05 dicembre 2018 15:16

Fin dai suoi primi lungometraggi risalenti alla fine degli anni settanta, Nanni Moretti, pur partendo dalla dimensione intima, ha registrato con costanza i mutamenti della società italiana nel contesto della politica e della collettività. Luogo-metafora ne erano “il partito”, come era chiamato familiarmente il Partito comunista italiano (Pci), o le istituzioni collettive, come la chiesa cattolica. Le due grandi chiese italiche del secondo dopoguerra.

Tutti i suoi film fino a Palombella rossa (1989), che chiude un ciclo, sono la registrazione sottile e insieme caustica, comica e drammatica, dell’inizio della deriva regressiva di quello che fu presto definito il riflusso, cominciato tra la fine degli anni settanta e i primi anni ottanta, presagio della fine delle ideologie (fine di cui ci si è forse approfittati per creare anche un’artificiosa fine degli ideali).

La registrazione, insomma, di una vacuità crescente, pervasiva in ogni interstizio della società italiana, e forse non solo italiana, sebbene da noi abbia preso proporzioni spaventosamente ampie per ragioni varie e complesse. Perché il berlusconismo è stato preceduto dal craxismo con la sua volgarità arrogante e pacchiana, prima ancora nello stile e nei metodi che nelle politiche stesse, di cui troviamo il riflesso in particolare in Sogni d’oro (1981). Così come La messa è finita (1985) è la registrazione definitiva della crisi, tutta anni ottanta, non tanto delle vocazioni religiose quanto della vocazione all’esplorazione dell’interiorità destinata a risolvere i conflitti interiori, a sua volta strumento basilare per risolvere i conflitti del mondo esterno.

Il sismografo di un mondo
Quando si crede che la vita si risolva in una Milano da bere, per riprendere il celebre slogan pubblicitario divenuto un po’ il simbolo di quegli anni, se questo perdura (come è stato purtroppo il caso) è facile allora che un paese, per continuare con la metafora, diventi alcolizzato e rischi di morire di cirrosi epatica. Oppure di amnesia cronica, come il protagonista di Palombella rossa.

Dopo Palombella rossa, opera di grande bellezza formale che registra dall’interno di una comunità chiusa in una piscina il tramonto del mondo diviso in due blocchi e delle ideologie – oltre alla conseguente crisi del partito di riferimento – il suo cinema passa a esplorare la dimensione intima lasciando quella collettiva, da La stanza del figlio (2001) a Mia madre (2015), mentre la dimensione politica confluisce nella pura denuncia satirica con Il caimano (2006), un film dal finale di rara cupezza, oppure nel presagire il grande vuoto della politica, del potere e dei punti di riferimento (anche sul piano globale) con Habemus Papam (2011), film più sottile e profondo di quanto si possa credere a prima vista.

Per visualizzare questo contenuto, accetta i cookie di tipo marketing.

Di tutto questo potremmo dire che Moretti è stato quasi il sismografo, impresa non facile in una cinematografia come quella italiana del secondo dopoguerra che ha abbondato di registi capaci, di primo piano anche in ambito internazionale, in grado di registrare con precisione, o acutezza di sguardo se si preferisce, tutti gli aspetti della società italiana contemporanea – da Rossellini a Fellini, da Antonioni a De Sica, da Pasolini a Visconti – e distinguendosi per i livelli eccelsi, quantomeno nell’ambito del cinema d’autore europeo.

Con il suo documentario che esce ora nelle sale dopo l’anteprima al Torino film festival, Santiago, Italia, Nanni Moretti si disloca per la prima volta altrove. Ma solo in apparenza. Perché l’immagine d’apertura del film, con Moretti che guarda dall’interno di un muretto la città di Santiago più in basso, è in realtà l’enunciato di uno sguardo sull’Italia di ieri e di oggi, usando come specchietto retrovisore la tragedia del golpe dell’11 settembre 1973 che cancellò la democrazia in Cile per tanti anni a venire e con essa l’esperimento di un socialismo popolare e radicale ma democratico (in contrasto con i regimi totalitari di quell’epoca), oltre a comportare la morte del suo ispiratore, il presidente Salvador Allende.

