28 settembre 2017 14:59

“Mi dica, che paese è quello lì in fondo che passa il tempo ad applaudirmi, tutto solo, senza sosta?”. “È il Sudan, signore”.

Dalle pagine del quotidiano Le Soir, il vignettista belga Pierre Kroll non ha resistito alla tentazione di intervenire sulla vicenda che in questi giorni sta travolgendo il governo federale del paese. Nella vignetta pubblicata il 22 settembre, Kroll ritrae il primo ministro, il liberale francofono Charles Michel, alla tribuna delle Nazioni Unite, applaudito calorosamente dal rappresentante del Sudan, paese con cui il Belgio ha da poco avviato una collaborazione in materia di rimpatri di persone in soggiorno cosiddetto irregolare.

La collaborazione è stata annunciata il 15 settembre su Twitter dal segretario di stato responsabile per le politiche di asilo e migrazione, Theo Francken, del partito nazionalista fiammingo N-va (Nuova alleanza fiamminga): “Buona notizia! Missione sudanese di identificazione. Arrivo: domenica. Inizio: lunedì. Numero previsto di persone da identificare: 80”. Il tweet si conclude con un pollice alzato e l’hashtag #Maximiliaanpark.

Lo spauracchio di Calais
Il parco Maximilien si trova davanti alla sede dell’Office des étrangers (l’ufficio federale che “assicura la gestione dei flussi migratori”, come si legge sul sito) e poco distante da una delle principali stazioni di Bruxelles, la gare du Nord. Nel 2015 per qualche mese è diventato il simbolo del fallimento delle politiche di accoglienza in Belgio, riempiendosi di centinaia di profughi accampati in tenda e sostenuti da un ampio movimento di solidarietà. Poi nell’autunno del 2016, dopo lo smantellamento del campo di Calais, in Francia, molte persone hanno cominciato a spostarsi in Belgio, paese da cui era ancora possibile tentare la traversata verso il Regno Unito, trovando rifugio nel parco Maximilien e nella vicina gare du Nord.

Agitando lo spauracchio di un’altra Calais, negli ultimi tempi il governo ha lanciato una massiccia operazione di “pulizia”. Il termine è stato usato dallo stesso Francken, il 13 settembre, in un post su Facebook in cui si rallegrava del risultato di una delle retate che la polizia ha preso l’abitudine di eseguire all’alba. “Questa mattina 14 persone arrestate al parc Maximilien, 9 alla gare du Nord, tre dichiarate minorenni. Secondo la polizia non c’è quasi più nessuno nel parco. #opkuisen”. Pulire, appunto.

Le persone arrestate, in gran parte eritrei, sudanesi e somali, sono state rinchiuse nei vari centri di identificazione ed espulsione del paese. Ad alcune – denuncia il collettivo Getting the voice out – è stato detto che non avevano il diritto di chiedere un avvocato né di avere un telefono nel centro. Intanto il governo si è dato da fare per assicurarne un rapido allontanamento dal territorio. La delegazione arrivata dal Sudan è servita proprio a questo: accelerare l’identificazione dei cittadini sudanesi in “soggiorno irregolare” e ottenere il rilascio dei documenti di viaggio necessari al rimpatrio.

Le proteste contro questa collaborazione sono arrivate da collettivi e associazioni di difesa dei diritti umani, dai partiti all’opposizione, perfino dai ranghi dei liberali francofoni. Il 22 settembre alcuni attivisti hanno prenotato una stanza all’hotel Hilton, dove Francken stava tenendo una conferenza. Sotto gli occhi di centinaia di manifestanti radunati lì davanti, hanno srotolato dalla finestra uno stendardo rosso in cui la svastica nazista era stata sostituita dalle lettere N-va. Due giorni prima Ecolo-J, la sezione giovanile del partito francofono dei Verdi, aveva diffuso un fotomontaggio che ritraeva Francken in uniforme della Wehrmacht.

