08 marzo 2016 12:40

L’Europa vuole chiudere la rotta balcanica: alzerà un muro in Macedonia, pattuglierà l’Egeo con navi da guerra e riporterà indietro tutti quelli che proveranno ad attraversare il mare. Come in una guerra, i leader europei hanno deciso di difendere i confini del vecchio continente dai profughi.

Negli ultimi mesi abbiamo visto famiglie di siriani, iracheni, afgani camminare instancabili attraverso i confini dell’Unione europea, per un momento abbiamo pensato anche di essere capaci di accoglierli: i loro progetti, le loro storie, le loro vite in fuga dalla guerra, dai barili bomba di Bashar al Assad, dalle autobombe del gruppo Stato islamico, dai bombardamenti turchi nel Kurdistan siriano. Per un attimo abbiamo pensato che potevamo accoglierli, poi abbiamo deciso di trattarli da truppe nemiche, eserciti invasori.

Nel 2015 è entrato un milione di profughi in Europa. Se si pensa che la popolazione europea è di 508,2 milioni di persone la cosiddetta crisi si ridimensiona: i profughi rappresentano l’1,7 per cento della popolazione europea. Nella direzione dell’accoglienza andava la scelta di ricollocare 120mila richiedenti asilo all’interno dell’Unione europea in base a un sistema di quote: un progetto che è fallito, insieme alla promessa di riformare il regolamento di Dublino e di lavorare a una legislazione comune sull’asilo.

Chiudere la rotta balcanica vuol dire fare della Grecia una gabbia

Se Bruxelles ha faticato a trovare una linea comune sull’accoglienza, quella della durezza è stata una scelta molto più facile da condividere. Al summit del 7 marzo si sono sentite poche voci fuori del coro. La priorità dei 28 leader dell’Unione europea è quella di ristabilire Schengen, riaprire le frontiere interne, sedare i populismi in patria, mostrare a un’opinione pubblica spaventata di saper usare il pugno di ferro contro i migranti, dipinti come un pericolo pubblico, capro espiatorio perfetto in ogni campagna elettorale, da Budapest a Roma.

Chiudere la rotta balcanica, fare della Grecia una gabbia, un limbo per chi ha provato a passare e invece ora rischia di essere respinto. Rimandare indietro tutti: i migranti economici, i profughi afgani, le famiglie siriane. Questi sono i pilastri della nuova intesa tra Ankara e Bruxelles che è stata abbozzata il 7 marzo e sarà finalizzata il 17 marzo. Non importa se in Turchia le violazioni dei diritti umani sono diffuse. L’Europa ha deciso di considerare la Turchia un paese sicuro e di affidarle il compito più delicato: il rimpatrio dei migranti che non riusciranno a ottenere un visto umanitario.

Lo stesso giorno in cui in Turchia il quotidiano Zaman è tornato in edicola, dopo l’epurazione del direttore e il commissariamento della redazione per mano del governo, il premier turco Ahmet Davutoğlu si è presentato a Bruxelles a battere cassa.


Per fermare l’arrivo dei profughi sulle coste greche la Turchia ha chiesto all’Europa tre miliardi di euro in più rispetto a quelli già previsti, per un totale di sei miliardi. E le richieste di Ankara non sono finite: liberalizzazione dei visti per i cittadini turchi che vogliono venire in Europa e ricollocamento attraverso canali umanitari dei 2,7 milioni di profughi siriani che si trovano al momento sul suo territorio. I leader europei sono pronti a tutto, e questa volta non hanno fatto nessuna obiezione alle strabordanti richieste di Ankara. Certo è che la collaborazione della Turchia costerà cara, e non è detto che la lista delle richieste non continui ad allungarsi.

I profughi cercheranno altre strade

Mentre l’Europa dovrà spiegare al mondo intero che è possibile derogare alla convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951, i profughi continueranno a scappare da Aleppo, da Damasco, da Kobane. E quando si troveranno davanti muri, recinzioni, navi da guerra e filo spinato, cercheranno altre strade, forse più pericolose. Molti si affideranno ai trafficanti, alla criminalità organizzata che in questi anni ha fatto affari d’oro.

Si apriranno altre rotte, altri percorsi: probabilmente arrivare in Europa diventerà più costoso e più pericoloso. Moriranno in molti cercando di raggiungere il continente che ha inventato i diritti umani e ha scritto alcune delle costituzioni più belle della storia. Alcuni desisteranno e rimarranno nei campi profughi in Turchia, dipendenti dagli aiuti umanitari, senza nessuna garanzia che i loro diritti fondamentali siano tutelati.

Sono passati sei mesi dalla morte di Alan Kurdi, sembra un secolo. Il 2 settembre 2015 tutte le redazioni si sono fermate davanti alla foto del bambino curdo siriano morto annegato durante la traversata dell’Egeo e ritrovato dalla guardia costiera turca sulla spiaggia di Bodrum. Dobbiamo pubblicare quella foto, dicevano in tanti, i leader politici non possono più voltarsi dall’altra parte di fronte alla morte di un bambino di tre anni. Quel bambino rannicchiato sulla sabbia come se dormisse doveva diventare l’immagine della nostra umanità ritrovata. Sei mesi dopo è il simbolo della nostra ipocrisia.

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