Si dice di un giovane beneducato che è coltivato, e s’immagina la sua anima arata da retti insegnamenti, irrorata e diserbata. Eppure quanto bisogno di selvaggio c’è nella nostra anima? Accompagno degli amici in uno dei luoghi che mi sono più cari al mondo, l’Ara della regina sulle colline attorno a Tarquinia. La desolazione è evidente: un altro monumento archeologico abbandonato a se stesso. Eppure c’è un gran viavai. Uomini e donne vagano per la valle dell’Ara, tra le antiche pietre sacre: all’inizio li crediamo tombaroli, poi ci accorgiamo che sono raccoglitori di erbe. Finferli, finocchietto, asparagi, ogni stagione ha la sua ricerca. Siamo in una delle poche aree incolte dove è ancora possibile trovare erbe selvatiche. I raccoglitori mi spiegano che anche l’area archeologica di Tuscania, o i dintorni della necropoli di Cerveteri, grazie all’incuria si sono trasformate in fantastiche selve dove trovare tesori selvaggi. Sono sicura che se questo luogo fosse beneducato, ci fosse un recinto e si dovesse pagare un biglietto, molti di loro non sarebbero qui. Invece ci sono, e mentre raccolgono guardano, sentono. San Francesco raccomanda di lasciare una parte selvaggia nell’orto: l’erbaccia di oggi potrebbe rivelarsi la medicina di domani. Si alza un volo di uccelli. I raccoglitori levano il capo. Forse non diversamente da come fecero gli etruschi quando decisero di costruire questo tempio.

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Questo articolo è uscito sul numero 1552 di Internazionale, a pagina 14. Compra questo numero | Abbonati