03 maggio 2021 11:42

Afana Dieudonne ripete spesso di non essere un supereroe. È il suo modo di ammettere che per sopravvivere ha fatto cose di cui non va fiero, come avrebbe fatto chiunque si fosse trovato nella sua situazione. In aereo dal suo paese, il Camerun, alla Tunisia, poi in macchina e a piedi attraverso il deserto per entrare in Libia, e infine su un gommone nel Mediterraneo, Dieudonne ha superato molte prove di sopravvivenza.

In Libia, ricorda, i trafficanti che gestivano il centro di raccolta dei migranti gli chiedevano dei favori. Lui parla un po’ d’inglese e non voleva problemi. I trafficanti erano spesso su di giri per la droga ed erano sempre armati. A volte Dieudonne distribuiva da mangiare e da bere agli altri migranti. O denunciava chi non aveva eseguito gli ordini. Ricorda anche di essere stato costretto a usare la violenza sui compagni. Se non fosse toccato a loro, sarebbe toccato a lui, pensava.

Il 30 settembre 2014 i trafficanti ammassarono Dieudonne e altre 91 persone su un barcone. Nella notte videro le luci della costa libica svanire nell’oscurità. Dopo un giorno in mare il gommone sovraccarico era un po’ sgonfio e cominciava a imbarcare acqua. I passeggeri furono salvati dalla nave di un’ong e poi trasferiti su un’imbarcazione della guardia costiera italiana, dove Dieudonne fu separato dagli altri e portato in una stanza per essere interrogato. Ricorda che inizialmente le domande erano rapide, quasi di routine. Nome, età, nazionalità. Poi cambiarono: gli agenti volevano sapere come funzionava il traffico di esseri umani in Libia per arrestare le persone coinvolte. Volevano capire chi guidava il gommone e chi teneva in mano la bussola per navigare. “Gli ho detto e raccontato tutto, e gli ho mostrato anche chi era il ‘capitano’, tra virgolette, perché non c’è un capitano. Anche chi si ritrova a fare il capitano non lo fa per scelta”. Per i trafficanti, spiega Dieudonne, “noi siamo i clienti, e siamo anche la merce”.

Per anni gli sforzi del governo italiano e dell’Unione europea per affrontare i flussi migratori nel Mediterraneo centrale si sono concentrati sulle persone in Libia – chiamate in modo interscambiabile, a seconda di chi parla, “facilitatori”, “trafficanti”, “contrabbandieri” o “miliziani” – che aiutano ad arrivare in Europa chi può farlo solo in modo irregolare. I migranti pagano queste persone perché organizzino un viaggio estremamente pericoloso, che negli anni ha causato decine di migliaia di morti.

Gli sforzi europei per smantellare le reti di trafficanti di esseri umani hanno avuto una guida improbabile: la Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo (Dna), un ufficio specializzato di magistrati con sede a Roma, diventato famoso negli anni novanta e all’inizio degli anni duemila per aver smantellato gran parte delle attività mafiose in Sicilia e in altre parti d’Italia. Secondo alcuni documenti interni mai pubblicati finora, la Dna ha assunto un ruolo di primo piano nella gestione del confine marittimo meridionale dell’Europa, in coordinamento con Frontex, l’agenzia che sorveglia le frontiere dell’Unione, e con le missioni militari europee al largo delle coste libiche.

Nel 2013, sotto la guida di Franco Roberti, un procuratore con una lunga esperienza nell’antimafia, la Dna ha sperimentato una strategia unica: da quel momento l’immigrazione irregolare in Europa è stata affrontata con gli stessi metodi usati contro la criminalità organizzata. Con questo sistema le polizie, le guardie costiere e le marine di vari paesi d’Europa – obbligate dal diritto internazionale a salvare le navi di migranti in difficoltà – avrebbero potuto compiere qualche arresto e ottenere delle condanne. L’idea era di arrestare elementi di basso livello nell’organizzazione, gli “scafisti”, per ottenere informazioni sui vertici del traffico di esseri umani, anche convincendoli a collaborare con gli inquirenti come avveniva con i collaboratori di giustizia nei processi di mafia. In questo modo si pensava che gli investigatori della polizia avrebbero potuto risalire la catena di comando e smantellare le organizzazioni dei trafficanti in Libia. Ogni volta che un barcone raggiungeva le coste italiane la polizia faceva una serie di arresti. Chiunque avesse avuto un ruolo attivo durante la traversata, dal timoniere all’addetto alla bussola fino alle persone che distribuivano acqua o che avevano riparato una falla, poteva essere arrestato in base alle nuove linee guida adottate dalla Dna di Roberti. Le accuse variavano dal semplice traffico di esseri umani all’associazione a delinquere internazionale, fino all’omicidio nel caso in cui qualcuno fosse morto soffocato sotto coperta o fosse annegato durante un naufragio. Secondo fonti giudiziarie, dal 2013 le persone arrestate sono state migliaia.

Per la polizia, gli inquirenti e i politici coinvolti, gli arresti erano un importante risultato politico sul fronte interno. All’epoca l’opinione pubblica italiana stava sviluppando una certa ostilità nei confronti degli immigrati, e le foto segnaletiche dei presunti trafficanti finivano regolarmente sulle prime pagine dei giornali. Eppure i verbali delle conversazioni a porte chiuse tra alcune persone che gestivano i casi – ottenuti da The Intercept in base alla legge italiana sulla libertà d’informazione – indicano che la maggior parte dei procedimenti della direzione antimafia si concentrava solo su figure di basso profilo, spesso semplici migranti che avevano pagato per il viaggio. In pochi casi sono stati condannati esponenti di spicco del traffico di esseri umani. I documenti relativi a una decina di processi consultati da The Intercept mostrano che alcuni procedimenti sembrano essersi basati su indagini sommarie e precipitose.

