12 settembre 2015 15:33

Inutile affannarsi a chiedere informazioni in comune, superfluo bussare all’ufficio del giudice di pace, unico sopravvissuto alla spending review in questo avamposto dell’Alta Irpinia a 870 metri sul livello del mare. La risposta che nessuno riesce a fornire, a Sant’Angelo dei Lombardi, è la più scontata di tutte: per entrare nell’ex tribunale basta avvicinarsi all’ingresso principale e spingere la porta.

Qualcuno ha provveduto a forzare la serratura lasciando la porta appena socchiusa e chi è a conoscenza di questo piccolo segreto può entrare e uscire a suo piacimento. Può portarsi via un faldone processuale, un pacco di intercettazioni telefoniche, una sedia da ufficio o un qualsiasi souvenir sopravvissuto al trasloco e ai moderni tombaroli che, su commissione o per puro vandalismo, fanno quotidiana razzia di ciò che è avanzato dalla dismissione di un pezzo dello stato italiano, che aveva retto al sisma del 1980 ma non ce l’ha fatta a evitare la mannaia della riduzione della spesa pubblica.

Il tribunale di Sant’Angelo dei Lombardi – a differenza della vicina caserma dei carabinieri che ancora oggi è in piedi, pericolante e abbandonata – era sopravvissuto al terremoto che, alle 19.35 del 23 novembre 1980, rase al suolo questo paese di appena seimila abitanti della bassa Irpinia. Qui si concentrò il più alto numero di vittime, 482 sulle 2.700 complessive, e questo comune diventò il simbolo della tragedia avvenuta, come Gemona per il terremoto del Friuli del 1976 o come sarà Onna nel 2009.

La terra, quella domenica sera, si mosse contemporaneamente in su e in giù, da destra verso sinistra e al suo contrario.

Sotto le macerie del bar Corrado rimase schiacciata un’intera generazione: centoventi giovani, uccisi mentre giocavano al biliardo o erano incollati alla tv a guardare la sintesi di Juventus-Inter su Rai 2. Oggi neppure una lapide li ricorda e chi ha l’età che loro avevano all’epoca fugge senza rimpianti o rimane a ingrossare la generazione “né-né”, ragazzi che non studiano e non lavorano. Più di uno va a ingrossare le statistiche sui suicidi, che conferiscono alla provincia di Avellino un triste primato: dall’inizio dell’anno già venti persone si sono tolte la vita, vittime silenziose del disagio sociale derivante dalla perdita o dalla mancanza di lavoro.

Negli anni ottanta l’Alta Irpinia era un feudo di Ciriaco De Mita, e la Democrazia cristiana (Dc) era così forte da conservare ancora oggi più di una trincea. Michele Forte viene da quella storia e ragiona ancora secondo gli schemi della prima repubblica. Quando il tribunale ha ufficialmente chiuso i battenti, nel settembre del 2013, era lui il sindaco di Sant’Angelo dei Lombardi. Poiché si era sentito tradito dal presidente della repubblica Giorgio Napolitano, aveva preso carta e penna e aveva scritto all’antico oppositore, come un don Camillo improvvisamente rimasto orfano del suo Peppone.

Nella lettera ha rievocato un suo comizio davanti alla piazza gremita, ai tempi del Partito comunista italiano (Pci), al fianco di Ciccillo Quagliariello, mitico leader dei movimenti per l’occupazione delle terre nell’Alta Irpinia del dopoguerra. “Ora hai dimenticato la tua storia per assecondare Angela Merkel”, aveva rimproverato Forte all’allora presidente della repubblica.

L’interno del palazzo di giustizia di Sant’Angelo dei Lombardi, chiuso a causa dei tagli di fondi pubblici, l’11 febbraio 2015. (Andrea Sabbadini, Buenavista Photo)

È un tema ricorrente, nel Mezzogiorno sacrificato sull’altare dell’Europa, quello del “tradimento” di Napolitano, al quale sono imputate maggiori responsabilità che ai presidenti del consiglio di turno. Si tratta di un’insofferenza legata al ruolo che l’ex presidente della repubblica, quando era nel Pci, ha svolto per almeno un cinquantennio nel sud. “Napolitano sapeva benissimo che, chiudendo i servizi pubblici, tutte le aree interne sarebbero andate incontro al disastro”, argomenta Forte. A Mario Monti, a Enrico a Letta e Matteo Renzi è concesso il beneficio dell’inventario: loro non sono meridionali.

