19 agosto 2019 10:00

Chi si è trovato ad attraversare spesso il ponte della Libertà, tra Mestre e Venezia, sa che la laguna cambia colore ogni giorno. In realtà non è solo una questione di colore; cambia la consistenza del riverbero sulla pellicola dell’acqua e la qualità della luce. Cambia il livello della marea e così la vista della barena, l’arcipelago informale di terre emerse e minuscole isole colonizzate dagli uccelli che si alternano sulla ruota dei cicli migratori; volpoche, strolaghe, anche fenicotteri, nascosti nell’area settentrionale della laguna, quella opposta a Porto Marghera.

Vedendola cambiare ogni giorno ci si trova a fantasticare sul tempo profondo che l’ha scavata e complicata nel corso dei secoli, anzi, dei millenni. Un miraggio preistorico. Un miraggio e niente di più, perché l’idea di una laguna uguale a se stessa è solo uno dei tanti cortocircuiti che ci impediscono di sciogliere i nodi tra storia e natura, esseri umani e ambiente. La laguna del novecento è nata grazie agli immani sforzi ingegneristici della Serenissima, che per secoli ne ha tutelato la conservazione, deviando i corsi millenari di fiumi come il Piave, il Brenta e tanti altri. La chiamo laguna del novecento perché negli ultimi anni sta diventando qualcos’altro.

Una volta morta l’industria petrolchimica che ha nutrito la popolazione dal dopoguerra alla caduta del muro di Berlino, si è incistato il traffico delle grandi navi da crociera che accompagnano nell’Adriatico milioni di turisti da tutto il mondo, stipati in fila indiana sui moli del Tronchetto, l’isola-porto costruita negli anni sessanta. Ogni giorno migliaia e migliaia di turisti si fanno spazio sul ponte delle crociere per salutare con la mano i veneziani lungo il canale della Giudecca, mentre gli impianti delle varie navi Armonia pompano la voce di Bocelli: “Su navi per mari / Che io lo so / No, no, non esistono più”. I veneziani, occupati nelle loro fatiche quotidiane, o ammorbiditi dai prosecchi, li guardano e li compatiscono. Buona parte di loro, li odia.

Evoluzioni impreviste
Per capire l’impatto delle attività commerciali su un ecosistema pericolante ci dobbiamo rimpicciolire, fino a proiettarci lì dove tra le grandi navi e le fondamenta dell’isola si agitano migliaia di eliche che frullano e sollevano i fanghi degli scarti industriali, gli impasti di reflui chimici e rifiuti, lì dove insieme a loro danza la flora e la fauna dei fondali. Così come la laguna cambia nei secoli, anche gli animali e le piante che la popolano si avvicendano, adattandosi: negli ultimi decenni, però, si stanno verificando evoluzioni impreviste di questo equilibrio, e la causa va individuata nell’introduzione umana di vertebrati e invertebrati vissuti per millenni o milioni di anni in altre parti del mondo: organismi detti alloctoni, o alieni.

“Dopo la distruzione degli habitat, le specie aliene invasive sono la prima causa di estinzione, di riduzione della biodiversità su scala globale”. Mauro Bon è il responsabile del settore ricerca e divulgazione scientifica del museo di storia naturale di Venezia. Lo incontro di fronte all’ingresso di La pesca in laguna, una mostra che ha curato insieme al direttore Luca Mizzan e ad altri colleghi del museo, inaugurata a giugno al centro culturale Candiani, nel cuore di Mestre.

Già le prime pareti espositive svelano l’ambizione del progetto: “Venezia e la sua laguna – difficile immaginare un esempio migliore in cui la storia di una città sia così strettamente legata alla trasformazione del territorio che la circonda”. In un ecosistema che vede cambiare i suoi abitanti, della terraferma e sottomarini, la mostra è quasi un memento.

Passeggiando per l’esposizione, Bon mi racconta le tecniche di pesca adottate e abbandonate negli ultimi due secoli tra l’arcipelago veneziano e Chioggia, alcune assurdamente raffinate, cervellotiche, come il sartorèlo, una lunga rete che a uno dei suoi estremi si complica in una spirale per sfruttare i balzi dei cefali; altre più elementari, elementi di design da sopravvivenza, come la cassa da ostreghe.

Per descriverla tornano utili gli appunti del chioggiotto Angelo Marella – modellista navale e autodidatta ottocentesco, un genio artigiano di cui si sa molto poco – che puntellano le pareti espositive:

Questo ordigno appartiene alle reti, ed ha un telajo di ferro triangolare. Nella estremità vi è una catenella apunto per aplicare una corda di brulla. (…) Il pescatore con tutta la sua forza getta questa cassa al largo della barca, ed essendo questa a poco poco ritirata, strizzando nel fondo ruvido o tenero raccoglie fango, pietre ed altro.

Altro, cioè cibo povero: ostreghe, canestrei, ma soprattutto caparòssołi. Di quest’ultimi non avevo mai letto il nome traslitterato: il dialetto è roba viva, certi nomi fluttuano nel discorso. In italiano si chiamano vongole.

