Giuseppe Quaranta
La sindrome di Ræbenson
Blu Atlantide, 272 pagine, 18 euro

Nel 1960 Normann Mailer dà una festa nel suo appartamento di New York durante la quale, dopo essersi ubriacato e aver attaccato briga con buona parte degli invitati, riduce in fin di vita sua moglie con due pugnalate. Mailer dirà poi che si era liberato da un accumulo di sentimenti. Mi è tornato in mente quel fatto leggendo La sindrome di Ræbenson, forse per come quel gesto misogino fu invece interpretato come espressione creativa da una fetta del circolo intellettuale newyorchese, facendo riferimento anche ad alcune teorie dello psicanalista Wilhelm Reich sul rapporto tra corpo e psiche. Il romanzo di Quaranta, come la narrazione di quell’evento, s’incunea nel pertugio di ambiguità del subconscio, tra l’io e l’altro, tra realtà e finzione, sanità e follia. Protagonista è uno psichiatra che presenta sintomi – amnesia, mancamenti, eterocromia dell’iride, alterazione della vista – che secondo lui sono riconducibili a una malattia sconosciuta. Tutti pensano a una fragilità mentale, tranne il narratore, amico e collega, che ne segue la sintomatologia e l’evoluzione. Il romanzo è inclassificabile, lo stesso aggettivo con cui è descritto il protagonista: s’incurva intorno a considerazioni filosofiche, citazioni intellettuali, fotografie, metanarrativa, accademia. Quello di Quaranta, scrittore e psichiatra, è un esordio colto, estetico, dal fascino novecentesco. ◆

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Questo articolo è uscito sul numero 1537 di Internazionale, a pagina 104. Compra questo numero | Abbonati