L’Appennino svuotato

Dopo la revisione delle circoscrizioni giudiziarie portata a compimento dall’ex ministra della giustizia Paola Severino – che ha comportato la chiusura di 31 tribunali con le relative procure della repubblica, 220 sedi distaccate e 667 uffici del giudice di pace – da Napoli a Foggia e lungo tutta la dorsale appenninica fino a Castrovillari, in Calabria, non c’è più un tribunale.

Nell’avellinese, oltre a Sant’Angelo dei Lombardi è saltato pure quello di Ariano Irpino e, a un anno e mezzo di distanza, è difficile trovare qualcuno che sia soddisfatto dei risultati: non i cittadini che si sono sentiti privati di un bene comune, non i dipendenti trasferiti e neppure gli avvocati costretti al pendolarismo. Perfino dal punto di vista del contenimento dei costi, il taglio pare essere un’arma spuntata.

Sant’Angelo dei Lombardi può offrire qualche esempio. Il tribunale era ospitato in un edificio comunale e 28 sindaci del circondario, pur di evitarne la chiusura, si erano detti disposti ad accollarsi le spese. Il paese, rinato grazie ai contributi del dopo terremoto, era sopravvissuto come centro amministrativo per un’area di 1.200 chilometri quadrati e circa settantamila abitanti.

Ma non c’è stato niente da fare: tutte le attività sono state trasferite ad Avellino senza che nel capoluogo nessuno si opponesse, nonostante la locale camera di commercio avesse segnalato che lì i processi civili duravano in media 566 giorni contro i 473 di Sant’Angelo dei Lombardi e che quest’ultimo era l’unico tribunale della provincia in linea con i già mediocri dati nazionali.

Ma nel capoluogo, dove sono affluiti pure dipendenti e magistrati di Ariano Irpino (media per arrivare a una sentenza di primo grado: 651 giorni), non c’è posto per gli archivi dei tribunali soppressi, che sono rimasti dov’erano e sono liberamente consultabili da addetti ai lavori e buontemponi di passaggio.

Il piazzale del tribunale di Sant’Angelo dei Lombardi è deserto e l’unico via vai che si registra è quello degli ufficiali giudiziari del capoluogo, che ogni mattina si inerpicano fino alla vecchia sede per prendere faldoni, intercettazioni telefoniche, materiale sequestrato e altri documenti utili ai magistrati o per le udienze. Sempre che prima di loro nel tribunale incustodito non sia arrivato qualcun altro a far sparire o a danneggiare quel che serve.

Il palazzo di giustizia a Sant’Angelo dei Lombardi, l’11 febbraio 2015. (Andrea Sabbadini, Buenavista Photo)

Giovanni Pagnotta, avvocato e assessore ai lavori pubblici, è uno dei tanti che tutte le mattine si mette al volante della sua auto e va in tribunale ad Avellino. Per questo è a conoscenza di tutti i paradossi creati da questa spending review all’italiana: “C’è un funzionario che ormai ha per ufficio la sua auto, perennemente piena di faldoni che trasporta avanti e indietro da Ariano Irpino”, dice sorridendo senza volerne però rivelare il nome. Al contrario, i cittadini dei paesini dell’Alta Irpinia sono costretti a perdere giornate intere, quando si tratta di avere a che fare con la giustizia.

Il metro di misura dei disagi provocati dall’accorpamento dei tribunali è la distanza che passa da Avellino a Monteverde, un borgo appenninico che ha dato i natali alla madre dell’economista capo della Banca centrale europea, Mario Draghi, e al padre del giornalista Michele Santoro: 130 chilometri di strada provinciale all’andata e altrettanti al ritorno.

Ma c’è pure un altro problema: se le strutture sono rimaste nella disponibilità della giustizia, chi paga per mantenerle in questo stato?

Il comune di Sant’Angelo potrebbe chiedere al ministero il rimborso delle spese e l’affitto, perché i locali non possono essere riutilizzati per altri scopi.