Una scelta che può sembrare insolita anche se non è certo la prima volta per il regista, autore di cortometraggi e documentari di cui ricordiamo La cosa (1990), sul mutamento incerto e un po’ informe del Pci.

Una vicenda poco nota
Questo sguardo diagonale sull’Italia di oggi e di ieri, in appena un’ora e venti ricostruisce il riparo offerto dalla nostra ambasciata in Cile ai tanti che volevano sfuggire alla repressione del regime golpista offrendo poi loro un salvacondotto per l’Italia. Una vicenda, quella degli esuli di Allende in Italia, poco nota da noi, soprattutto tra le giovani generazioni nate e cresciute durante e dopo il berlusconismo, quindi spesso in una situazione di amnesia ormai consolidata, anche se non sempre per colpa loro, anzi.

Moretti intervista i funzionari dell’ambasciata italiana in Cile e ovviamente tanti cileni, ex rifugiati e testimoni, residenti oggi in Italia oppure in Cile. Saltavano il basso muretto di cinta – quello dell’inquadratura iniziale – dell’ambasciata e chiedevano protezione. Oggi sono registi, come Patricio Guzmán e Miguel Littín, oppure traduttori come Rodrigo Vergara, o ancora artigiani, operai, giornalisti, imprenditori, professori. Si sentono anche le parole di Salvador Allende alla radio, le sue ultime parole: “Viva il Cile! Viva il popolo! Viva i lavoratori! Queste sono le mie ultime parole e sono certo che il mio sacrificio non sarà vano”.

Il documentario compie un miracolo laico coniugando la gravità con la leggerezza

Come anche quelle del cardinale Raúl Silva Henriquez che salvò e aiutò molte persone in un paese dove le chiese, a dire degli intervistati, erano diventate veri rifugi per molti: “Io non so contro chi lotta questo governo. Contro il popolo del Cile. È una cosa stranissima: un esercito che lotta contro il popolo della sua patria per imporre una situazione con la forza”. Un cardinale ricordato con vera commozione da uno degli intervistati, ateo dichiarato, perché fece molto, ma poi è caduto nell’oblio a causa di Wojtyla e della sua cieca guerra alla teologia della liberazione.

Questo uno dei miracoli del film – dopotutto miracolo è forse la parola giusta per un film laicamente portatore di empatia cristiana – che nella sua brevità (malgrado le circa quaranta ore di materiale girato), distilla con vera sapienza nel montaggio frammenti d’interviste riuscendo a coniugare la gravità con la leggerezza, senza risultare superficiale oppure offensivo della memoria di quello che si vuole ricordare e celebrare. Perché ci sono commozione ma anche gioia, senso dell’umorismo e ironia, insomma molta umanità e molta vita che il regista restituisce pienamente nel comporre il suo mosaico.

Un mondo frammentato
Praticamente ognuno di questi frammenti offre a latere, fuori campo, molti temi, come del resto è evidente anche dalle interviste e dichiarazioni dello stesso Moretti, anche se è possibile svilupparne altri ancora talmente il film è ricco. Il più evidente, che ci porta alla situazione attuale, è ovviamente quello del muro. Il muro di Trump con il Messico. E più in generale tutti gli altri muri, anche quelli non fisici, che avviliscono i rapporti umani e la dignità umana prima ancora di mietere vittime tra gli stessi esseri umani, come dimostra la guerra del nostro governo alla nave Aquarius e alle ong.

Questa guerra ha tra i suoi obiettivi quello di creare una percezione distorta del volontariato nell’opinione pubblica spingendola a richiudersi nella diffidenza, nell’egoismo se non nel cinismo più crudele e selvaggio, altro tema messo fuori campo ma rivendicato dallo stesso Moretti. Un’impresa non da poco conto anche sul piano simbolico, nel paese che ospita lo stato della chiesa cattolica.

