27 luglio 2016 14:59

Caro dottore,
vinco la mia ritrosia e le rivelo una mania che ho tenuto nascosta a parenti e amici per anni, direi da quando ho cominciato a leggere libri. Cerco di fargliela breve: ho un’enorme diffidenza nei confronti degli scrittori (di romanzi, in particolare) vivi. Per anni ho letto solo romanzi di morti. Crescendo, poi, ho amato molti romanzi contemporanei, e alcuni li considero pure dei capolavori. Ma gli autori, quelli devo immaginarmeli morti! Altrimenti provo una sorta di imbarazzo misto a senso di colpa che mi impedisce di godere della lettura. Che voglia semplicemente mantenere una certa distanza, esigendo da uno scrittore una prova di autorevolezza che l’avvenuto decesso mi pare possa offrire? Si spiegherebbe in termini simili, ora che ci penso, anche la mia predilezione, tra gli scrittori contemporanei, per gli stranieri. Oppure mi serve un’autorità superiore che mi assicuri che questi scrittori sono entrati nel canone della letteratura, e non mi fido dei critici di oggi che parlano degli autori di oggi? È che, con tutti i capolavori scritti nella storia della letteratura, mi sembra un po’ immorale buttarmi sugli ultimi arrivati. La vita è così breve! È grave, dottore? O posso crogiolarmi in questa strana forma di snobismo? La prego, mi aiuti.

—Emanuela C.

Cara Emanuela,
come Hercule Poirot in Assassinio sull’Orient-Express ti prospetterò due soluzioni, la prima più rassicurante, la seconda più tenebrosa. Lascio a te di scegliere l’una o l’altra, o una combinazione delle due.

Nelle Postille a Il nome della Rosa Umberto Eco lascia cadere una frase piuttosto jettatoria: “L’autore dovrebbe morire dopo aver scritto. Per non disturbare il cammino del testo”. Ora, non dico che lo si debba intendere alla lettera, e pretendere che tutti gli scrittori pratichino quella via del “suicidio dopo aver corretto le bozze” che da Carlo Michelstaedter arriva a Édouard Levé; ma è pur vero che molte specie animali hanno il buon gusto di togliersi di mezzo appena sbrigate le incombenze della riproduzione, come certi salmoni (se fossi un etimologista medievale direi che il loro nome vuol dire “grosso cadavere”).

L’autore è spesso d’intralcio, non sa dire più di quanto abbia saputo scrivere, propone autoesegesi scialbe e fuorvianti, o è così deludente da togliere prestigio alla sua creatura. E la scelta di non rincorrere le novità mi pare segno di buona salute perché – lo scrisse Jonathan Swift in un’epoca in cui l’industria editoriale non era ancora in vistosa crisi di sovrapproduzione – “dei settemila scritti attualmente prodotti in questa rinomata città, prima che il sole abbia compiuto la prossima rivoluzione, non resterà l’eco di alcuno”.

“Mi dispiace signore, ma Dostoevskij non è considerato una lettura estiva. Devo chiederle di seguirmi”. (Steiner, The New Yorker)

Per la risposta più tenebrosa mi rifaccio all’autorità scorbutica di E.M. Cioran: “Ogni contemporaneo è odioso. Ci rassegniamo alla superiorità di un morto, mai a quella di un vivo, la cui esistenza stessa costituisce per noi un rimprovero e un biasimo (…). Soffochiamo, vicino ai nostri emuli o ai nostri modelli: che sollievo davanti alle loro tombe! Il discepolo stesso respira e si emancipa soltanto alla morte del maestro” (lo stesso meccanismo produce effetti capovolti nella comunità accademica: un barone riverito in vita scompare misteriosamente dalle bibliografie il giorno stesso del suo funerale). C’è in giro qualcuno più bravo di noi? “Sparisca, si allontani, crepi insomma, perché possiamo venerarlo senza strazio né acrimonia, perché cessi il nostro martirio!”.

Meglio ancora di Cioran l’ha messa René Girard: Don Chisciotte può venerare senza strazio il leggendario Amadigi di Gaula perché non ha occasione di entrare in rivalità diretta con lui; ma quando prendiamo a modello un contemporaneo, il terrore che occupi il nostro stesso spazio vitale fa germinare ogni sorta di passioni tristi. Ecco perché preferiamo i morti e gli stranieri, e più ancora gli stranieri morti.

Non so se tu abbia ambizioni letterarie, se dunque questo tipo di rivalità ti sia familiare; ma vedo che confessi “una sorta di imbarazzo misto a senso di colpa”. È ciò che i tedeschi chiamano fremdschämen e gli spagnoli vergüenza ajena, il vergognarsi per qualcosa che vediamo fare a un altro. Anche qui, ho due risposte possibili.

La prima è più rassicurante: è una reazione sana, e qualunque persona con la testa a posto abbia assistito ai discorsi dei vincitori (e dei perdenti, poi!) di un premio letterario prova l’istintivo bisogno di cacciarla sotto la sabbia, quella testa. Ma c’è una seconda risposta, più cupa. Conosci l’imbarazzo che, in molte persone timide, provoca lo spettacolo degli amici che a Ferragosto fanno il bagno nudi? Nessuno l’ha descritto meglio di Gadda, turbato alquanto dalla “follia narcissica di un erotomane”:

Quando si fu alla battima da bagnarvi i piedi, un di noi, il folle, subito e’ corse un poco più avanti nel mare, e co’ i’ pretesto che senza mutandine te vi diguazzi meglio, in Tirreno, si ignudò: e le iscagliò a noi per palla. Orrorose enormità si palesarono ai poverini, bimbini e matrone ch’erano a pasticciare di arena con le lor pale, o ad ammollare come natanti pachidermi in quel punto. E lui si pavoneggiava felice, di certo pensando che i danesi, che gli svedesi, i norvegesi, i naturisti, i nudisti, così fanno. Ma qui s’era ad Ostia con gente di Porta Portese: e avevi poco a ignudarti, a fare il bullo naturista alla norvegese.

Ecco, per molti di noi il romanziere – bravo, meno bravo, pedestre, atroce: non conta – è un bullo naturista che ha la vitale spudoratezza di far qualcosa che non faremmo mai, esibire cioè le proprie fantasticherie. I bagnanti di Gadda “gli riscagliaron a palla le mutandine nel viso”, che è gesto di poco dissimulata violenza ma tutto sommato più blando di un omicidio. Io però avrei trovato altrettanto sano se si fossero buttati anche loro in acqua, alla norvegese: che sarà mai. “Orrorose enormità”, aggiungo di passaggio, sarebbe l’epitaffio perfetto per molti ponderosi romanzi italiani degli ultimi anni.

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