Rosanna Repole, rieletta sindaca nel 2013, era stata nominata d’emergenza allo stesso incarico la notte del terremoto quando si scoprì che l’allora primo cittadino Guglielmo Castellano era rimasto sotto le macerie ad appena 32 anni insieme ad alcuni assessori e consiglieri. Oggi rifiuta il vittimismo e pensa a come riconvertire l’ex tribunale: “Vorremmo trasformarlo in una casa dei diritti, dove garantire sanità e welfare, e su questo chiederemo al governo di contribuire”. Prima, però, bisogna trasferire gli archivi.

Tra letteratura e realtà

Oggi, in Alta Irpinia, per alcuni aspetti la situazione non è migliore di quella che si trovò di fronte Francesco De Sanctis nel gennaio del 1875 quando, dopo l’esperienza come ministro della pubblica istruzione nei governi Cavour e Ricasoli, intraprese un Viaggio elettorale nelle terre dell’infanzia, dove una spiccata tendenza al particulare si saldava con le spinte antiunitarie.

Saltato il tribunale, ridotta a un solo ufficio l’agenzia delle entrate, ridimensionato l’ospedale, andato in crisi il vicino polo industriale dopo la scorpacciata dei fondi del dopo terremoto (è rimasta leggendaria la vicenda della fabbrica di barche a vela sui monti della vicinissima Morra De Sanctis), e chiusa la ferrovia, oggi nessun politico troverebbe ad accoglierlo i contadini affacciati dalle alture e la fanfara, con i giovani delle scuole su un lato della strada e gli operai sull’altro, come accadde al grande critico letterario.

Da questi luoghi si è ricominciato a emigrare, come negli anni cinquanta, quando Ermanno Rea, sulle orme di De Sanctis, raccontò in due puntate sul settimanale Vie Nuove la trasformazione di quel sud interno che l’economista Manlio Rossi Doria aveva definito “la terra dell’osso”, ruvida e montuosa, così diversa da quella della “polpa”, liscia e costiera.

E così la popolazione, ridotta a poco più di quattromila abitanti, continua a calare anno dopo anno e a invecchiare, al punto che ormai le scuole hanno difficoltà a comporre le classi. “Prima arrivavano bus a due piani pieni di studenti, ora basta un pulmino. Fra un po’ rimarrà solo il preside”, ironizza la titolare di un baretto a pochissima distanza dall’istituto commerciale, che fino a qualche anno fa contava settecento alunni.

I dati dell’Istat parlano chiaro: il reddito medio di un abitante di Sant’Angelo dei Lombardi è 7.439 euro all’anno, la disoccupazione è al 16,4 per cento e già agli inizi degli anni duemila, nel suo Viaggio nel cratere oltre un secolo dopo Francesco De Sanctis e a più di quarant’anni da quello di Ermanno Rea, il poeta Franco Arminio immortalava in questo modo la situazione: “Come in tutti i centri storici dell’Irpinia molte case sono chiuse. Quelli che stanno fuori tornano ad agosto, turisti della nostalgia”. Era ancora, a quel tempo, “un paese di uffici”. Oggi non è più vero nemmeno quello.

“Rischiamo di morire di quella che è stata la nostra fortuna negli anni cinquanta e sessanta, vale a dire di essere un centro di servizi per tutta l’Alta Irpinia”, dice la sindaca Repole. L’agenzia delle entrate è stata di fatto chiusa “dalla sera alla mattina, senza preavviso”, e a fatica è stato conservato uno sportello, in un edificio troppo grande da non restituire un’idea di desolazione e abbandono. L’ospedale è stato invece declassato: chiusi i reparti di ginecologia, pediatria e ortopedia, è stata costruita una pista di atterraggio per elicotteri per trasportare gli infermi dal pronto soccorso fino ad Avellino.

Michele Cetta, presidente del comitato in difesa dell’ospedale Criscuoli a Sant’Angelo dei Lombardi, l’11 febbraio 2015. (Andrea Sabbadini, Buenavista Photo)

Quando l’ospedale è stato ridimensionato, tre anni fa, Michele Cetta era vicesindaco. Pure lui ha preso carta e penna e ha scritto a Napolitano per lamentarsi dei tagli: “Nonostante le forti raccomandazioni del ministero della salute di garantire negli ospedali ricadenti nelle zone ad alto rischio sismico il pronto soccorso, la chirurgia e ortopedia nonché assolutamente la banca del sangue”, a saltare sono stati proprio questi. “Qui sono arrivati dalla California a studiare come organizzare l’emergenza in zone ad alto rischio sismico e questi cosa fanno? Tolgono la banca del sangue e chiudono l’ortopedia, i settori in cui eravamo più ferrati. Se accade un nuovo terremoto si rischia un disastro ancora peggiore”, spiega oggi, chiedendosi “com’è possibile non avere la possibilità di mettere in sicurezza un traumatizzato, in un posto così a rischio”.