Sono lontani i tempi del telajo di ferro, della corda di brulla. Tra il 1995 e il 2000, a qualche chilometro da piazza San Marco, sono state raccolte 40mila tonnellate di vongole all’anno. Venezia da un anno all’altro è diventata la capitale europea della molluschicoltura grazie a un animale che con la storia della Serenissima non c’entra niente: la vongola di Manila, importata dalle Filippine, nota per la sua fertilità. Un’introduzione aliena che ha creato ricchezza, tanta e in poco tempo, ricorda Bon, “grazie allo sfregio indiscriminato dei fondali, all’assenza di pianificazione, di vivai protetti. Un disastro totale”. Quando facciamo certi discorsi finiamo per guardare nel vuoto.

Nel giro di un secolo dalla cassa da ostreghe siamo passati ai tornado dei turbosoffianti, draghe motorizzate che frantumano e setacciano il fondale, aspirando quello che trovano: nel 2012 la produzione è scesa a circa duemila tonnellate, pari a un ventesimo degli anni d’oro, con ovvie conseguenze economiche.

Una situazione grave
Dall’estremo oriente però non è arrivata soltanto la vongola di Manila; accanto ai gamberi della Louisiana e alle cozze zebrate dell’Europa dell’est, sterminatori della biodiversità, da qualche parte nel fango si nasconde l’ostrica giapponese. Nelle zone umide poi proliferano le zanzare tigre, il calabrone e il tarlo asiatici, trasportati negli ultimi vent’anni da pneumatici, porcellane e bonsai.

Pelophylax kurtmuelleri, rana balcanica. (Emanuela Colombo)

Sono alieni anche i pesci di fiume che avevo da sempre considerato icone dell’ethos veneto, come il pesce gatto e i siluri. Si accavallano i ricordi d’infanzia, impronte proustiane, vecchi e bambini che cantano di creature mitiche: invece ci si deve immaginare i primi siluri mentre si tuffano in acque sconosciute, trasportati fin lì negli anni settanta da qualche pescatore nella sua 126, in qualche laghetto di pesca sportiva, circondato dalle sedie scolorite, i sacchetti pieni di pallottole di pane vecchio, le radioline.

Mauro Bon, ma anche gli altri intervistati, confermano che la situazione dell’ittiofauna aliena è “particolarmente grave”: nei canali che sfociano in laguna “la presenza di alloctoni appare in costante aumento”, e ha ormai raggiunto e superato il 50 per cento dell’intera fauna ittica regionale. Si tratta poi di misure che tendono a concentrarsi sulla consistenza numerica delle specie, anche se il dato più importante è quello relativo alla biomassa: l’80 per cento circa della biomassa fluviale è esotica. Da fuori arrivano pesci più grossi, più affamati, più fecondi.

“I corsi d’acqua sono molto vulnerabili all’invasione di organismi alloctoni, anche perché l’acqua facilita la mobilità delle specie, e le specie acquatiche tendono ad espandersi molto rapidamente”. A dirmelo è Piero Genovesi, detto Papik, massima autorità italiana sul tema, e responsabile del servizio coordinamento fauna selvatica dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra).

“La laguna di Venezia poi, sia per il contesto geografico sia per l’utilizzo che ne facciamo, vede crescere la presenza di flora e fauna esotica anno dopo anno”. Genovesi sorride di fronte alla pochezza delle mie certezze: non solo i siluri, ma anche gli istrici, il muflone, i cipressi e i papaveri, gran parte del paesaggio che diamo per tradizionale è di natura esotica. L’Italia in fondo è un paese stordito da un’idea di tradizione superstiziosa, in ambiti che vanno dalla cucina al revisionismo storico; capire i paradossi e le fluidità della barriera tra esotico e tradizionale, alloctono e autoctono, può rivelarsi un utile esercizio.

“L’Europa ha una storia talmente lunga di spostamenti che le prime invasioni biologiche sono antichissime. Tutti i mammiferi sulle isole del Mediterraneo, per esempio, sono stati introdotti dagli esseri umani: quelli che le abitavano prima del nostro arrivo si sono estinti. Le persone in pochi anni possono cambiare percezione… in pochi anni di convivenza si può pensare che un organismo sia autoctono. Per esempio il fico d’india è di origine messicana, ma molti pensano sia mediterraneo e faccia parte dei nostri paesaggi da sempre, in realtà è una specie esotica, invasiva, dal forte impatto. Molto dipende dalla nostra percezione e dai nostri comportamenti: dobbiamo lavorare su questi parametri, culturali e di comportamento”.

E qui si inserisce Life asap, un progetto cofinanziato dall’Unione europea che prova a contenere le conseguenze delle invasioni aliene attraverso campagne di informazione e sensibilizzazione e il supporto agli enti pubblici. Grazie a Life asap vengono informate le scuole, gli orticoltori, i veterinari. Il responsabile dell’Ispra però non nasconde che, se non si agisce in tempi rapidi, il problema assumerà tratti sempre più complessi, “perché aumentano gli scambi commerciali, e perché con la tropicalizzazione del clima mediterraneo i nostri ambienti naturali e urbani si fanno idonei a nuove specie”. Sono le 11 di mattina del 27 giugno più caldo che abbia mai vissuto, e continuerà a peggiorare fino a sera. L’Italia boccheggia.

