18 aprile 2015 17:43

Nell’Anno del pensiero magico Joan Didion ricorre a due metafore precise per descrivere l’espressione di chi ha subìto da poco un lutto.

Per la scrittrice americana il dolore imprime sul viso lo stigma inconfondibile di qualcuno che “esce con le pupille dilatate nell’abbacinante luce del giorno” dall’ambulatorio dell’oculista. Didion rafforza l’immagine facendola seguire da un’altra appartenente allo stesso campo semantico: chi è a lutto è simile a qualcuno “che porta gli occhiali e che improvvisamente è costretto a toglierseli”.

Due metafore che hanno a che fare con gli occhi; due metafore quasi opposte: un violento eccesso di luminosità e un repentino calo della vista.

È proprio tramite lo sguardo vigile e dolente di Margherita (Margherita Buy), grazie al primissimo piano dei suoi occhi, che nei minuti iniziali di Mia madre fa la sua comparsa sullo schermo Ada (Giulia Lazzarini). Il dodicesimo lungometraggio di Nanni Moretti (che firma sia il soggetto, insieme a Gaia Manzini, Valia Santella e Chiara Valerio; sia la sceneggiatura, scritta con Santella e Francesco Piccolo) introduce così la madre del titolo mostrandola lì dove lo spettatore la vedrà stazionare per la maggior parte del film: in una stanza d’ospedale.

Raccontare una degenza ospedaliera significa scegliere di raccontare un vuoto affidandosi al tempo immobile e senza costrutto dell’attesa: di una prognosi, della possibilità di una guarigione, di un intervento, delle dimissioni, dell’impossibilità di una guarigione. Se l’evento che si attende è la morte del paziente, ecco che le giornate – scandite solo dal cambio della flebo o dal succedersi dei pasti – brillano di una luce che carica ogni piccolo gesto di un significato profondo.

Non soltanto chi è ricoverato è entrato in ospedale con una speranza – che egli conosca o meno la propria condizione – che verrà disillusa. C’è qualcosa di più. Da quando la notizia è stata resa nota, infatti, persino nei parenti (dentro di loro come nel corpo del loro caro) è in atto un processo di trasformazione continuo. Questo perché l’insostenibilità della prognosi infausta dà il via a un meccanismo che – indipendentemente dalla volontà di dire o meno la verità, e dunque di accettarla – porta a mentire tanto al malato quanto a se stessi.

Anne Philipe, nel romanzo autobiografico Breve come un sospiro, non appena apprende dai medici che il marito (l’attore Gérard Philipe) ha pochi mesi di vita, denuncia questo smottamento dell’anima parlando di sé: “Ridiscesi. Era lo stesso ascensore e, apparentemente, la stessa persona lo occupava, ma dentro di me era la fine del mondo”. L’incredulità, insieme all’impotenza, diviene il motore dei sentimenti, la scintilla che innesca una serie di reazioni: “Cercavo di metter calma nel mio sguardo”, prosegue Philipe, “provavo davanti a te, incosciente, la commedia che mi apprestavo a recitarti e che era tutto ciò che restava della nostra vita in comune”. Quindi si organizza una recita, una farsa, per sfuggire alla realtà e non soccombere al presente, e insieme per tacere al morente il suo stato.

“Il nostro ultimo sguardo da pari a pari”, scrive ancora Philipe, “ce lo eravamo scambiato mentre l’infermiera ti faceva scivolare sul lettino”. Se prima la conoscenza era solo dei medici, ora è passata ai famigliari: non si è più alla pari, dunque, ma s’instaura una gerarchia nuova fra chi sa tutto e chi non sa (ancora) niente.

Nel nuovo film di Nanni Moretti il personaggio di Margherita, mentre la madre sta morendo, sta dirigendo un film: è una regista, e come tale si ritrova a capo di un’immensa finzione narrativa. La troupe esegue i suoi ordini, anche quelli apparentemente più contraddittori, e insieme a lei tutti quanti sono impegnati nell’orchestrare una rappresentazione che risponda ai criteri di verosimiglianza della sceneggiatura. Il film diretto da Margherita ha un titolo eloquente, Noi siamo qui, e – come riassume la madre stessa – parla di “gente che perde il lavoro”. È una storia solida, concreta. La fabbrica che rischia la liquidazione diventa il luogo in cui la regista rimane volontariamente bloccata, mentre su un letto d’ospedale sua madre consuma gli ultimi giorni.

