07 ottobre 2014 16:35

Il 29 settembre al caffè Qadosh, nel centro di Gerusalemme, ho incontrato una donna che mi aveva contattato una settimana prima. Voleva vedermi con urgenza per parlare di un abitante della Striscia di Gaza.

La donna è un’avvocata israeliana. Suo padre vendeva automobili e, tra gli anni settanta e novanta, quando la Striscia non era ancora una prigione, aveva conosciuto molti abitanti di Gaza. Un suo socio d’affari palestinese era stato truffato da un cliente israeliano. L’avvocata aveva denunciato l’uomo presso un tribunale israeliano e dopo quattro anni di battaglie legali aveva ottenuto un risarcimento. Il socio palestinese, che viveva a Gaza, avrebbe dovuto raggiungere Israele per ritirare un assegno, ma nel frattempo era diventato molto difficile lasciare la Striscia.

Un giorno l’avvocata si è resa conto di non avere notizie del suo cliente da vent’anni (anche se aveva cercato più volte di contattarlo). Per farla breve, ho chiamato un amico di Gaza e gli ho chiesto aiuto. Dieci minuti dopo mi ha richiamato e mi ha dato i nuovi contatti dell’uomo. Quando l’avvocata lo ha chiamato, lui le ha spiegato che non pensava che la somma fosse così alta, e che comunque si fidava di lei, come in passato si era fidato di suo padre. Presto riceverà i soldi, blocco israeliano permettendo.

Morale della favola: un tempo a Gaza ebrei e palestinesi intrattenevano relazioni basate sulla fiducia. E la chiamavano occupazione.

Traduzione di Andrea Sparacino

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