Negli anni successivi la direzione antimafia ha fatto il possibile per non interrompere gli arresti. Nel resoconto di una riunione della Dna del 2017 alcuni procuratori dicevano che le “indagini sono andate incontro a uno stallo perché non hanno potuto svolgere accertamenti in forma anticipata”, cioè non avevano potuto svolgere attività di polizia giudiziaria sulle imbarcazioni delle organizzazioni umanitarie che salvavano vite nel Mediterraneo. Per questo si esprimeva la necessità di “disciplinare l’intervento delle navi ong”. La stessa Dna ha supervisionato il processo di creazione e formazione di una nuova guardia costiera libica, sapendo che alcuni dei componenti di quel corpo militare erano d’accordo con gli stessi trafficanti che in teoria avrebbero dovuto combattere.

Fin dall’inizio delle operazioni la Dna ha potuto contare su strumenti investigativi senza precedenti. I documenti rivelano nel dettaglio come, insieme ad altri funzionari italiani ed europei, la direzione antimafia abbia indagato e perseguito i presunti trafficanti, pur riconoscendo a porte chiuse che molti di loro erano semplici migranti in fuga dalla povertà e dalla violenza.

La Dna è nata all’inizio degli anni novanta, dopo un decennio segnato dall’escalation della violenza mafiosa. All’epoca centinaia di magistrati, politici, giornalisti e agenti di polizia erano stati vittime di attentati e rapimenti, e molti altri avevano subìto le pressioni delle famiglie della criminalità organizzata che agivano in Italia e all’estero. A Palermo il giudice Giovanni Falcone era l’astro nascente della magistratura italiana. Falcone aveva ottenuto risultati senza precedenti con un metodo basato sull’analisi dei flussi finanziari, il sequestro dei beni e la centralizzazione delle prove raccolte dagli inquirenti di tutta la Sicilia. Ma la mafia stava allungando i suoi tentacoli sul resto d’Europa e gli sforzi di Falcone non furono sufficienti. Nel settembre del 1990 un commando mafioso arrivò in Sicilia dalla Germania per uccidere Rosario Livatino, un magistrato di 37 anni. Poche settimane dopo, a un posto di blocco a Napoli, fu intercettato un siciliano residente in Germania che guidava un camion carico di armi, esplosivi e droga. Un mese dopo l’arresto, Falcone andò in Germania per creare un meccanismo di condivisione delle informazioni con le autorità tedesche e portò con sé un giovane collega di Napoli, Franco Roberti.

“Ci trovammo di fronte un muro”, ricorda Roberti, ancora amareggiato nonostante siano passati trent’anni. Ha accettato di incontrarci in un bar di Napoli. Con la voce roca da fumatore, Roberti, 73 anni, descrive il problema delle mafie in Italia con un linguaggio diretto. Si lamenta della mancanza di cooperazione internazionale, che a suo dire continua ancora oggi: “Sostenevano che non c’era bisogno di fare indagini in Germania, che eravamo noi a dover indagare sugli italiani che in Germania occasionalmente erano anche mafiosi”.

Tragedia e opportunità
Mentre tornavano in Italia a mani vuote, ricorda Roberti, Falcone gli disse che avrebbero avuto bisogno di “un organo centralizzato italiano che potesse interloquire direttamente con le autorità giudiziarie straniere, e coordinare le indagini in Italia. Da lì nacque l’idea del procuratore nazionale antimafia”, spiega Roberti. I due cominciarono a costruire quella che sarebbe diventata la prima forza nazionale antimafia. All’epoca il progetto incontrò una forte opposizione. Alcuni sostenevano che Falcone e Roberti stessero creando dei “superprocuratori”, i quali avrebbero esercitato un potere esterno sui tribunali e allo stesso tempo avrebbero subìto pressioni dal governo. Agli occhi degli oppositori era un matrimonio tra polizia e giustizia, tra interessi politici e tribunali, teoricamente indipendenti: insomma era un’idea utile per ottenere condanne di mafiosi, ma pericolosa per la democrazia.

Nel gennaio del 1992 il progetto fu approvato dal parlamento. Falcone, però, non ebbe mai la possibilità di guidare il nuovo ufficio: pochi mesi dopo, un’autobomba uccise lui, la moglie e tre agenti della scorta. L’attentato cancellò anche le ultime critiche al progetto di Falcone. La Direzione nazionale antimafia è diventata una delle istituzioni più importanti del paese, l’autorità su tutte le questioni legate alla criminalità organizzata, capace di liberare in parte l’Italia da una piaga antica. Nei decenni successivi alla morte di Falcone la Dna è riuscita a fare quello che molti in Italia ritenevano impossibile: sconfiggere in buona parte le cinque principali famiglie criminali italiane, dimezzando il tasso di omicidi di stampo mafioso.