Se la tenacia dispotica che ha sempre contraddistinto Margherita sul set comincia a vacillare, se le certezze lasciano il posto allo spaesamento, è l’ostinazione a voler proseguire nella recita quotidiana – fingere che tutto vada bene, che la morte non esista – a impedirle di comprendere davvero la gravità della situazione.

“Voglio tornare nella realtà!” sbotta dopo l’ennesimo ciak sbagliato Barry Huggins, il personaggio interpretato da John Turturro – il divo americano che non riesce a ricordare una sola battuta del copione. Se lui dimentica, Margherita invece ricorda. E nella sequenza successiva la realtà – una memoria che le rimarrà addosso – arriva con violenza.

Siamo di nuovo in ospedale, e all’improvviso Ada rivolge alla figlia una richiesta semplice: essere accompagnata dal letto al bagno. Ma senza chiamare un’infermiera, senza l’aiuto della carrozzina. Ha un moto d’orgoglio: vuole usare le proprie gambe. Quando Margherita si rende conto che quei tre metri sono incolmabili per sua madre, la aggredisce. Poi scoppia a piangere.

“Figli di madri ancora in vita, non dimenticatevi più che le vostre madri sono mortali”, scrive Albert Cohen nel Libro di mia madre. Un ammonimento, e insieme un grido strozzato fuori tempo massimo lanciato da un figlio rimasto orfano.

Ma che cosa accade a Margherita e Giovanni – i due fratelli di Mia madre – di fronte all’impossibilità di salvare il proprio genitore, di fronte a una donna ancora in vita eppure ormai condannata? È Giovanni (lo stesso Moretti) ad avere maggiore lucidità fra i due, ad affrontare i colloqui con i medici senza abbandonarsi all’irrazionalità di chi, in quel contesto, vorrebbe soltanto essere rassicurato. Margherita si aggrappa invece alle sfumature di senso, lascia spiragli aperti per immaginare un futuro che non ci sarà, s’indigna quando una dottoressa suggerisce ai due fratelli di “preparare” la madre. Anestetizza il dolore, tanto nella vita quanto sul set: “Non voglio che gli spettatori si sentano male e si girino dall’altra parte”, dice a un membro della troupe dopo aver girato una sequenza particolarmente violenta.

Tocca a Giovanni pronunciare ad alta voce – dunque ammettere che è vero – la frase che nessun figlio vorrebbe mai dire: “Mamma sta morendo”. Come tutte le storie in cui un genitore muore, sono i figli a diventare – anche se magari già lo erano, come nel caso di Margherita – genitori a loro volta. Mia madre è infatti un film di doppi, di controfigure, di passaggi di testimone e continui cambi di ruolo.

Significativamente il personaggio di Giovanni, un ingegnere, sceglie di mettersi in aspettativa: abbandona il lavoro così come sospendeva la professione di psicanalista il Giovanni della Stanza del figlio. E il rimando a quel film è inevitabile, perché quattordici anni dopo aver esplorato il più terribile dei lutti (la morte di un figlio), Moretti affida di nuovo agli spazi della casa – e agli oggetti che rimangono – il compito di raccontare la perdita.

Quando Ada è ancora in vita, Margherita è turbata perché la figlia adolescente, Livia (Beatrice Mancini), dopo una doccia usa l’accappatoio della nonna. Si sono momentaneamente trasferite a casa della madre, sebbene all’inizio la regista scelga di dormire sul divano anziché nel letto materno – per lei quelle stanze sono da profanare il meno possibile. Eppure, una breve sequenza anticipa allo spettatore il modo in cui inevitabilmente cambierà forma la casa dopo la morte di Ada, ex insegnante di latino amatissima dagli alunni: un posto vuoto, svuotato, dove troneggiano gli scatoloni in cui sono stati ammassati i libri di Lucrezio e Tacito.

Come scrive in data 31 ottobre 1977 Roland Barthes nel suo Dove lei non è: “Tornato solo, per la prima volta, nell’appartamento. Come è possibile che io sia in grado di vivere qui tutto solo. E simultaneamente, l’evidenza che non esista nessun altro luogo alternativo”.

Il film si chiude con lo sguardo di Margherita in camera: ma a differenza di quello iniziale, ora è velato dalle lacrime. Stando a Joan Didion i suoi occhi ci vedono un po’ meno, o forse ci vedono un po’ di più. “Noi siamo qui”, recita il film che sta girando Margherita: e noi spettatori non vorremmo – non potremmo, adesso che abbiamo fatto esperienza – essere altrove.

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