26 giugno 2019 12:19

Carola Rackete, la comandante della nave SeaWatch 3, per ragioni umanitarie ha deciso di forzare il blocco che le è stato imposto dalle autorità italiane. Ha condiviso la nave da quattordici giorni con 42 persone che sono scappate dai centri di detenzione libici e portano i segni di violenze e torture generalizzate. Violando il divieto di entrare nelle acque italiane imposto dal ministero dell’interno, in seguito al decreto sicurezza bis, rischia di dover pagare fino a cinquantamila euro di multa. Inoltre potrebbe andare incontro al sequestro della nave, come conseguenza della norma entrata in vigore il 15 giugno.

Molti esperti hanno sottolineato che il secondo decreto sicurezza, rivolto in particolare alle navi umanitarie che soccorrono persone nel mar Mediterraneo, è in contrasto con diverse norme nazionali e internazionali che obbligano a soccorrere chi è in difficoltà in mare. Se il sequestro dovesse avvenire, dunque, c’è da pensare che il caso sarebbe impugnato dagli avvocati e potrebbe essere addirittura chiesto il risarcimento per la multa pagata. Se la comandante fosse accusata di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, il caso potrebbe essere portato fino alla corte costituzionale per dimostrare eventualmente che il decreto è contrario alla nostra carta fondamentale e segna un punto di rottura con la cultura giuridica del nostro paese. È paradossale tuttavia che questo passaggio possa avvenire solo a spese di qualcuno e cioè solo dopo l’eventuale multa e sequestro della nave. Ma così funziona. Intanto il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale ha presentato un esposto alla procura di Roma per accertare le eventuali violazioni sulla nave.

E tuttavia c’è un piano politico che emerge in maniera allarmante negli ultimi giorni, al di là di quello strettamente giuridico. Il caso della SeaWatch 3 ha generato molta meno attenzione e molte meno proteste di casi simili avvenuti negli ultimi mesi. Questo indica che c’è un’assuefazione generale dell’opinione pubblica al tema, ma fa emergere anche un altro fattore. Proprio come avvenne nell’estate del 2017, quando s’impose il codice di condotta alle ong, le associazioni e gli operatori umanitari sono stati lasciati da soli. La politica ha deciso di far calare un allarmante silenzio sulla questione dei soccorsi in mare e delle politiche migratorie in generale, eccezione fatta per qualche iniziativa personale di alcuni parlamentari.

La dottrina Minniti
Questo atteggiamento sembra il frutto di una valutazione condivisa: le opposizioni hanno stabilito che il successo della Lega alle elezioni europee sia dovuto alle sue posizioni sull’immigrazione, per quanto discutibili possano essere sul piano umanitario, politico e giuridico. A sinistra, in particolare, da qualche settimana molti commentatori portano a esempio la vittoria dei socialdemocratici in Danimarca e la sconfitta del centrosinistra a Ferrara per sostenere la necessità di ascoltare la paura dei cittadini e usare il lessico della destra su sicurezza e ordine per provare a contrastare l’inarrestabile ascesa dei sovranisti italiani.

Così il silenzio si alterna a pochissime opinioni critiche con il governo e a posizioni che invece elogiano la dottrina Minniti sulla riduzione degli arrivi e sugli accordi con la Libia. Lo stesso Marco Minniti , ex ministro dell’interno, sul Foglio del 24 giugno ha pubblicato un manifesto indirizzato al suo partito, in cui suggerisce di riorganizzare le file e, tra gli spunti che fornisce, rivendica la sua posizione sull’immigrazione: “Non lasciamo alla destra la gestione dell’immigrazione”.

Il tasso di immigrati presenti nel nostro paese è più basso della media europea, ma il livello di allarme è tra i più alti

In parte è scontato che si apra questa discussione, soprattutto a sinistra, ma il rischio chiaro è che questo determini una spaccatura ulteriore proprio in quell’area politica per più di una ragione. È deludente che a distanza di otto anni dall’inizio dell’ultima ondata migratoria in Europa, che ha coinciso con le primavere arabe, si pongano i termini della questione solo sulla base del numero degli arrivi, come se questi fossero direttamente proporzionali al livello dell’ostilità espressa dai cittadini rispetto agli stranieri.

È smentito dai fatti che esista questa relazione diretta: gli arrivi di migranti in Italia sono diminuiti a partire dall’estate del 2017 e però non è diminuito, anzi è aumentato, il sentimento d’insicurezza e paura legato alla presenza di immigrati nel nostro paese. La paura e la rabbia non si sono estinte nemmeno quest’anno, a fronte di una riduzione dell’85 per cento degli sbarchi nei primi sei mesi del 2019 rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. E ancora, il tasso di immigrati presenti nel nostro paese è nella media europea, anzi più basso della media, ma il livello di allarme rispetto alla presenza di stranieri è tra i più alti in Europa. Non sono i numeri dunque, ma le parole e i discorsi a creare questa percezione e questi sentimenti.