Tuttavia, quando nel 2013 Roberti assunse il controllo della Dna, erano passati anni dall’ultimo grande processo di mafia, e l’influenza di quest’ufficio stava diminuendo. Intanto l’Italia doveva affrontare l’arrivo dal mare di un numero senza precedenti di migranti. E così Roberti ebbe un’idea: la Dna si sarebbe occupata di quella che ai suoi occhi era una mafia di tipo diverso. E concentrò la sua attenzione sulla Libia. “Pensammo che si dovesse fare qualcosa di più coordinato per contrastare questi traffici”, ricorda Roberti. “Così misi tutti intorno a un tavolo”.

“L’obiettivo principale era salvare vite, sequestrare navi e catturare scafisti. Cosa che facemmo”, dice.

Mare nostro
Nell’agosto del 2014 Dieudonne arrivò nella città portuale libica di Zuwara. Gli mancava l’ultima tappa del suo viaggio: attraversare il Mediterraneo per raggiungere l’Europa. I trafficanti che aveva pagato per portarlo sull’altra sponda gli avevano portato via tutto ciò che aveva e lo avevano rinchiuso in un edificio abbandonato dove avrebbe aspettato il momento di partire.

Dieudonne ci racconta la sua storia nel piccolo ufficio di Bari da cui gestisce una cooperativa che aiuta gli immigrati appena arrivati in Italia a iscriversi a scuola. È incisivo e carismatico. Si muove in continuazione: parla, scrive messaggi, telefona, gesticola. Ogni volta che dice una cosa importante batte le nocche sul tavolo ritmicamente. Ha insistito perché pubblicassimo il suo vero nome. Altri migranti che hanno compiuto il suo stesso viaggio più recentemente – e sono ancora in attesa di una decisione sul permesso di soggiorno o lo status di rifugiato – sono meno disposti a parlare apertamente.

Zawiya, Libia, maggio 2017. Migranti nel centro di detenzione di Al Nasr. (Lorenzo Tugnoli, The Washington Post/Contrasto)

Dieudonne ricorda il nascondiglio di Zuwara come un posto di continue violenze. I trafficanti arrivavano una volta al giorno per portare da mangiare, e ogni giorno chiedevano chi non aveva rispettato gli ordini, cioè di stare tranquilli e non creare problemi. Le persone rinchiuse nell’edificio abbandonato sapevano che lì avevano meno possibilità di essere scoperte dalla polizia o dai trafficanti rivali, ma non erano libere di allontanarsi. “Una volta hanno messo un ragazzo nel frigorifero davanti a tutti noi, per far vedere come avrebbero trattato il prossimo che si comportava male”, ricorda con rabbia Dieudonne. Ha assistito a torture, spari, stupri. “La prima volta fa male. La seconda volta un po’ meno. La terza”, spiega alzando le spalle, “diventa la normalità. Perché è l’unico modo per sopravvivere, l’unica cosa che conta”.

“Per questo mi fa ridere quando vanno ad arrestare il capitano di un barcone e lo trattano da trafficante”, dice. Altri migranti che hanno fatto il viaggio fino all’Italia raccontano di essere stati costretti a guidare l’imbarcazione con una pistola puntata contro. “Lo fai solo per essere sicuro che non morirai lì”, spiega Dieudonne.

Nel 2013, due anni dopo la caduta del governo di Muammar Gheddafi, gran parte della costa nordoccidentale della Libia era sotto il controllo di trafficanti che organizzavano le traversate verso l’Europa su grandi pescherecci di legno. Quando le barche – troppo cariche, poco potenti e guidate da persone inesperte – finivano inevitabilmente per ribaltarsi, le vittime si contavano a centinaia. Nell’ottobre di quell’anno due naufragi al largo delle coste di Lampedusa causarono la morte di più di quattrocento persone, suscitando proteste in tutt’Europa. In risposta lo stato italiano mise in atto due piani, uno pubblico, l’altro riservato.

“Ci fu un grande shock quando avvenne la tragedia di Lampedusa”, ricorda la senatrice italiana Emma Bonino, all’epoca ministra degli esteri. Il presidente del consiglio “convocò una riunione d’emergenza e decidemmo di lanciare immediatamente un’operazione di salvataggio”, racconta. “Qualcuno voleva chiamarla ‘mari sicuri’, ma mi opposi alla parola ‘sicuri’, perché di certo avremmo avuto altre tragedie. Proposi di chiamarla Mare nostrum”.

Mare nostrum (“il nostro mare”, in latino) è stata una missione di salvataggio in acque internazionali al largo della costa libica, è durata un anno e ha permesso di salvare più di 150mila persone. L’operazione portò più vicino che mai alle coste libiche le navi, gli aerei e i sottomarini italiani. Roberti, nominato da appena due mesi a capo della direzione antimafia, pensò che era un’occasione unica per estendere il raggio d’azione giudiziario dell’Italia e infliggere un colpo letale alle organizzazioni dei trafficanti in Libia.

Cinque giorni dopo l’inizio di Mare nostrum, Roberti lanciò la seconda operazione, quella riservata: una serie di incontri coordinati tra i vertici della polizia, della marina, della guardia costiera e della magistratura. Sotto la guida di Roberti, questi incontri sono andati avanti per quattro anni e hanno coinvolto rappresentanti di Frontex, di Europol, dell’operazione Sophia e perfino delle autorità libiche.