Ma le assurdità non sono finite. A Sant’Angelo è stato mantenuto un polo riabilitativo: così, per fare un esempio, chi ha un incidente finisce al pronto soccorso, viene portato via in elicottero e poi ritorna a fare la riabilitazione qui. Sempre se il dio Eolo lo consente, perché ai quasi mille metri di Sant’Angelo dei Lombardi, spesso battuto dai venti provenienti dai Balcani e “in zona climatica E, la peggiore”, per almeno sei mesi all’anno non è garantito che gli elicotteri riescano ad atterrare e ripartire.

Un sessantotto delle montagne

Il taglio degli ospedali è legato al piano di rientro sanitario messo a punto dall’ex presidente della regione Campania Stefano Caldoro (Partito delle libertà, Pdl), predecessore dell’attuale governatore Vincenzo de Luca (Partito democratico, Pd).

A saltare o a essere declassate, oltre all’ospedale di Sant’Angelo, sono state diverse strutture, tutte in aree poco abitate ma lontane dalle aree costiere e pianeggianti del napoletano, del casertano e del salernitano, “la terra della polpa” dove si concentra la gran parte dei circa sei milioni di abitanti della Campania. Bisognava ripianare un buco di otto miliardi e l’amministrazione regionale di centrodestra ha affondato il bisturi dove incontrava meno resistenze.

Il problema, per Cetta, è che “hanno fatto la spending review senza un corrispondente piano sanitario”. Il risultato è che ancora oggi centomila persone all’anno vanno a curarsi fuori regione, nascono come funghi laboratori d’analisi privati e cliniche convenzionate, mentre i livelli essenziali di assistenza e il diritto alla salute, come ha fatto notare un dossier dell’Istituto di studi del Cnr sui sistemi regionali federali e sulle autonomie Massimo Severo Giannini, “sono meno garantiti che al nord”.

Solo a Bisaccia c’è stata una mezza rivolta. Dipendenti e cittadini sono saliti sul tetto dell’ospedale per impedirne lo svuotamento e la protesta era guidata da Franco Arminio, che in quell’occasione ha abbandonato la penna per vagheggiare un “sessantotto delle montagne”.

Ma alla fine non c’è stato molto da fare e il paesino dell’Alta Irpinia si è ritrovato senza pronto soccorso. La Cgil fornisce un bilancio devastante dei costi economici e soprattutto sociali della spending review sanitaria: in Irpinia le prestazioni nei servizi ambulatoriali pubblici “sono crollate del 30 per cento” e si calcola che il 16 per cento della popolazione abbia rinunciato a curarsi, anche a causa del contemporaneo aumento dei ticket sanitari e per il fatto che le zone interne sono popolate innanzitutto da anziani che non sanno come spostarsi.

Inoltre, per la Cgil “la chiusura del pronto soccorso a Bisaccia e la parziale disattivazione di quello di Sant’Angelo dei Lombardi ha provocato un ingolfamento ad Avellino, Solofra e Ariano Irpino, in una situazione di carenza di organico” a causa del blocco del ricambio che impedisce nuove assunzioni e costringe a pagare la trasferta ai medici che arrivano da Napoli o da Salerno per garantire i turni di notte.

La sede della caserma dei carabinieri abbandonata dopo il terremoto del 1980, a Sant’Angelo dei Lombardi, l’11 febbraio 2015. (Andrea Sabbadini, Buenavista Photo)

L’ulteriore paradosso è che, chiusi i servizi pubblici, sono saltati anche i trasporti. Sulla tratta ferroviaria “sospesa” nel dicembre 2010 che, attraversando l’Alta Irpinia, portava da Avellino a Rocchetta Sant’Antonio, l’estate scorsa Vinicio Capossela ha organizzato una serie di concerti, mostre ed eventi.

