17 ottobre 2016 16:11

E se la cosa più difficile non fosse la riconquista di Mosul ma quello che verrà dopo? La domanda può sembrare assurda ora che una coalizione eterogenea ha lanciato, il 16 ottobre, l’offensiva per riprendere la grande città del nord dell’Iraq, caduta nel 2014 nelle mani del gruppo Stato islamico (Is). Eppure questo interrogativo condiziona più in generale l’esito dello scontro con i jihadisti in questa parte del Medio Oriente.

Del resto basta osservare la storia recente dell’Iraq per capire quanto sia importante il “giorno dopo”. Il generale David Petraeus – ex comandante delle forze statunitensi in Iraq e in Afghanistan, ed ex direttore della Cia – l’ha espresso in modo chiaro alla rete televisiva Abc: “Le forze irachene vinceranno con il nostro sostegno, non c’è alcun dubbio sull’esito dei combattimenti. Ma in realtà la sfida arriverà dopo, per la successiva guida del paese”.

La sfida principale è non ripetere i gravi errori commessi dagli Stati Uniti in seguito alla loro facile vittoria su Saddam Hussein nel 2003, e che incidono pesantemente sulla situazione di caos in cui versa il Medio Oriente da più di un decennio. Di fatto, la decisione dell’amministrazione provvisoria statunitense di sciogliere l’esercito, l’amministrazione e il partito Baath iracheno, gettando milioni di persone fuori del “sistema”, aveva permesso a Saddam Hussein di continuare a mantenere il potere.

Nelle braccia dei jihadisti
Si trattava per lo più di musulmani sunniti, che si sono trovati emarginati in un Iraq ormai nelle mani della maggioranza sciita, soprattutto negli anni in cui il paese è stato diretto in modo settario dal primo ministro Nuri al Maliki (2006-2014). In questo modo il governo iracheno aveva gettato nelle braccia dei jihadisti tanti sunniti che si sentivano vittime del “revanscismo” sciita, in una regione sempre più caratterizzata da questa rivalità tra i due rami dell’islam. Molti ufficiali vicini al partito Baath sono quindi entrati nell’orbita dei jihadisti, impegnati nella creazione del gruppo Stato islamico.

Nei giorni precedenti l’avvio della “battaglia di Mosul” sono arrivati sul fronte numerosi elementi delle milizie sciite irachene con i vessilli di Ali, il genero e cugino di Maometto all’origine dello “scisma” del settimo secolo. In passato, queste milizie sostenute dall’Iran sono state accusate di violenze durante la riconquista delle città cadute nelle mani dei jihadisti.

La storia di questa città molto antica fornisce alcune chiavi della ‘guerra nella guerra’ che si svolgerà nei prossimi mesi

Ma è soprattutto il contesto politico a incidere pesantemente sul “dopo” Mosul. Questa città di circa un milione di abitanti, la stessa in cui il capo dell’Is Abu Bakr al Baghdadi aveva proclamato nel 2014 la nascita del suo “califfato” dei tempi moderni, è al centro degli interessi e delle ambizioni di tutti gli attori regionali: la Turchia, la regione autonoma curda, l’Iran e ovviamente il governo centrale iracheno.

La storia di questa città antica fornisce alcune chiavi della “guerra nella guerra” che si svolgerà nelle prossime settimane e nei prossimi mesi. Sotto controllo ottomano, Mosul era stata promessa alla Francia nei cosiddetti accordi segreti di Sykes-Picot conclusi tra la Francia e il Regno Unito nel 1916. Accordi che tracciavano i confini del futuro Medio Oriente dopo la dissoluzione dell’impero ottomano. Ma Georges Clémenceau accettò di “offrire” Mosul agli inglesi in cambio del controllo francese sulla Siria e sul Libano, contestato da una parte dell’establishment a Londra a cominciare dal mitico Lawrence d’Arabia.

La sorte di Mosul fu risolta in due frasi alla fine della prima guerra mondiale, secondo un dialogo rimasto famoso nella storia. Il 1 dicembre 1918 il capo del governo britannico Lloyd George si trovava a discutere con Clémenceau all’ambasciata francese a Londra. Il capo del governo francese chiese al suo interlocutore di cosa volesse parlare e Lloyd George rispose prontamente: “Della Mesopotamia e della Palestina”. “Mi dica che cosa vuole”, chiese Clémenceau. “Voglio Mosul”, disse Lloyd George. “L’avrà”, rispose Clémenceau.

Ecco come all’epoca si decideva la sorte dei popoli in Medio Oriente. Del resto la conversazione continuò: “Nient’altro?” chiese Clémenceau. “Sì, voglio anche Gerusalemme”, rispose Lloyd George. E Clémenceau ripeté: “L’avrà”.