I verbali di cinque incontri, presentati da Roberti a una commissione parlamentare italiana e ottenuti da The Intercept, permettono di capire come sono stati analizzati dietro le quinte gli eventi al confine meridionale dell’Europa dopo i naufragi di Lampedusa. Nel primo incontro, organizzato nell’ottobre del 2013, Roberti disse ai partecipanti che gli uffici dell’antimafia di Catania avevano sviluppato un metodo innovativo per affrontare il traffico di migranti. Trattando i trafficanti libici come avevano trattato i mafiosi italiani, gli inquirenti potevano rivendicare la giurisdizione sulle acque internazionali oltre i confini italiani. Secondo Roberti questo significava poter finalmente salire a bordo e sequestrare le imbarcazioni in alto mare, condurre indagini e usare le prove in tribunale.

Le autorità italiane avevano da tempo riconosciuto che in base al diritto marittimo internazionale erano obbligate a salvare le persone in fuga dalla Libia su barconi sovraffollati e a trasferirle in un posto sicuro. Mentre il numero di persone che tentavano la traversata aumentava, la guardia costiera italiana e gli inquirenti si erano convinti che i trafficanti facessero affidamento su queste operazioni di salvataggio per portare a termine i loro piani. Di conseguenza, secondo l’antimafia, chiunque agisse come membro dell’equipaggio o inviasse una richiesta d’aiuto da una barca carica di migranti poteva essere considerato complice dei trafficanti libici e soggetto alla giurisdizione italiana. Questo nuovo approccio s’ispirava alle dottrine legali sviluppate negli Stati Uniti negli anni ottanta per fermare il traffico di droga.

Dieudonne non capisce perché l’Italia punisca le persone che fuggono dalla povertà

All’epoca i leader europei non riuscivano a trovare una soluzione a quella che consideravano una crisi migratoria. Gli italiani pensavano di aver trovato una risposta e giustificarono pubblicamente le loro decisioni sostenendo che avrebbero permesso di evitare naufragi. Tuttavia, secondo i verbali dell’incontro dell’antimafia nel 2013, la nuova strategia precedette di almeno una settimana i naufragi di Lampedusa. Gli inquirenti italiani avevano già scritto il piano per contrastare l’immigrazione nel Mediterraneo, ma non avevano gli strumenti e il sostegno dell’opinione pubblica per metterlo in azione. Dopo la tragedia di Lampedusa e la creazione di Mare nostrum, improvvisamente ebbero entrambi.

Nelle acque internazionali al largo della Libia, Dieudonne e altri 91 migranti furono salvati dall’ong Migrant offshore aid station (Moas). Trascorsero due giorni a bordo della nave del Moas, prima di essere trasferiti a bordo della nave Dattilo della guardia costiera italiana. A bordo della Dattilo, gli agenti della guardia costiera chiesero a Dieudonne perché aveva deciso di lasciare il Camerun. Dieudonne ricorda che gli mostrarono una fotografia del gommone scattata dall’alto. “Mi hanno chiesto chi guidava, i ruoli e tutto”, ricorda. “Poi mi hanno chiesto se potevo raccontare come si svolge il traffico in Libia, e loro mi avrebbero dato dei documenti”. Dieudonne inizialmente era riluttante a collaborare. Non voleva accusare i suoi compagni, ma era anche preoccupato di poter essere un sospettato. Dopo tutto aveva aiutato il timoniere diverse volte durante la traversata. “Ho pensato: ‘Se non collaboro possono farmi del male’”, ricorda. “Non del male fisicamente, ma mi possono considerare come una persona non onesta, come una persona che fa parte del giro”.

Ancora oggi Dieudonne non capisce perché l’Italia debba punire persone che fuggono dalla povertà e dalla violenza politica in Africa occidentale. Fa una rapida lista di eventi dell’ultimo anno: siccità, carestie, corruzione, milizie armate, attacchi contro le scuole: “Come si fa a condannare una persona che è riuscita ad andare via da quelle situazioni?”. La nave della guardia costiera lasciò Dieudonne a Vibo Valentia, in Calabria. Durante le operazioni di sbarco un agente della polizia riferì a un giornalista che erano state arrestate cinque persone. Il giornalista volle sapere come aveva fatto la polizia a identificarle. “Molto ha fatto la guardia costiera che li ha raccolti due giorni fa, quindi è riuscita a individuarli”, spiegò l’agente. “Poi abbiamo le testimonianze e dei video”.

Stato di necessità
Secondo Gigi Modica, un giudice siciliano che si è occupato spesso d’immigrazione irregolare, casi simili, in cui gli arresti sono effettuati sulla base di fotografie, video e dichiarazioni di testimoni come Dieudonne, sono molto comuni. “È la stessa storia che si ripete. Fermano tre o quattro persone, non di più. Gli fanno due domande: chi guidava l’imbarcazione e chi usava la bussola”, spiega Modica. “Finisce lì. Ottengono dei nomi e non s’interessano ad altro”.

Modica è stato uno dei primi giudici italiani ad assolvere delle persone accusate di aver manovrato i barconi ritenendo che fossero state costrette a farlo. Queste sentenze basate sullo “stato di necessità” sono diventate sempre più numerose. Modica ha compilato un elenco di irregolarità che ha rilevato in questi casi: razzismo strutturale, testimonianze che in un secondo momento i migranti dicono di non aver rilasciato, interrogatori effettuati senza un traduttore o un avvocato. Ci sono anche persone che hanno riferito di essere state invitate dalla polizia a firmare documenti con cui rinunciavano al diritto di chiedere asilo. “Spesso questi presunti scafisti sono persone normali che sono state costrette a guidare una barca dai veri trafficanti in Libia”, spiega Modica.

