Rispetto alla scuola del passato – fredda, severa, dove non c’era spazio per le domande e tutto s’imparava a memoria a suon di bacchettate – è certo bella la scuola di oggi, che mette al centro la comprensione, la partecipazione, l’interesse degli studenti. Se poi però una materia non t’interessa, non riesci più a studiarla. Ma allora, cos’è lo studio? In un bellissimo saggio pubblicato in Attesa di Dio , Simone Weil ci ricorda che lo studio serve a sviluppare l’attenzione, e quasi non importa cosa si studia, va bene anche un esercizio matematico che risulta incomprensibile. “Senza che lo si avverta o lo si sappia”, scrive Weil, “quello sforzo in apparenza sterile e infruttuoso ha portato più luce nell’anima. Un giorno se ne ritroverà il frutto (…) in un qualsiasi ambito dell’intelligenza, magari del tutto estraneo alla matematica”. L’attenzione di cui parla Weil è quella che ci permette di sospendere il nostro pensiero e diventare disponibili, permeabili e accoglienti. Studiare quindi è il contrario di sé: è uscire da sé, e forse è una delle poche occasioni che ci restano, in una società senza preghiere, per fare questa esperienza. Per un periodo della mia vita, ogni due settimane ho imparato a memoria delle poesie che mi ero fatta assegnare da altri. Le ho ripetute diligentemente, anche con fatica e noia. Molte di quelle poesie le conosco ancora a memoria, e molte ancora non le ho capite, ma mi accompagnano attentamente.

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Questo articolo è uscito sul numero 1554 di Internazionale, a pagina 14. Compra questo numero | Abbonati