Inaccettabile, hanno protestato i sostenitori del segretario di stato, che a quanto pare trovano invece accettabile il rimpatrio di profughi in un paese il cui dittatore è accusato dalla Corte penale internazionale di crimini contro l’umanità, crimini di guerra e genocidio.

“Ma lo fanno tutti!”. Così si difende il governo, che dopo un iniziale tentennamento (si tratta pur sempre di una coalizione che riunisce liberali, cristiano-democratici e nazionalisti) si è stretto intorno al suo segretario di stato, sottolineando che altri stati europei eseguono rimpatri verso il Sudan con l’aiuto di missioni di identificazione e che questa collaborazione è prevista anche al livello europeo dal processo di Khartum, avviato nel 2014, e dal fondo fiduciario d’emergenza dell’Unione europea per l’Africa creato nel 2015.

L’eccezione dell’Italia
Su una parola il governo è stato attento a non scivolare: “accordo”. “Non esiste un accordo con il Sudan, ma una collaborazione tecnica”, ha spiegato Charles Michel il 27 settembre, convocato dai deputati dell’opposizione in commissione affari interni. Il giorno prima da Parigi è arrivata la conferma che la Francia in passato ha accolto “delle missioni di identificazione dal Sudan”. “Ma non abbiamo accordi con questo paese”, ha precisato l’ufficio stampa del ministero dell’interno. Precisazioni che ricordano le piroette lessicali intorno ai “non accordi” stretti dall’Unione europea con la Turchia e l’Afghanistan in materia di rimpatri, definiti delle semplici “dichiarazioni”.

Un solo paese non si è fatto scrupoli e ha siglato, discretamente, un memorandum d’intesa con il regime di Khartum: l’Italia. Dopo mesi di negoziati, il 3 agosto 2016 ha ufficializzato la sua collaborazione con la polizia sudanese attraverso un accordo che ha reso possibile, il 24 agosto, l’espulsione collettiva di quaranta persone arrestate a Ventimiglia. L’operazione è stata immediatamente denunciata da attivisti e giuristi. Il 3 ottobre l’Asgi (Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione) ha pubblicato un commento sul memorandum, denunciandone la natura politica (e non semplicemente amministrativa, come aveva invece sostenuto il capo della polizia italiana Franco Gabrielli) e la superficialità, che “nasconde il disprezzo per il rispetto dei principali diritti delle persone”.

“È evidente che sotto le sembianze di un accordo meramente tecnico e non politico”, scriveva l’Asgi, “si cela l’intento di avere mano libera per espellere velocemente presunti sudanesi, in violazione delle norme vigenti”. La legge impone infatti che una persona sia identificata sul territorio di uno stato membro prima che quest’ultimo possa procedere alla sua espulsione. Il memorandum d’intesa, invece, prevede la possibilità di eseguire gli accertamenti sull’identità della persona dopo il rimpatrio, quindi in territorio sudanese, in alcuni non meglio specificati “casi di necessità e urgenza” (articolo 14). “A suo piacimento la polizia italiana si arroga il potere di esternalizzare le procedure di identificazione”, osservava l’Asgi.

Nel dicembre del 2016 due avvocati dell’associazione, Dario Belluccio e Salvatore Fachile, sono andati in Sudan con una delegazione di quattro eurodeputati del gruppo Gue/Ngl (Sinistra unitaria europea/Sinistra verde nordica). Grazie alle testimonianze raccolte durante la missione, nel febbraio del 2017 hanno potuto presentare un ricorso alla Corte europea dei diritti umani a nome di cinque cittadini sudanesi espulsi.

“Il ricorso è stato dichiarato ricevibile una decina di giorni fa”, osserva Belluccio, che riassume così la questione: “L’esternalizzazione delle politiche migratorie e del controllo delle frontiere in paesi che non possono essere considerati sicuri è considerata illegale da agenzie europee come l’Easo (Ufficio europeo di sostegno per l’asilo) e da organi internazionali come la Corte penale internazionale. Eppure accordi simili vengono stipulati e messi in atto”. Bisogna quindi dimostrare, spiega Belluccio, che questi accordi sono illegittimi, sia rispetto ai diritti dei richiedenti asilo, in quanto violano il principio di non respingimento, sia alla luce del divieto di respingimento verso paesi che non rispettano i diritti umani, divieto previsto “dal diritto internazionale consuetudinario e da specifiche norme di legge in Italia”.