I documenti relativi a più di una decina di processi, esaminati da The Intercept, mostrano procedimenti basati soprattutto su testimonianze di migranti a cui è stato promesso un permesso di soggiorno in cambio della collaborazione. In mare i testimoni sono interrogati dalla polizia poche ore dopo il salvataggio, spesso quando sono ancora in stato di shock dopo essere sopravvissuti a un naufragio. In molti casi dichiarazioni identiche, compresi i refusi, sono state attribuite a diversi testimoni e copiate in diversi rapporti della polizia. A volte questi rapporti sono stati sufficienti a ottenere lunghe condanne al carcere. In altre occasioni, al momento del controinterrogatorio in tribunale, i testimoni hanno smentito le dichiarazioni raccolte in precedenza dalla polizia o addirittura negato di averne mai rilasciata una.

A partire dal 2015 i partecipanti agli incontri della Dna hanno cominciato a discutere i problemi relativi a questi procedimenti. In un incontro che si è svolto nel febbraio di quell’anno, Giovanni Salvi, all’epoca procuratore di Catania, ha ammesso che gli scafisti abbandonavano spesso i barconi nelle acque internazionali. Nonostante questo la polizia italiana andava avanti perseguendo le persone rimaste a bordo. Questi procedimenti erano talmente importanti che la guardia costiera italiana ha in qualche caso ritardato il soccorso, evitando di contattare le navi vicine in modo da “consentire l’arrivo di imbarcazioni istituzionali che possono eseguire l’arresto”, ha spiegato in una riunione un comandante della guardia costiera. Ritardare i soccorsi, per qualsiasi motivo, va contro il diritto italiano e internazionale. Secondo alcuni avvocati europei specializzati nella difesa dei diritti umani questa condotta potrebbe comportare una responsabilità penale della guardia costiera italiana.

La guardia costiera, a cui abbiamo chiesto conto dei commenti del comandante, ha fatto sapere che “in nessuna occasione” ha mai ritardato un’operazione di salvataggio.

Amici dei trafficanti
L’Italia mise fine all’operazione Mare nostrum dopo un anno di attività, giustificando la decisione con i limiti di bilancio e la mancanza di collaborazione da parte dell’Europa. Sulla scia di Mare nostrum, l’Unione europea creò due nuove operazioni, una gestita dall’agenzia Frontex; e l’altra di natura militare, l’operazione Sophia. Non si sono concentrate sui soccorsi, ma sulla sicurezza dei confini e sul contrasto al traffico di esseri umani dalla Libia. A partire dal 2015 i rappresentanti di Frontex e dell’operazione Sophia furono inclusi negli incontri della Dna, in cui gli inquirenti italiani facevano in modo che seguissero le nuove linee guida investigative.

Per le indagini erano fondamentali le foto dei salvataggi, come l’immagine dall’alto che la guardia costiera aveva mostrato a Dieudonne, che aiutavano la polizia a identificare chi guidava i barconi e chi aiutava nella navigazione. In assenza di navi da soccorso governative, una flotta di imbarcazioni civili di ong cominciò a salvare un gran numero di migranti nelle acque internazionali al largo della Libia. Queste navi, anche se erano coordinate dalla centrale operativa della guardia costiera a Roma, rendevano più difficile la raccolta di prove per gli inquirenti e la polizia giudiziaria. Secondo i verbali delle riunioni della Dna, alcune ong (tra cui Moas) consegnavano abitualmente fotografie alla polizia italiana e a Frontex. Altre ong si rifiutavano di farlo sostenendo che non è il compito degli operatori umanitari raccogliere e fornire informazioni di polizia sui soccorsi, perché questo potrebbe minare l’efficacia del loro intervento e la loro neutralità.

Tripoli, Libia, maggio 2019. Un uomo mostra i segni delle torture sul petto. (Lorenzo Tugnoli, The Washington Post/Contrasto)

Nel 2017 l’operazione Sophia stimava che la flotta delle ong avesse fatto più di un terzo dei salvataggi nel Mediterraneo centrale. In un rapporto riservato dell’operazione c’era scritto che, a causa della mancata raccolta d’informazioni da dare alla polizia da parte delle ong, non era stato possibile “acquisire informazioni indispensabili per comprendere meglio il modello di business dei trafficanti”. In un incontro successivo della Dna, sei procuratori ribadivano la stessa preoccupazione. I salvataggi delle ong significavano che la polizia non poteva interrogare i migranti in mare e che i procedimenti saltavano per mancanza di prove. Un ammiraglio della guardia costiera concordava con questa posizione, spiegando l’importanza di condurre interrogatori subito dopo il salvataggio, quando “si è stabilito un momento di empatia”. “Non è possibile svolgere questo compito se l’intervento di soccorso viene effettuato dalle navi delle ong”, dichiarava l’ammiraglio.

Le ong erano un problema per la strategia della Dna. Durante gli incontri gli inquirenti italiani e i rappresentanti della guardia costiera, della marina e del ministero dell’interno discutevano le possibili azioni per limitare l’attività delle organizzazioni umanitarie. Contemporaneamente diverse procure cominciavano a indagare direttamente sul loro operato.

Alla fine del 2016 un rapporto interno di Frontex – pubblicato integralmente da The Intercept nel 2017 – accusò un’ong di aver preso a bordo dei migranti da un’imbarcazione di trafficanti libici, attribuendo l’informazione alle “autorità italiane”. L’accusa fu smentita da prove filmate e dall’equipaggio della nave.

