Nel 1923, Viktor Šklovskij pubblicò Zoo o lettere non d’amore, un romanzo sugli esuli russi a Berlino, chiusi nei bar a parlare di guerra e sentimenti. Nel libro è respinto da Alja Kagan che gli dice: “Se vuoi che ti risponda, scrivimi tutto, fuorché d’amore”. È il rovescio di Annarella, “non dire una parola che non sia d’amore”. Durante il concerto dei Cccp all’Astra Kulturhaus di Berlino, noi spettatori siamo Šklovskij: molti sono esuli in Germania. Riempiamo i bar, fuori c’è una guerra e stiamo per essere attratti e respinti da Giovanni Lindo Ferretti al massimo dei poteri: sacerdotale come sempre, ma quasi felice.

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Gli italiani, come i russi cento anni prima, ricreano un microcosmo nazionale tra la sagra di paese, la festa dei diciott’anni e la clausura in un centro sociale sul punto di essere sfrattato. E c’è pure la messa: pare che gli altri stiano pogando, in realtà hanno le mani giunte in una preghiera. Strana cosa, l’ortodossia. Eppure non c’è un solo accordo, un solo brano che sia vecchio: in quarant’anni di rivisitazioni e seconde volte, i Cccp restano indissolubilmente la prima. L’unica promessa che non possono rispettare è far sì che pure il mondo sia quello di prima, e infatti l’evento sta per essere divorato dalla sua stessa mitologia. Fischiare il giornalista Andrea Scanzi che fa un intervento inutile o battergli le mani per “accettare” l’inconsistenza della protesta, è la stessa cosa. Il senso di assolutezza del conflitto neanche i Cccp possono ridarcelo. Nessuna provocazione, solo una terapia, solo una terapia: e di che dobbiamo parlare, se non d’amore. ◆

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Questo articolo è uscito sul numero 1552 di Internazionale, a pagina 86. Compra questo numero | Abbonati