Pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà. Questa splendida formula è di Antonio Gramsci, ma a leggere in Passato e presente il breve paragrafo intitolato “Pessimismo e ottimismo”, si scopre che lui dell’ottimismo – pur avendolo tirato in ballo come una scelta volenterosa – non ha una buona opinione. L’ottimismo – dice – è un modo di difendere la propria pigrizia e le proprie irresponsabilità, è una forma di fatalismo e di meccanicismo. L’ottimista – continua – conta su fattori estranei all’operosità e brucia di un sacro entusiasmo che non è altro che esteriore adorazione di feticci. “Il solo entusiasmo giustificabile”, conclude, “è quello che accompagna la volontà intelligente, l’operosità intelligente, la ricchezza inventiva in iniziative concrete che modificano la realtà esistente”. Risulta insomma inconcepibile, nel lessico gramsciano, un ottimismo dell’intelligenza. Di rigo in rigo, quanto più diventa intensa, martellante, la parola “intelligente”, tanto più la parola “ottimismo” perde terreno, fino a essere sostituita da un particolare tipo di entusiasmo che si associa all’urgenza di capire e agire di conseguenza. Pare quasi – specie di questi tempi – che la volontà intelligente, l’operosità intelligente rivolte a modificare il mondo immondo con iniziative concrete, possano accompagnarsi soltanto a un fantasioso, entusiastico pessimismo.

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Questo articolo è uscito sul numero 1529 di Internazionale, a pagina 16. Compra questo numero | Abbonati