Alcuni mesi dopo Carmelo Zuccaro, procuratore di Catania, confermò pubblicamente che stava indagando sulle ong. “Insieme a Frontex e alla marina militare stiamo cercando di monitorare tutte queste ong che hanno dimostrato di avere una grande disponibilità finanziaria”, dichiarò Zuccaro al quotidiano La Repubblica. La notizia ebbe una grande risonanza sui mezzi d’informazione italiani ed europei. “Amici dei trafficanti” e “taxi del mare” diventarono insulti molto comuni che i politici ostili all’immigrazione e l’estrema destra italiana rivolgevano alle ong. In seguito Zuccaro fece marcia indietro, dichiarando a una commissione parlamentare che all’epoca stava solo formulando un’ipotesi e che non aveva prove che la sostenessero. In un’intervista concessa al giornale tedesco Die Welt nel febbraio del 2017, il direttore di Frontex Fabrice Leggeri non criticò esplicitamente l’operato delle ong, ma dichiarò che la loro attività intralciava le indagini della polizia nel Mediterraneo. Mentre le organizzazioni umanitarie si facevano carico di una percentuale più alta di salvataggi, secondo Leggeri diventava “sempre più difficile per le autorità di sicurezza europee scoprire qualcosa di più sulle reti dei trafficanti attraverso gli interrogatori dei migranti e lanciare nuove indagini”.

“Quella campagna diffamatoria fu molto aggressiva”, ricorda Emma Bonino. Riferendosi a Marco Minniti, all’epoca ministro dell’interno, aggiunge: “Cercavo di convincere Minniti a non essere così ossessionato dalle persone che arrivavano, e a creare invece una politica d’integrazione in Italia. Ma lui si concentrava solo sulla Libia, sul traffico e la criminalizzazione delle ong con l’aiuto delle procure”. Bonino spiega che l’azione contro le ong faceva parte di un piano più vasto per cambiare la politica europea nel Mediterraneo centrale. Il primo passo è stato spostare l’attenzione dai salvataggi per ragioni umanitarie alla sicurezza dei confini e alla lotta al traffico di esseri umani. Il secondo passo “è stato accusare le ong o arrestare i loro operatori, una specie di sporca campagna contro di loro”, precisa Bonino. “Il risultato è che dopo tutti questi anni non ci sono state condanne né processi”.

Stesse uniformi e navi
Il terzo passo, infine, è stato creare una nuova guardia costiera in Libia che potesse fare ciò che agli europei era impedito dal diritto internazionale: intercettare i migranti in mare e riportarli in Libia, il paese da cui erano appena fuggiti. Inizialmente i dirigenti di Frontex si mostrarono piuttosto cauti. “Dal punto di vista di Frontex osserviamo la Libia con preoccupazione: non è un paese stabile”, dichiarò nel 2017 Leggeri. “Stiamo contribuendo ad addestrare sessanta agenti di una possibile guardia costiera libica da creare in futuro. Ma è solo l’inizio”. Bonino vedeva le cose diversamente: “Hanno cominciato a fornire supporto alla loro cosiddetta guardia costiera, che sostanzialmente era formata da trafficanti in abiti diversi”.

Al sicuro sulla terraferma in Italia, Dieudonne non è mai stato chiamato a testimoniare in tribunale. Spera che nessuno dei suoi compagni di viaggio sia finito in prigione e sottolinea che sarebbe felice di testimoniare contro i trafficanti. A bordo della nave della guardia costiera, ricorda Dieudonne, “ho dato alla polizia il numero di telefono dei trafficanti, e i loro nomi”.

La tratta di esseri umani in Libia avveniva alla luce del sole, ma la polizia italiana non poteva andare oltre le acque internazionali. Alcuni documenti riservati dell’operazione Sophia descrivono anni di tentativi da parte degli europei per fare in modo che la polizia libica arrestasse i responsabili. A porte chiuse alcuni alti funzionari italiani ed europei hanno ammesso che i trafficanti si erano infiltrati nella nuova guardia costiera libica che l’Europa stava creando, e che collaborare con i libici rappresentava probabilmente una violazione del diritto internazionale.

Il governo italiano lavorava con delle persone che sapeva essere dei trafficanti

Fin dal 2015 molti partecipanti agli incontri della Dna hanno sottolineato che alcuni trafficanti erano vicini in modo preoccupante a esponenti del governo libico. “Le milizie utilizzano stesse uniformi e mezzi della guardia costiera libica che la stessa marina militare italiana sta addestrando”, ha dichiarato nel 2017 Enrico Credendino, ammiraglio che all’epoca era a capo dell’operazione Sophia. Secondo Credendino il capo della guardia costiera libica e il ministro della difesa libico, entrambi alleati del governo italiano, erano “in stretto rapporto con alcuni capi delle milizie”.

Uno degli ufficiali della guardia costiera libica che facevano il doppio gioco era Abd al Rahman al Milad, conosciuto come Bija. Nel 2019 il quotidiano italiano Avvenire ha rivelato che nel maggio del 2017 Bija aveva partecipato con la polizia di frontiera italiana e alcuni agenti dei servizi a un incontro in Sicilia, il cui obiettivo era fermare l’immigrazione dalla Libia. Un mese dopo il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha riconosciuto in un rapporto il ruolo di primo piano di Bija in una potente milizia specializzata nel traffico di esseri umani dalla città costiera di Zawiya, accusandolo di “aver affondato barche cariche di migranti utilizzando armi da fuoco”.