La rassegna è stata intitolata Mi sono sognato il treno. “Ogni mattina gli avvocati, i dipendenti trasferiti e tutti quelli che devono andare ad Avellino per un certificato sono costretti a farlo con la propria automobile, anche perché i servizi di bus privati hanno orari che non rispecchiano le reali esigenze dei lavoratori”, spiega Marco D’Acunto, segretario della locale funzione pubblica Cgil. In definitiva, da Sant’Angelo dei Lombardi oggi è difficile perfino andar via. O ritornare.

La sindaca Repole sostiene che, a questo punto, se non si vuole morire non c’è altro da fare che “svegliarsi e reinventarsi”. Non crede che le lancette della storia possano tornare indietro e rimettere al loro posto il tribunale e l’ospedale, la ferrovia e le migliaia di persone che se ne sono andate a cercare fortuna altrove.

È convinta che “il centro storico sarà riabitato dagli immigrati”. Sant’Angelo dei Lombardi ospita quaranta rifugiati e le panchine del corso sono state ridisegnate da alcuni africani. Saranno loro il futuro di queste terre?

Bidone vuoto con custode

A differenza che a Sant’Angelo dei Lombardi, l’ex tribunale di Sala Consilina un custode ce l’ha. Si chiama Silvano di Benedetto e per vent’anni ha vissuto in un appartamento ricavato all’interno della struttura. Era l’unico sorvegliante, “trecentosessantacinque giorni all’anno”. Quando si assentava si faceva sostituire dalla moglie e in qualche caso dall’anziana madre, che aveva appositamente istruito. Fino al 13 settembre del 2013 la privacy, per lui e la sua famiglia, cominciava con la chiusura del tribunale e finiva alla riapertura.

Silvano Di Benedetto, 59 anni, custode del tribunale di Sala Consilina dal 1997, il 10 febbraio 2015. (Andrea Sabbadini, Buenavista Photo)

“Era un posto che non voleva nessuno e allora chiesero a me, che all’epoca ero un lavoratore socialmente utile”, ricorda oggi. Ma per Di Benedetto era meglio quando la privacy non c’era che ora, messo a guardia di un bidone vuoto. A differenza che a Sant’Angelo dei Lombardi, il tribunale di Sala Consilina è stato trasferito per intero e non ci sono ufficiali giudiziari-corrieri che ogni mattina vanno a ritirare faldoni e documenti vari.

Solo l’ordine degli avvocati ha malinconicamente conservato una stanza per le periodiche riunioni. Quando si vede una luce accesa, nel tribunale, sono loro e non moderni tombaroli di carte giudiziarie come accade nelle stanze incustodite dell’Alta Irpinia.

Troppo vino per una damigiana sola

Nel paese capofila del Vallo di Diano, da un po’ di anni parco nazionale insieme al confinante Cilento, per far capire quanto la situazione sia paradossale si servono di una metafora. Il titolare del bar Coppola, proprio sotto l’ex palazzo di giustizia, la sintetizza così: “Voi mettereste dieci litri di vino in un contenitore da cinque?”.

È infatti accaduto che i 6.600 metri quadrati del tribunale locale sono stati accorpati a quello di Lagonegro, in una struttura di appena 2.500 metri quadrati che ogni giorno si trova a dovee reggere l’impatto di un’utenza di magistrati e avvocati più che raddoppiata. Troppo vino per una damigiana sola, per giunta più piccola, insomma, sintetizzano i cittadini imbufaliti.

Gli avvocati dell’ormai ex ordine di Sala Consilina, che continuano a riunirsi informalmente nella loro vecchia sede all’interno del tribunale dismesso, denunciano che, a causa della mancanza di spazi, a Lagonegro per le udienze spesso non ci sono aule disponibili e la procura della repubblica ha dovuto traslocare in un palazzo vicino. Perfino l’archivio storico è diventato itinerante: dalle stanze del vecchio tribunale del comune salernitano è finito inscatolato nell’ex mattatoio di Lagonegro, e solo dopo due anni è stato trasferito nel nuovo tribunale, dove è tornato consultabile.

A Sala Consilina non hanno dubbi su cosa sia accaduto: si è trattato di una scelta esclusivamente politica e non di merito. Lagonegro, spiegano, è un feudo elettorale della famiglia Pittella: Domenico, il padre, è stato un noto esponente socialista, finito nei guai quando nel 1981 curò clandestinamente nella sua clinica di Lauria la brigatista Natalia Ligas, ferita in un conflitto a fuoco.