Problemi invisibili ai più, diffusi su scala globale, difficili da raccontare. Ci sono diversi punti di contatto tra il riscaldamento globale e l’invasione delle specie aliene, anche se queste ultime sono soltanto una delle tante conseguenze di quella che è stata definita dagli studiosi John R. McNeill e Peter Engelke come la “grande accelerazione”, cioè l’alterazione drammatica della biosfera dal dopoguerra a oggi, di cui Porto Marghera è un esempio. All’esplosione demografica, produttiva e dei consumi si è accompagnata una crescita spaventosa delle emissioni di anidride carbonica su scala mondiale, che ha surriscaldato il pianeta e acidificato gli oceani.

“Riguardo alla presenza di organismi alieni nei nostri mari, alcuni colleghi pensano che non ci sia nessuna emergenza, visto che da noi è già arrivato tutto quello che poteva arrivare”. Agnese Marchini è una ricercatrice dell’università di Pavia che si occupa delle invasioni aliene nella laguna veneziana. “Quello che penso io è invece che il problema potrebbe essere destinato a peggiorare, perché siamo in uno scenario di cambiamento climatico. Ce ne stiamo accorgendo, anche in mare: ci sono nuove opportunità per le specie che si spostano verso nord.

Procambarus clarkii, gambero rosso della Louisiana. (Emanuela Colombo)

Marchini è un’allieva di Anna Occhipinti e si occupa della materia da più di trent’anni. “Con le grandi navi le specie esotiche arrivano in diversi modi”, aggiunge, “scaricate dall’acqua di sentina (cioè quella che si raccoglie nella parte inferiore dello scafo, dove si mescola a carburanti, acque nere, eccetera, nda) o aggrappate alla chiglia delle navi, o nelle parti interne delle tubature, dove avvengono continui ricambi d’acqua, si creano degli acquari… Tutto questo avviene in ogni grande nave commerciale, cargo e crociere turistiche comprese”. Tuttavia, il fenomeno è aggravato dalle piccole imbarcazioni da diporto, barche di privati partite da altri ambienti lagunari, o zone di acquacoltura intensiva.

Lo conferma Marchini:

La navigazione da diporto sta crescendo, è una tendenza in aumento. Poi dobbiamo ricordare la deriva delle plastiche, che trasportano animali, alghe… Per non parlare degli acquari privati che diventano sempre più popolari, attraverso il commercio su internet.

Abbracciare la reale dimensione del problema con il nostro sguardo, più che faticoso, è impossibile. Se ci fermiamo a pensare alla quantità di organismi che le navi container risucchiano e scaricano a ogni attracco, agli insetti che non conosciamo e che nidificano negli spigoli di queste imbarcazioni, in un mare sempre più caldo e disseminato di rifiuti, agli sversamenti petroliferi, ai detriti che colano a picco sfiorando i cavi in fibra ottica che scambiano dati tra un continente all’altro, permettendo a un pensionato di Marghera l’acquisto online di una tartaruga carnivora… cadiamo nella vertigine. Tutte le nostre scelte, in fondo, sono il terminale della sofferenza di altri esseri viventi. Abbiamo però la facoltà, dove possibile, di ridurre i danni.

Il problema delle specie aliene invasive è tridimensionale: è un problema ambientale, percettivo e politico. Sono tre piani che si incrociano su più livelli. Il primo, l’ambiente: bruciando combustibili fossili stiamo su una strada che non sappiamo dove ci condurrà, e solo attraverso la prevenzione possiamo contenere l’impatto della sesta estinzione di massa; la prevenzione passa per l’educazione dei cittadini, nelle case e nelle scuole. Solo così si tocca il secondo livello, il lavoro sulla percezione, sulle credenze superstiziose, la possibilità di incidere sulla cultura popolare. Nel momento in cui i cittadini diventano consapevoli della sofferenza che li circonda, la politica, il terzo livello, non può più tentennare: vanno prese misure urgenti per contenere quanto meno le conseguenze economiche e sanitarie del problema.

Serve più comunicazione da parte degli enti che si occupano di un fenomeno che è ubiquo e in continua evoluzione, mentre il monitoraggio per ora è stato puntiforme e casuale. Solo un monitoraggio graduale e costante può aiutare a ricostruire la nostra storia ecologica, anche se restiamo consapevoli della sproporzione tra noi e loro: gli alieni sono ovunque, si moltiplicano nel buio dei fondali, a volte sono così piccoli da essere invisibili alla luce.

Il futuro che sembra profilarsi però – che come il presente è fatto di trattati commerciali, emorragie turistiche, carriere intercontinentali – ci impone di guardare l’alieno negli occhi. Specie invasive, cambiamenti climatici, più la rimuoviamo dalle nostre vite, più la natura ci richiama all’ordine.

Le foto pubblicate in questo articolo fanno parte della serie Alieni, della fotografa Emanuela Colombo, sugli organismi trasportati dall’uomo lontani dal loro luogo d’origine.

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