Secondo alcuni documenti riservati dell’operazione Sophia, gli agenti della guardia costiera comandati da Bija erano stati addestrati dall’Unione europea tra il 2016 e il 2018. Mentre perseguiva i presunti trafficanti in Italia, il governo italiano lavorava con persone che sapeva essere trafficanti in Libia. Minniti ha giustificato questi accordi dichiarando che la prospettiva di un’immigrazione di massa dall’Africa lo spingeva a temere “per la tenuta democratica del paese”.

Tripoli, Libia, maggio 2019. In una scuola trasformata in un rifugio per migranti. (Lorenzo Tugnoli, The Washington Post/Contrasto)

In un incontro della Dna nel 2017, un rappresentante del ministero dell’interno, Vittorio Pisani, ha esposto in termini chiari un piano che prevedeva un coordinamento diretto della nuova guardia costiera libica. Sarebbe stata creata “una sala operativa in Libia (…) che effettua uno scambio di dati con il ministero dell’interno”, spiegava Pisani, “principalmente sulla posizione delle navi ong e delle loro condotte di soccorso, al fine di impiegare proficuamente in tale contesto la guardia costiera libica nelle proprie acque nazionali”.

In questo modo è cominciata la terza fase della manovra. Alla fine di quell’incontro, Roberti ha suggerito che il gruppo invitasse i rappresentanti della polizia libica alla riunione successiva. In un’intervista con The Intercept, Roberti ha confermato che i libici hanno partecipato ad almeno due incontri della Dna, e di aver personalmente incontrato Bija in Libia un mese dopo la pubblicazione del rapporto del Consiglio di sicurezza dell’Onu. L’anno dopo, la commissione sulla Libia del Consiglio di sicurezza ha sottoposto Bija a sanzioni, congelandone i beni e vietandogli di spostarsi all’estero.

“Era indispensabile il concorso, la partecipazione di soggetti delle istituzioni libiche. Che non controllavano, perché prendevano soldi dai trafficanti”, ci ha spiegato Roberti nel bar di Napoli. “Erano essi stessi i trafficanti”.

Un posto sicuro
Nel 2017 Roberti è andato in pensione e ha lasciato la guida della Dna. Dice che sotto il suo comando l’organizzazione ha saputo porre le basi per la gestione dell’immigrazione in Europa. Eppure ammette che l’espansione del raggio d’azione della Dna ai problemi legati all’immigrazione ha dato risultati contrastanti. Come il suo viaggio in Germania negli anni novanta in compagnia di Giovanni Falcone, anche la strategia della Dna ha dovuto fare i conti con la mancanza di collaborazione: con le ong, con gli altri governi europei e con la Libia. “Non funziona la cooperazione a livello europeo”, spiega Roberti, che sulla Libia aggiunge: “Noi abbiamo cercato, io ho creduto che fosse giusto fare gli accordi. Ma alla fine si è rivelato fallimentare”.

Da allora la Dna ha allargato le sue operazioni. Tra il 2017 e il 2019 il governo italiano ha approvato due leggi che assegnano alla direzione antimafia la gestione di quasi tutte le questioni legate all’immigrazione irregolare. Dal 2017 cinque procuratori siciliani, ciascuno dei quali ha partecipato ad almeno una delle riunioni di coordinamento dell’antimafia, hanno avviato quindici procedimenti contro operatori delle ong. Finora non ci sono state condanne: tre casi sono stati archiviati e gli altri sono ancora aperti.

Il 2 aprile 2021 si è diffusa la notizia che a partire dal 2017 gli inquirenti siciliani avevano intercettato alcuni giornalisti e avvocati, ascoltando conversazioni legalmente protette con fonti e clienti. Le intercettazioni facevano parte di un’indagine sulla presunta collusione tra le ong e i trafficanti libici. Dopo la notizia, il ministero della giustizia ha aperto un’indagine su questo fatto, che secondo alcuni esperti di diritto italiani potrebbe avere risvolti penali. Il procuratore responsabile delle intercettazioni era presente ad almeno uno degli incontri della Dna in cui sono state discusse approfonditamente le indagini sulle ong.

Con l’ampliamento delle prerogative della Dna, alcuni partecipanti agli incontri di coordinamento hanno scalato i ranghi delle istituzioni italiane ed europee. Uno dei suoi procuratori, Federico Cafiero de Raho, oggi guida la direzione antimafia. Giovanni Salvi, ex procuratore capo di Catania, è diventato procuratore generale. Vittorio Pisani, l’ex rappresentante del ministero dell’interno, è uno dei vicedirettori dei servizi d’intelligence italiani. Roberti è deputato del parlamento europeo.

Cafiero de Raho, che ha preso il posto di Roberti a capo della direzione antimafia, difende le indagini e gli arresti compiuti dalla Dna nel corso degli anni. Dice che gli incontri di coordinamento sono stati uno strumento essenziale per i procuratori e la polizia in un momento difficile. Alle domande su alcuni commenti che ha fatto nel corso di quegli incontri – in particolare sul fatto che le ong devono essere regolamentate e le ripetute ammissioni che alcuni membri della guardia costiera libica fossero coinvolti nel traffico di esseri umani – Cafiero de Raho dice che quelle affermazioni devono essere valutate all’interno del loro contesto, cioè in un periodo in cui l’Italia e l’Unione europea stavano lavorando per costruire una guardia costiera in una parte della Libia che era controllata dalle milizie locali. Il suo obiettivo finale, dice il procuratore, era quello che negli incontri di coordinamento della Dna ha chiamato “soluzione extragiudiziaria”: tentativi di provare l’esistenza di crimini contro l’umanità in Libia in modo da poter inviare “forze delle Nazioni Unite per smantellare i campi di migranti allestiti dai trafficanti, ove venivano commessi crimini contro l’umanità, e per riprendere il controllo di quel territorio”.