I figli, Gianni e Marcello, entrambi del Partito democratico (Pd), sono rispettivamente capogruppo socialista al parlamento europeo e presidente della regione.

Secondo gli oppositori è solo grazie al “pittellismo”, come lo definiscono da queste parti, che la cittadina della bassa Lucania l’avrebbe spuntata su tribunali ben più importanti come quelli di Melfi o della stessa Sala Consilina, dove si rivendica una tradizione giuridica che affonda le radici in tre secoli di storia.

Qui, in un bel palazzo del centro storico, visse Domenico Alfeno Vairo, un importante giurista del settecento che fu anche rettore dell’università di Pavia. Qui, agli inizi del novecento, l’avvocato Giovanni Camera finì a fare il sottosegretario alle finanze nel governo Giolitti. Più avanti, un altro giurista, Alfredo De Marsico – che da ministro di grazia e giustizia nel luglio del 1943 scrisse l’ordine del giorno Grandi che provocò la fine del ventennio fascista – fu cacciato dall’università nel dopoguerra a causa dei suoi trascorsi con il regime (De Marsico si iscrisse al Partito monarchico e fu poi riabilitato da Mario Berlinguer, padre di Enrico).

Ancora oggi, l’ordine degli avvocati può contare su circa 600 iscritti, tra cui il sindaco Francesco Cavallone e il vicesindaco Luigi Giordano, alla guida di una lista civica di centrosinistra.

Uno striscione contro la chiusura del tribunale a Sala Consilina, il 10 febbraio 2015. (Andrea Sabbadini, Buenavista Photo)

Ma la storia è servita a poco. A Matteo Renzi e a Paola Severino è riuscito quello che, dall’inaugurazione nel 1870, era riuscito solo a Mussolini nel 1923: sopprimere il tribunale, per punizione, perché il paese era stato giacobino, massonico, e probabilmente perché, dalla piazza del paese intitolata al re Umberto I ucciso dall’anarchico Gaetano Bresci, Giovanni Amendola il primo ottobre del 1922, alla vigilia della marcia su Roma, aveva invitato il fascismo a far politica a viso aperto e a non considerare il Mezzogiorno “terra di conquista”.

Sala Consilina all’epoca era considerata un feudo del deputato liberale, che poi organizzerà la secessione dell’opposizione sull’Aventino e finirà i suoi giorni in Francia, vittima delle conseguenze di tre aggressioni squadriste. Il regime la utilizzerà solo come luogo di confino per antifascisti e, con un ossimoro, di “internamento libero” per ebrei deportati a sud.

Angelo Paladino, ex sindaco democristiano e avvocato a sua volta, ha ricordato il precedente a Giorgio Napolitano, inviando all’allora presidente della repubblica il decreto con il quale, nel 1947, il guardasigilli Palmiro Togliatti ne stabiliva la riapertura. Ma il richiamo al passato, come a Sant’Angelo dei Lombardi, non ha sortito alcuna risposta.

Paladino non ha dubbi: “Sono riusciti nell’impresa di salvare il tribunale più piccolo e di far chiudere, oltre Sala Consilina, perfino quello di Melfi, che oltre alla Fiat ha notoriamente una criminalità organizzata molto aggressiva”. Come accadde ai tempi del fascismo, c’è una ragione politica che sa di punizione, pensano da queste parti, se è riuscita l’impresa di svuotare la damigiana più grande per farne entrare il contenuto in una più piccola.

Viaggio in Basilicata

Quello che rende unico in Italia il caso di Sala Consilina è però il fatto che il tribunale sia stato accorpato a quello di un’altra regione.

Ogni mattina un piccolo plotone di avvocati, praticanti, agenti delle forze dell’ordine, testimoni, familiari dei detenuti e i quarantasei ex dipendenti trasferiti, s’incolonna sull’autostrada Salerno-Reggio Calabria e varca il confine tra Campania e Basilicata. Con loro ci sono anche gli agenti della polizia penitenziaria inviati da Salerno, novanta chilometri più a nord, per prelevare i detenuti, trasferirli a Lagonegro e poi riportarli a Sala Consilina, dov’è rimasto il carcere, garantendosi una diaria resa più cospicua dall’invio fuori regione.