Altrettanto deludente è che si sia riflettuto così poco sulla distanza tra realtà e percezione, o meglio sulla costruzione della realtà che è l’obiettivo di ogni propaganda politica. La realtà è sempre percezione della realtà: difficile spiegare a chi ha paura che non dovrebbe averne. Ma la percezione della realtà è sempre anche frutto della riflessione pubblica sulla realtà, di una elaborazione collettiva dei fatti. Elaborazione che passa sempre dal linguaggio.

Una visione tattica della politica
Di che si nutre questa paura? Quali sono le sue radici? La spiegazione della destra e dell’estrema destra è molto ideologica, si fonda spesso su teorie del complotto come quella della Grande sostituzione (cioè che ci sia un piano per sostituire le popolazioni europee con quelle provenienti dall’Africa) e dell’esercito di riserva (che ci sia un piano per abbassare gli standard del lavoro attraverso l’arrivo dei lavoratori immigrati). A questa visione si contrappone al momento soltanto quella delle chiese: i cattolici e altri cristiani si poggiano su etiche e teologie che impongono il cosmopolitismo e l’idea che gli stranieri, soprattutto i profughi, debbano essere accolti. “Ero straniero e mi avete accolto”, è scritto nel Vangelo.

Chi sembra sguarnito di una sua elaborazione autonoma sulla questione è il centrosinistra, che infatti mostra una certa subalternità agli uni o agli altri. Mentre si cita la vittoria dei socialdemocratici danesi – evitando di dire che anche la sinistra umanitaria ha raccolto ottimi consensi in Danimarca e che la vittoria dei socialdemocratici non è stata tanto fondata sulla propaganda contro l’immigrazione, quanto su classiche ricette socialdemocratiche che mettono al centro lo stato sociale – per niente si riflette per esempio sul fatto che, nonostante tutto, una delle leader politiche più longeve in Europa è Angela Merkel, una cristianodemocratica che nel 2015 dichiarò di voler riformare il sistema di asilo europeo e di voler accogliere un milione di rifugiati siriani. Eppure, come ha spiegato Luigi Manconi diverse volte, l’obbligo di salvare vite e di non omettere il soccorso, è fondativo di tutti gli altri diritti. La salvaguardia della vita, di cui lo stato dovrebbe essere garante, è la motivazione alla base del contratto sociale da almeno tre secoli, non dovrebbe essere difficile dunque per liberali e socialdemocratici difendere questo principio della nostra cultura.

A sinistra tuttavia vince una visione tattica della politica, ma non basta inseguire il consenso per avere successo. Come dice Sabino Cassese sul Corriere della Sera del 25 giugno: “Ci sono molti tattici, ma nessuno stratega”. Sembra che manchi proprio una riflessione di lungo corso, che affondi le sue radici nella storia e nella costruzione del proprio orizzonte di valori. Ridurre gli sbarchi nel 2017, attraverso la firma degli accordi con Tripoli, non ha portato il centrosinistra alla vittoria delle elezioni nel marzo del 2018, esattamente come era avvenuto nelle elezioni regionali del 2000 e nelle politiche del 2001.

Ha avuto invece sicuramente l’effetto di spaccare ulteriormente la sinistra. Il 25 giugno in parlamento la divisione è già di fatto avvenuta, quando una minoranza dei parlamentari del Partito democratico ha chiesto insieme a Leu e +Europa di rivedere la cooperazione con il governo di Tripoli, voluta dal governo di Paolo Gentiloni. La posizione ufficiale del Pd è quella di proseguire la collaborazione che implica finanziamenti alla cosiddetta guardia costiera libica.

Anche nel 2001, nonostante la prima legge di “gestione” dell’immigrazione in Italia porti la firma di due politici di sinistra, Livia Turco e Giorgio Napolitano, fu soprattutto la destra a beneficiare dell’approccio securitario con la vittoria alle elezioni. La sinistra fu divisa invece dall’approvazione di quella legge, nel 1998, che da una parte elaborava alcune riflessioni fatte dal movimento antirazzista italiano nei dieci anni precedenti e d’altro verso rispondeva all’approccio securitario imposto dall’Europa e che prevedeva per esempio l’istituzione dei Centri di permanenza temporanea (Cpt, poi Cie, quindi Cpr).

Il silenzio non aiuterà quelli che oggi sono in crisi di consensi. E il recupero di vecchie ricette, senza alcuna riflessione o sforzo immaginativo, potrebbe solo rafforzare l’egemonia di chi è al governo, mentre si acuiscono le divisioni di quelli che invece sono all’opposizione. Intanto con il caso Sea Watch 3 si può decretare la fine del diritto d’asilo in Italia e sarebbe più coerente dire che le convenzioni internazionali che abbiamo firmato negli anni, dalla Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951 alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, sono leggi universali fino a un certo punto. Nel senso che siamo disposti a difenderle e ad applicarle a tutti, ma solo se riguardano persone nate da questa parte del mare.

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L’articolo è stato aggiornato alle 18.

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