicenni e tredicenni cinesi: isolamento, dipendenza dai videogiochi. Oppure irritabilità, litigiosità, atti autolesivi. Ricordo un ragazzo che si arrampicava sul tetto della palestra e minacciava di buttarsi. Secondo gli esperti non mostrava tratti patologici, non c’era una diagnosi né una medicina per lui, ma era pieno di rabbia. Abbiamo ricostruito la sua storia, era legatissimo ai nonni, aveva lasciato in Cina gli amici più cari. In Italia intanto i genitori si erano separati. Questi ragazzi vivono con difficoltà la relazione con i compagni italiani ma anche con i cinesi cresciuti qui: è una doppia estraneità”.

Per la sanità italiana, dove le risorse per la salute mentale sono poche – solo il 3,4 per cento della spesa sanitaria pubblica, lontano dal 10 per cento di altri paesi europei, secondo la Società italiana di neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza –, confrontarsi con bambini e adolescenti di origine straniera è una sfida. I problemi riguardano la lingua, ma anche la poca conoscenza delle culture d’origine e i possibili approcci terapeutici. “Circa il 25 per cento dei nostri utenti non è italofono”, dice Armelllini. “Abbiamo mediatori culturali per le comunità più numerose, cinesi e pakistane, E collaboriamo con un gruppo di etnopsicologi”.

A scuola il disagio può essere interpretato male, come un disturbo di apprendimento (Dsa) o un deficit cognitivo. “Riceviamo circa settecento richieste all’anno per valutare i Dsa, un terzo riguarda gli stranieri”, dice lo psichiatra. Si tratta, in realtà, di un disagio difficilmente certificabile, legato al trauma migratorio e alla differenza tra culture. Giulia Almagioni, antropologa, e Barbara Mamone, psicoterapeuta, hanno lavorato con gli adolescenti delle scuole di Prato: “Ci sono studenti senza disabilità evidenti che non riescono a inserirsi nei normali percorsi d’istruzione e a volte hanno difficoltà sul piano del comportamento e della socializzazione. Gli insegnanti non hanno tempo e strumenti per affrontare queste situazioni”.

Un cartellone realizzato da alcuni studenti di origine cinese e sudamericana in una scuola media di Prato, febbraio 2023. (Carolina Rapezzi)

Mamone e Almagioni hanno applicato il metodo della mediazione etnoclinica, coinvolgendo in un colloquio che ha delle regole precise, i singoli ragazzi, i genitori, i professori, il mediatore culturale, lo psicologo e l’antropologo. Fanno l’esempio di un ragazzo per cui si ipotizzava un problema cognitivo, in realtà inesistente. I test diagnostici sono pensati per gli italiani, per questo hanno tradotto e usato un test francese, l’Elal, che valuta le capacità a prescindere dalla lingua. “Nei colloqui è emerso il vero problema, una frattura interna, un sentirsi non abbastanza italiano e non abbastanza cinese: anche i genitori dicevano che parlava male il cinese. Aveva creato una bolla di solitudine e apatia”.

Mamone segue l’approccio etnoclinico dei francesi Tobie Nathan e Marie Rose Moro, e insegna al centro studi Sagara di Pisa, che offre (un caso raro in Italia) una scuola di specializzazione in etnopsicoterapia. Spiega che non si può prescindere dalla cultura di appartenenza di una persona. Per questo è importante far dialogare i diversi mondi di chi ha bisogno d’aiuto, ricorrendo alle figure dell’antropologo e del mediatore. “Considerare la cultura come leva terapeutica fondamentale vuol dire trovare nella persona le risorse per attivare dei processi di riparazione, altrimenti impossibili”.

Mamone racconta la storia di un ragazzo pakistano arrivato attraverso la rotta balcanica, che aveva problemi gravi, con allucinazioni visive e uditive, tipiche di un esordio psicotico, segni inizialmente interpretati come effetti di un disturbo post-traumatico da stress. “Un episodio del viaggio, avere bevuto da una pozzanghera con un geco, si è rivelato cruciale, perché l’animale, nella sua cultura e nella sua storia personale, era un portatore di sventura. Identificando e dando valore a questo elemento, riconnettendolo al suo mondo, i sintomi sono regrediti”.

“Lo sguardo psicologico si deve aprire ad altre discipline”, conferma Filippo Alderighi, psicoterapeuta che ha un approccio simile a quello di Mamone nel suo lavoro con migranti e seconde generazioni, “ma in Italia la formazione degli psicologi, in questo senso, è carente. Se trattiamo da ignorante chi spiega la propria sofferenza come conseguenza di un attacco di stregoneria finiamo per non capirlo, non accogliamo né la persona né il problema”.

Tuttavia, a scuola gli interventi multidisciplinari sono un’eccezione. Di fronte al 10 per cento di studenti che non hanno la cittadinanza italiana, i fondi del ministero dell’istruzione bastano appena per poche ore settimanali di corsi d’italiano, svolti a discrezione. Neanche lo psicologo c’è sempre. “La scuola italiana”, ha affermato di recente David Lazzari, presidente del consiglio nazionale delll’ordine degli psicologi (Cnop), “non ha programmi strutturali dedicati alla prevenzione e all’ascolto, per aiutare i ragazzi e le famiglie”.