I paradossi generati da questo caso di giustizia transfrontaliera sono più di uno: oltre agli aumenti di spese per i trasferimenti, quello più importante riguarda le competenze.

Il comitato dei pendolari è arrivato ormai alla seconda generazione

L’avvocato Giordano è prodigo di esempi, dalle diverse legislazioni urbanistiche tra le due regioni alle ispezioni sul lavoro, ma ce n’è uno che rende particolarmente bene l’idea: “Prendiamo il caso di un omicidio di camorra. I carabinieri devono avvisare la direzione distrettuale antimafia (dda) di Salerno, che però per intervenire deve chiedere l’autorizzazione a Lagonegro”. Viceversa, se viene tirata in causa la dda di Potenza bisogna avere l’ok di Salerno. Il morto nel frattempo rimane al suo posto.

“La verità è che questi problemi non se li sono nemmeno posti”, conclude sconsolato il vicesindaco. Con il risultato che i servizi per i cittadini sono peggiorati e l’economia soffre. Paladino ha stimato il collasso in almeno cinque milioni di euro all’anno. “Solo le banche hanno perso depositi fallimentari per quattro milioni”, spiega. A questi va sommato l’indotto economico generato dalle oltre centomila presenze annue e ormai evaporato. Grazie al tribunale, qui vivevano bar e ristoranti, affittacamere e commercianti vari.

Sotto gli ulivi dell’agriturismo Macchiapiede, Enzo Vespoli allarga le braccia: ai tavoli della vecchia masseria dei genitori contadini che ha trasformato in trattoria non si vedono più avvocati in pausa pranzo e neppure magistrati. “In un anno abbiamo calcolato una perdita di almeno trentamila euro”, dice.

Lungo il corso centrale (intitolato a un altro giurista ottocentesco, Giuseppe Mezzacapo, divenuto deputato nell’Italia postunitaria) e nelle vie attorno alla piazza principale è un susseguirsi di serrande abbassate e cartelli vendesi o affittasi, la disoccupazione è al 21 per cento, quella giovanile al 50 e i call center elargiscono paghe che non superano i trecento euro al mese, come in un paese dell’Europa dell’est.

Chi può, cervelli o braccia che siano, se ne va, come negli anni cinquanta, al punto che la curva demografica ha preso a invertirsi e lo scorso anno il saldo tra nascite e morti è stato negativo.

Sono cifre impressionanti, in un centro dove trent’anni fa la situazione economica era migliore di quella attuale: nel 1991 il reddito familiare fotografato dal Censis era stimato in 17 milioni di lire, oggi è di appena 13.800 euro. Neppure il treno passa più, come a Sant’Angelo dei Lombardi. La linea che portava a Lagonegro, a sud, e a nord verso Salerno è stata “sospesa” nel 1986 per lavori di elettrificazione mai cominciati e nel frattempo è stata devastata dall’incuria.

Il comitato dei pendolari è arrivato ormai alla seconda generazione, Legambiente ha piantato una bandiera davanti a una delle due vecchie stazioni cittadine dismesse, l’ex sindaco Gaetano Ferrari (appena rinviato a giudizio per interruzione di pubblico servizio perché il 13 settembre del 2013 aveva rifiutato di consegnare le chiavi del tribunale per consentirne il trasloco) ha dovuto perfino affrontare un processo (in cui è stato assolto) per aver fatto asfaltare un binario arrugginito perché la linea ufficialmente non è stata “soppressa” e dunque non si può toccare, ma tutto rimane nel più desolato abbandono.

Una miniera ancora tutta da esplorare

Alla stazione di Silla-Sassano i lucchetti sono stati forzati e l’edificio, come pure una sorta di capanna-tugurio senza porte e finestre costruita all’esterno, dà segno di essere occupata, forse da immigrati al lavoro nelle campagne vicine.

Nell’auditorium cittadino una mostra ricorda i bei tempi della strada ferrata. I curatori, Antonio Carlomagno e Michele Esposito, hanno scartabellato tra gli archivi comunali ricostruendo un secolo esatto di storia: dalle proteste dei proprietari terrieri per gli espropri, alla fine dell’ottocento, all’appello al Comitato di liberazione nazionale a rimettere in sesto la linea all’indomani del 25 aprile.