Quando gli stati non rispettano più i diritti fondamentali garantiti dalla legge, l’asilo e la protezione prendono nuove forme

In altre parole, indipendentemente dalla situazione di una persona (può aver chiesto l’asilo o meno, può esserle stata riconosciuta una forma di protezione o meno), il suo rinvio in un paese come il Sudan può essere considerato illegale. Attraverso operazioni di rimpatrio rapide e indiscriminate, gli stati europei sperano quindi di “impedire che i diritti di queste persone siano giustiziabili davanti alle autorità locali”.

“Come possiamo allora far valere in via giudiziaria i diritti di queste persone?”, si chiede Belluccio. “E quali azioni penali è possibile intentare contro i responsabili di queste politiche?”. Oltre al ricorso alla Corte di giustizia dell’Unione europea (possibile in presenza di accordi tra l’Unione europea e uno stato terzo) e alla Corte europea dei diritti dell’uomo, esiste una terza via, ancora poco praticata: sollecitare l’intervento dell’ufficio del procuratore della Corte penale internazionale. Lo hanno fatto diciassette giuristi, nel febbraio del 2017, in un documento che “presenta la base legale e fattuale di una possibile responsabilità di funzionari dello stato australiano e di aziende private nei crimini commessi contro dei rifugiati nei centri di detenzione offshore australiani a Nauru e in Papua Nuova Guinea”.

Destini sospesi
“Allo stesso modo”, osserva Belluccio, “possiamo chiederci se esiste una responsabilità dell’Unione europea e degli stati membri che in Libia finanziano dei centri di detenzione dove sono commesse gravissime violazioni dei diritti umani”. Sarà questo uno dei temi che saranno affrontati nel convegno “La chiusura della rotta libica: una strage avallata dal governo italiano. Le violazioni della costituzione italiana e della Carta europea dei diritti dell’uomo”, che si terrà a Roma il 16 ottobre.

Intanto, da quel 24 agosto 2016, l’Italia non avrebbe eseguito altre operazioni di rimpatrio in Sudan. “Per quanto ne sappiamo”, dice Belluccio, “e molto probabilmente grazie alla campagna di proteste, non sembra ci siano stati altri rimpatri in Sudan. Sono stati notificati dei decreti di espulsione, ma non sono stati messi in atto”.

Il destino di decine di profughi sudanesi attualmente detenuti nei Cie belgi è ancora sospeso. Alcuni sono già stati rinviati nel primo stato europeo dove gli erano state prese le impronte digitali o dove avevano presentato una domanda di asilo. Ma il 25 settembre il Conseil du contentieux des étrangers (Commissione per il contenzioso in materia di stranieri) ha ordinato la sospensione “in estrema urgenza” di un ordine di allontanamento notificato a un cittadino sudanese, osservando che l’Office des étrangers non aveva accertato in modo rigoroso se un eventuale rimpatrio in Sudan rischiava di violare l’articolo 3 della convenzione europea dei diritti dell’uomo: “Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”. Ricorsi simili potrebbero quindi portare alla liberazione di altri profughi sudanesi.

Altre decine di loro sono riusciti a sottrarsi alle retate e sono ora ospitati da cittadini e cittadine di Bruxelles. Quando gli stati non rispettano più i diritti fondamentali garantiti dalla legge, quando alimentano un “grave arretramento della cultura giuridica” (per riprendere il titolo di uno degli interventi in programma al convegno dell’Asgi), e mentre avvocati e giuristi si battono per far valere quei diritti, l’asilo e la protezione prendono nuove forme.

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