Ma la storia non si ferma qui. Nel 1920 il trattato di Sèvres, che mise fine alla prima guerra mondiale, prometteva uno stato alle popolazioni curde. Ma come si sa quest’ultimo non ha mai visto la luce. Un secondo trattato, firmato a Losanna nel 1923 dopo la vittoria di Kemal Atatürk in Turchia, aveva annullato di fatto il trattato di Sèvres e aveva ufficializzato la divisione delle zone curde tra la Turchia, la Siria sotto mandato francese, l’Iran e l’Iraq sotto mandato britannico.

L’atlante del Medio Oriente, con il sottotitolo “alle radici della violenza”, pubblicato nel gennaio 2016 per le edizioni Autrement, precisa: “Per quanto riguarda la provincia curda di Mosul, il Regno Unito affermava che lo stato iracheno non sarebbe potuto sopravvivere senza le ricchezze agricole e petrolifere di questa provincia, e così nel dicembre 1925 aveva finito per ottenere dal consiglio della Società delle Nazioni (Sdn, l’antenata delle Nazioni Unite) l’annessione di questi territori curdi all’Iraq sotto il suo mandato”.

L’attivismo militare turco
Da questi elementi storici possiamo comprendere gli interessi che sono dietro ai combattenti di Mosul di oggi. La Turchia in particolare ritiene che Mosul debba appartenere, se non al suo territorio, quanto meno alla sua zona di influenza; e il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan si considera il “protettore” dei sunniti della città. Del resto la Turchia ha inviato truppe e materiale nel nord dell’Iraq e fornisce armi e addestra il gruppo sunnita iracheno Guardia di Ninive, dal nome della regione di Mosul, posto sotto il comando di un ex governatore della provincia. Di recente questo attivismo turco ha creato vive tensioni con Baghdad e probabilmente ha ritardato l’inizio dell’offensiva su Mosul.

Frédéric Tissot, ex console generale francese a Erbil, la capitale del Kurdistan iracheno autonomo, e profondo conoscitore della regione, il 16 ottobre ha twittato che “la Turchia vuole solo una cosa, recuperare la vilayet (provincia) di Mosul data dall’Sdn ai britannici nel 1924. E qui metterà i suoi numerosi carri armati”.

Altri protagonisti sono i peshmerga, i combattenti arrivati dalla vicina regione autonoma curda. Questi combattenti rappresentano una forza temibile in quanto sono sul terreno dall’inizio di questa nuova guerra, nel 2014, e sono molto più motivati delle forze dell’esercito governativo iracheno.

I curdi hanno già approfittato del caos del 2014 – quando l’esercito iracheno allo sbando aveva gettato fuori Mosul tanti profughi e aveva addirittura rischiato di far cadere lo stato iracheno – per rafforzare la loro autonomia e per affermarsi in nuovi territori, in particolare la zona petrolifera di Kirkuk. Ma Baghdad non è disposta a concedere il controllo permanente di Kirkuk ai curdi, e questo rappresenta una potenziale fonte di conflitti futuri.

Pragmatica alleanza
Il governo iracheno non vede con favore neppure un’estensione dell’influenza curda verso Mosul, ma in questa fase non ha altra scelta che accettare i peshmerga nella battaglia contro l’Is e afferma addirittura che i rapporti sono ottimi.

Ma se il ruolo delle milizie sciite si confermasse, sarebbe inevitabile un rafforzamento della pragmatica alleanza tra la regione autonoma curda e la Turchia contro il “pericolo sciita”, a spese dello stato iracheno e dell’esercito di Baghdad, con tutti i rischi di conflitto che ciò comporta.

Insomma, tutto si giocherà nelle prossime settimane, in funzione dello svolgimento della battaglia per la ripresa di Mosul, e i pericoli sono notevoli, a cominciare da quello di perdere il sostegno dei civili di Mosul, in grande maggioranza sunniti, dopo che nel 2014 le minoranze religiose ed etniche sono fuggite o sono state cacciate. Se infatti i “liberatori” dovessero essere visti come dei nuovi conquistatori e considerati come “occupanti”, come era successo agli statunitensi nel 2003, in Iraq la “questione sunnita” rimarrebbe insoluta, con o senza l’Is.

Per questo il problema della vittoria sull’Is a Mosul, e in seguito in Siria, è la condizione necessaria ma di certo non sufficiente per pacificare questa parte del Medio Oriente. Le rivalità regionali e confessionali rimangono aperte e presenti, mentre si scatena una battaglia mitizzata ancora prima di essere cominciata e sotto il peso della propaganda e di ambizioni contraddittorie.

(Traduzione di Andrea De Ritis)

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