16 gennaio 2015 11:00

L’arresto del comico e polemista Dieudonné il 14 gennaio vicino a Parigi per “apologia del terrorismo” per aver scritto sulla sua pagina Facebook “Io sono Charlie Coulibaly” (commento poi rimosso) dopo l’attacco contro Charlie Hebdo, ha provocato un acceso dibattito in Francia.

Proprio mentre milioni di francesi sono scesi in piazza affermando “Io sono Charlie” per sostenere tra l’altro che la libertà di espressione non era negoziabile, il controverso Dieudonné è incappato nelle maglie delle leggi che ne puniscono gli abusi. Non è l’unico, va detto: in tutto una cinquantina di persone sono state arrestate nell’ultima settimana per aver in qualche modo violato la legge o, accusano alcuni, derogato al consenso nazionale che si è creato intorno a Charlie Hebdo.

Non è la prima volta che Dieudonné ha a che fare con la giustizia per le sue dichiarazioni. Condannato e con un processo in corso per delle frasi antisemite, il comico è tuttora oggetto di un’inchiesta per apologia del terrorismo dopo alcune sue dichiarazioni sulla decapitazione del giornalista statunitense James Foley da parte dell’organizzazione Stato islamico, ricorda Libération. Il governo e le amministrazioni comunali, peraltro, hanno fatto vietare diversi suoi spettacoli a causa del carattere antisemita delle battute.

Quello che Dieudonné denuncia come una forma di accanimento è quindi, come si chiedono in tanti, la dimostrazione che ci sono due pesi e due misure in Francia per quanto riguarda la libertà di espressione? Perché Charlie Hebdo è considerato il paladino di questo diritto, mentre Dieudonné è regolarmente bastonato?

In realtà, sottolinea Le Monde, “questa polemica è pericolosa”, perché la stessa legge che garantisce la libertà di stampa ne fissa i limiti: “Ingiuria, diffamazione, difesa degli interessi fondamentali della nazione, apologia dei crimini di guerra e contro l’umanità, provocazione alla discriminazione, all’odio o alla violenza contro le persone per motivi di razza, etnia o religione” e, dal 2014, “apologia del terrorismo”. Nessun problema quindi con la blasfemia, ma non si insultano i credenti in quanto tali, né si tratta quindi della libertà assoluta di dire e pubblicare ciò che si vuole.

La questione si complica nel caso della satira: trascinato in tribunale da alcune associazioni musulmane per aver pubblicato le “vignette sataniche”, Charlie Hebdo era stato assolto nel 2007 e nel 2012. La corte aveva ritenuto che “il genere letterario della caricatura […] fa parte della libertà d’espressione e di comunicazione dei pensieri e delle opinioni” e che “malgrado il carattere scioccante, addirittura offensivo, delle caricature per la sensibilità dei musulmani, il contesto e le circostanze della loro pubblicazione appaiono escludere ogni volontà deliberata di offendere direttamente e gratuitamente l’insieme dei fedeli”. Ugualmente Dieudonné era stato assolto nel 2005 per uno sketch nel quale interpretava un ebreo ortodosso. Globalmente entrambi hanno vinto e perso diversi processi (Charlie più vinti che persi, Dieudonné più persi che vinti).

Ma una differenza rimane. Secondo un avvocato specializzato intervistato dalla Libre Belgique, Charlie Hebdo “non è mai stato condannato per incitazione all’odio, giustamente: non prende in giro i musulmani, ma le credenze, i dogmi o le autorità politiche”. Mentre quando Dieudonné “sostiene che la nostra società è decadente a causa degli ebrei e degli omosessuali senza distinzione e invita gli spettatori a fischiare delle personalità ebraiche, si tratta di istigazione all’odio”.

La polemica non si limita in realtà alla sola Francia: sul suo sito, The Intercept, Glenn Greenwald accusa l’occidente e la Francia in particolare di usare un doppio standard. Nei giorni successivi all’attentato contro Charlie Hebdo era evidente l’imbarazzo dei mezzi d’informazione anglosassoni, e in particolare statunitensi, costretti a fare acrobazie editoriali (con annesse polemiche interne, come al New York Times) o visive per raccontare, senza mostrarla, la copertina dell’ultimo Charlie Hebdo in nome dell’esigenza di “non urtare la sensibilità” o “il sentimento religioso” dei lettori e degli spettatori, a scapito del loro diritto all’informazione. Un atteggiamento paternalista e bigotto agli antipodi dello spirito di Charlie.

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