Oggi la maggior parte delle imbarcazioni è intercettata dalla guardia costiera libica

Un responsabile dello European Union external action service, l’organismo da cui dipendeva l’operazione Sophia, si è rifiutato di commentare le prove del fatto che i capi dell’operazione militare europea sapevano che parti della nuova guardia costiera istituita con il loro contributo erano coinvolti nella tratta dei migranti, ma ha solo fatto notare che Bija non era stato addestrato dall’Unione europea. Un portavoce di Frontex ha rilevato che l’agenzia “non era stata coinvolta nella selezione degli ufficiali da addestrare”.

Nel 2019 la strategia europea sull’immigrazione è cambiata di nuovo. Allo stato attuale la maggior parte delle imbarcazioni è intercettata dalla guardia costiera libica e riportata in Libia. Nel marzo del 2019 l’operazione Sophia ha ritirato tutte le sue navi dall’area di ricerca e soccorso, e si è concentrata sui pattugliamenti aerei che, come risulta da alcune inchieste giornalistiche, dovevano servire a coordinare i libici per i salvataggi. Gli avvocati per la difesa dei diritti umani in Europa hanno depositato sei esposti contro l’Italia e l’Unione europea, accusandole di “respingimenti per procura”, ovvero di facilitare il ritorno dei migranti in contesti pericolosi, violando il diritto internazionale.

Nel corso di quattro anni di incontri di coordinamento, i funzionari italiani ed europei hanno ammesso in privato che riportare i migranti in Libia sarebbe stato illegale. “La violazione in Libia dei fondamentali diritti umani determina l’impossibilità di operare il respingimento verso le coste libiche di migranti”, spiegava Pisani nel 2015.

Due anni dopo lo stesso Pisani illustrava un piano che avrebbe ottenuto precisamente quel risultato.

Per puro caso
Dieudonne sa di essere stato fortunato. La linea che separa il sospettato dalla vittima può dipendere dalle prime impressioni di un agente di polizia pochi minuti o poche ore dopo un salvataggio. Secondo i rapporti di polizia usati nei procedimenti giudiziari, attributi fisici come avere “una pelle più chiara” o comportamenti a bordo della nave come seguire i movimenti della polizia “con uno strano interesse” sono stati sufficienti ad alimentare un sospetto.

In una sentenza del 2019 che ha assolto sette presunti trafficanti dopo tre anni di detenzione preventiva, i giudici hanno scritto che restava il dubbio che “l’individuazione dei sospettati da un canto e dei dichiaranti dall’altro, con la sola eccezione del guidatore, sia stata il frutto di una mera casualità”. Altri migranti hanno pagato con lunghe condanne al carcere l’aver eseguito gli ordini dei libici. Nel settembre del 2019 un guineano di 22 anni, soprannominato Suarez, è stato arrestato appena arrivato in Italia. Quattro testimoni avevano riferito alla polizia che il ragazzo aveva collaborato con le guardie del centro di detenzione di Zawiya gestito da Bija.

“Anche Suarez è un prigioniero. Lui prima era prigioniero, poi ha fatto quel lavoro”, ha dichiarato in tribunale un testimone. Un altro testimone ha raccontato che consegnare i pasti o occuparsi della sicurezza è quello che fanno i migranti che non possono pagare il riscatto preteso per ottenere la libertà. “Purtroppo devi essere lì per capire la situazione”, ha precisato il primo testimone. Suarez è stato condannato a vent’anni di prigione, recentemente ridotti a dodici in appello.

Dieudonne ricorda ancora in modo vivido il viaggio in mare, ma si mantiene sorprendentemente calmo. Quando la barca aveva cominciato a imbarcare acqua, aveva cercato di dare una mano: “Bisogna collaborare per dare un aiuto dove serve”. Nel suo ufficio di Bari Dieudonne si piega in avanti e muove le braccia come se stesse cercando di far uscire l’acqua da una barca.

“Quindi cosa facciamo? Dovrebbero condannare anche me perché ho collaborato?”, chiede. Gli sembra paradossale che lo scorso ottobre siano stati proprio i libici ad arrestare Bija con l’accusa di traffico di esseri umani. Gli italiani e gli europei, sottolinea con una risata, erano troppo occupati a collaborare con il corrotto comandante della guardia costiera. Questo mese Bija è stato rilasciato dal carcere dopo che un tribunale libico l’ha assolto da tutte le accuse. Ha ricevuto una promozione ed è tornato al lavoro nella guardia costiera.

Dieudonne pensa spesso alle persone che ha identificato a bordo della nave della guardia costiera, in mare aperto: “Ho detto la verità. Ma se la mia collaborazione va a finire con la condanna di una persona innocente, non va bene. Io so che quella persona non ha fatto niente. Anzi ci ha salvato la vita guidando quel gommone”.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Questo articolo è uscito sul numero 1407 di Internazionale. Era stato pubblicato sul sito investigativo statunitense The Intercept.

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