Potrebbe sembrare che a Sala Consilina si viva di nostalgie, un po’ come nell’Irpinia descritta da Arminio, ma il problema è che negli ultimi anni da queste parti è collassato tutto e allora c’è chi prova a resistere prendendo lezioni dal passato e coltivando la memoria.

Carlomagno è una mosca bianca: è uno dei pochissimi cervelli a essere tornato e sta mettendo a frutto i suoi studi di ricercatore a Pisa, risistemando gli archivi del comune. È stato lui a costruire la mostra sulla ferrovia, meno pop di quella di Capossela ma non meno interessante. Difficile, per lui, riabituarsi a questo Mezzogiorno, che però, ammette, “è una miniera ancora tutta da esplorare”.

Fino a qualche anno fa l’economia del paese si reggeva fondamentalmente su tre settori: il pubblico, il polo automobilistico e l’edilizia. Se il primo non è sopravvissuto ai colpi della spending review, gli altri due non sono messi meglio. Su sedici concessionarie di auto (tra cui l’unica Ferrari per il sud Italia, perfino la Rolls Royce), un numero imprecisato di officine autorizzate e un fiorente mercato dell’usato, ne sono rimaste in vita appena un paio. Pure il mercato immobiliare è fermo: sui circa settantamila abitanti dell’intera vallata, gli immobili censiti sono 33mila, con l’effetto di avere più case che cittadini. Il pil locale è pertanto franato, solo le organizzazioni malavitose hanno denaro, sporco, da riciclare e nessuno sa come uscirne.

Ma la nuova frontiera del governo Renzi per questo pezzo di Mezzogiorno è quella del petrolio

In realtà qualcuno che sta provando a inventarsi qualcosa di nuovo c’è, sia pure, ancora una volta, rivolgendo lo sguardo al passato. Mimmo Calicchio, con l’associazione Terra nuova, è alla testa del progetto Orti di Sala per recuperare gli antichi saperi contadini.

“È questo il nostro petrolio”, dice alludendo a quello che potrebbe accadere ora che è lo Sblocca Italia è diventato legge. L’ennesimo miraggio di questo pezzo di sud Italia è quello di trasformarsi da venditori di auto in produttori di petrolio, un po’ come i calzolai che diventavano industriali della scarpa nella Vigevano anni sessanta di Lucio Mastronardi.

Ci aveva già provato alla fine degli anni novanta la Texaco, ma a fermarla fu un’imponente mobilitazione popolare di fronte alla quale servirono a poco le pubblicità subliminali fatte passare sui mezzi d’informazione locali e le conferenze stampa per tranquillizzare l’opinione pubblica.

I sindaci della zona si incatenarono davanti alla vicina Certosa di Padula, Calicchio fu incoronato leader della protesta e da allora è impegnato nel recupero dell’unica attività che, a suo dire, potrebbe risollevare il paese: l’agricoltura, “il nostro petrolio verde”.

Anche nei giorni della chiusura del tribunale, nel settembre del 2013, ci sono state vigorose proteste. Gli avvocati sono saliti sul tetto, centinaia di cittadini hanno bloccato le strade per impedire il trasloco e un uomo si è cosparso di benzina minacciando di fare il bonzo. Ma non ha impietosito nessuno. Sbollita la protesta, il tribunale è stato smontato come una fabbrica in dismissione e una carovana di scatoloni e scartoffie ha preso la via della Basilicata. Nella frenesia del trasloco pare sia sparita pure l’unica chiave che Silvano di Benedetto, ben consigliato, si era rifiutato di custodire: quella del deposito di armi e droga.

Al comitato per il tribunale sono convinti che prima o poi il fallimento delle politiche di austerità sarà evidente e allora il palazzo di giustizia potrà tornare al suo posto (come all’indomani del fascismo) là dove oggi continuano a sventolare due bandiere erose dal sole e dalle intemperie: una italiana e l’altra europea.

L’amministrazione comunale ci crede un po’ meno e pensa di riconvertire la struttura portandoci il distretto sanitario. Due interrogazioni parlamentari, una alla camera firmata da Simone Valiante (Pd) e un’altra al senato il cui primo firmatario è Enrico Buemi (Pd), chiedono di riaprire la partita dei tribunali minori soppressi.

Ma la nuova frontiera del governo Renzi per questo pezzo di Mezzogiorno oggi è quella del petrolio. Sarà l’ennesima illusione per queste terre senza giustizia e senza ferrovia?

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