“Le professoresse spesso sono disperate, a partire dalla comunicazione con i genitori che non parlano italiano”. Martina Festa è una giovane psicologa che lavora a CivicoZero, una onlus partner di Save the children a Roma. “Gli adolescenti arrivati grazie al ricongiungimento familiare, come i bangladesi, hanno forti problemi relazionali: in classe si sentono esclusi, a volte si autoescludono”. Festa racconta il suo difficile lavoro con le famiglie bangladesi per mediare tra genitori e figli, divisi tra due culture. A inizio novembre, ad Ancona, una ragazza bangladese di quindici anni si è suicidata: si è ipotizzato che tra le cause ci potesse essere anche un incombente matrimonio combinato.

CivicoZero è un centro diurno: accoglie ogni giorno circa cento ragazzi e si rivolge principalmente ai minori non accompagnati. Sono quasi tutti maschi, tra i sedici e i diciotto anni; provengono da Egitto, Albania e Africa subsahariana; e vivono una condizione di potenziale vulnerabilità psichica. In Italia, nonostante la loro minore età, alcuni sono abbandonati nei centri di accoglienza straordinaria (Cas) senza nessun sostegno. A CivicoZero, invece, trovano corsi d’italiano, laboratori creativi, assistenza legale per la formazione e il lavoro, e anche aiuto psicologico. ”Molti ragazzi all’inizio rifiutano lo psicologo, lo associano ai pazzi, a chi soffre di malattie mentali. Ma qui non seguiamo il classico approccio clinico, ci conosciamo a poco a poco, in modo informale”. Festa mostra gli ambienti del centro – accoglienti, pieni di colori, poster, murales –, le gradinate del teatro, la cucina, le stanze per i colloqui e i corsi.

“Ci sono storie molto dolorose, c’è chi viene dall’Ucraina o chi è stato in carcere in Libia”, continua, “Alcuni raccontano tutto dopo un mese, altri dopo due anni, altri mai. Se c’è un malessere profondo ci rivolgiamo ad altre strutture. Con i ragazzi cerco di non avere l’approccio classico di uno psicologo: decidono loro se e come raccontare la loro storia. I richiedenti asilo attendono con ansia l’incontro con la commissione, dove dovranno esporre la loro vicenda nei dettagli. Lo psicologo, sostenuto dal mediatore, aiuta a preparare questo colloquio. Nei laboratori musicali e di narrazione si può rielaborare il trauma: un ragazzo ha voluto raccontare il suo viaggio attraverso il rap”.

Poco lontano, nella zona della Stazione Termini, Giancarlo Santone dirige il centro per la salute dei migranti forzati (Samifo): un ambulatorio unico nel suo genere, nato nel 2006 dalla collaborazione tra l’azienda sanitaria locale Roma 1 e il centro Astalli, che si occupa di rifugiati. Santone, che si definisce uno psichiatra transculturale, è arrivato a lavorare con i migranti dopo molti viaggi in Africa fatti per passione ed esperienze nella cooperazione internazionale. “I minori non accompagnati sono inviati qui dai centri d’accoglienza quando hanno problemi psicologici. Ora andiamo anche nei commissariati, dove questi ragazzi aspettano di essere ricollocati. Sono soli e spaventati, ci chiedono: dove andrò? Perché sono qui?”.

Ogni anno al centro arrivano circa duemila persone, da più di novanta paesi. Qui si curano minori che hanno subìto gli effetti di guerre e torture, o che sono vittime di tratta. Come G., una ragazza africana costretta a prostituirsi, che ha smesso di farlo grazie a un progetto di CivicoZero. G. è terrorizzata dal fatto che i suoi sfruttatori possano ritrovarla e ha sviluppato pensieri suicidi. Santone racconta che alcuni giovani migranti mostrano una stabilità psicologica sorprendente di fronte a gravi traumi. “Il disturbo post-traumatico può comprendere una vasta gamma di sintomi, fino ai fenomeni dissociativi. Ma non reagiamo tutti nello stesso modo, un trauma non ha sempre conseguenze sulla salute mentale”.

Racconta la storia di una ragazza arrivata dall’Ucraina: “All’inizio della guerra è partita per raggiungere la madre che lavorava in Italia. L’auto su cui viaggiava è esplosa su una mina, tutti gli altri sono morti, lei è rimasta ustionata e mutilata. È aiutata, ma è la mamma che sta peggio, ha sviluppato una forte depressione”.

Al Samifo lavorano cinquanta operatori – tra cui medici, ginecologi, neuropsichiatri infantili, psicologi, mediatori culturali – e c’è anche una squadra specializzata nella salute mentale dei minori. “Interveniamo con un approccio globale e multidisciplinare, mettendo al centro la persona”, dice Santone. Un’eccezione per il sistema sanitario nazionale dove, a fronte di un bisogno in crescita, il personale è poco formato per lavorare con persone di altre culture. “Nella nostra asl ci sono stati cambiamenti importanti, con un servizio di prevenzione per gli interventi precoci sulla salute mentale e con mediatori in tutti i reparti”, conclude lo psichiatra. “Normalmente, però, i centri per la salute mentale prendono in carico solo le patologie estreme: i disturbi post-traumatici sono considerati meno gravi. Serve un maggiore intervento pubblico”.

Questo articolo è stato realizzato con il sostegno del Journalismfund Europe.
I nomi di ragazze e ragazzi sono stati cambiati.

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