È un retaggio di dolore e repressioni spaventose che pesa ancora fortemente in America Latina

Al contrario, il muro di ieri, quello del film, è un muro al contrario. È basso invece che alto, accoglie e riunisce invece di allontanare e separare. È il nostro piccolo cortile che non si chiude nel gretto provincialismo ma si fa ampio nella visione del panorama del genere umano, che si fa alto nella considerazione della dignità umana.
L’Italia di ieri era solidale, lo stato ma anche il popolo. E il documentario di Moretti ricostruisce bene il clima di solidarietà popolare che, nel suo complesso, avvolse questi esuli. Per loro stessa ammissione. Ma quello italiano era anche un popolo – operai, contadini e studenti a cui oggi aggiungeremmo i lavoratori del terziario – che non si sentiva ancora abbandonato dallo stato o dalla sinistra, in Italia come altrove.

Non ancora In guerra, come recita il titolo del film di Stéphane Brizé sul mondo operaio francese che la Academy Two tra i vari titoli in listino ha scelto di portare nelle sale subito prima di distribuire il documentario di Moretti, oltretutto proiettandolo nella capitale proprio al Nuovo Sacher, la sala di proprietà del regista. Siamo nella radicalizzazione del mondo frammentato, se non spappolato, nel quale nuota sempre più a fatica Michele Apicella in Palombella rossa. Fuori campo c’è anche questo.

Le interferenze degli Stati Uniti
In campo ci sono ovviamente anche le questioni specifiche alla memoria storica del Cile – paese dai grandi ritardi nelle conquiste sociali primarie come la riforma agraria – e le interferenze degli Stati Uniti che ne hanno accentuato non poco i ritardi. Il contesto è il sostegno che quasi tutte le amministrazioni degli Stati Uniti avrebbero dato a feroci dittature con la cosiddetta operazione Condor in non pochi paesi dell’America Latina durante la guerra fredda: sono stati declassificati nell’ultimo decennio proprio i documenti relativi al sostegno di vari tentativi di golpe contro Allende da parte dell’amministrazione Nixon con la regia di Henry Kissinger.

Quel Kissinger che esorterà poi i golpisti argentini a fare presto perché Gerald Ford, succeduto a Nixon dopo lo scandalo Watergate, non era certo di vincere le elezioni, come dimostrano altri documenti resi pubblici negli ultimi anni (ha vinto poi Jimmy Carter che, azzerando quasi tutte le operazioni clandestine della Cia in America Latina, ha messo al primo posto la questione dei diritti umani).

È un retaggio di dolore e repressioni spaventose che pesa ancora fortemente in America Latina, che va ben oltre il Cile, ma di cui il golpe contro Allende è forse il momento simbolicamente più forte. Se il golpe poi effettivamente messo in atto probabilmente non fu finanziato direttamente dalla Cia, certamente però i cospiratori sentivano come minimo la benevolenza degli Stati Uniti: “Gli archivi desecretati della Cia, il rapporto Church del senato degli Stati Uniti, documentano in modo certo l’intervento statunitense per impedire l’elezione di Salvador Allende, finanziando importanti quotidiani come El Mercurio e altri settori della destra cilena, per impedire prima di tutto che Salvador Allende venisse eletto. Una volta eletto, è dimostrato dagli stessi documenti americani il ruolo fondamentale dei soldi americani nella cospirazione e nella sedizione in Cile”, ricorda nel film l’avvocata Carmen Herz.

Il regista in campo
In questo senso vanno anche le interviste a due anziani militari argentini, uno rimasto libero perché non implicato negli abusi criminali di tanti suoi colleghi, e un altro intervistato nella prigione dove sta scontando la sua pena per omicidio e sequestro di persona. Colpiscono l’ottusità e le formule vuote usate dal primo, che non sembra avere realmente cognizione di causa di quello che dice, e l’assenza di onestà intellettuale nell’assumersi le proprie responsabilità del secondo.

Anche se lontano da opere complesse e monumentali di altri registi riconosciuti del documentario d’autore come per esempio Frederick Wiseman, quello di Moretti è un documentario d’autore, con un suo punto di vista, quindi non giornalistico. E quando dà la parola agli aguzzini e ai loro simpatizzanti resta comunque “uno di parte”, come dice esplicitamente lui stesso nel film. Di conseguenza non fornisce quella sorta di assoluzione che il carnefice sembra cercare, come Moretti ha il coraggio e l’onestà di dirgli in faccia. Queste due interviste sono uno dei pochi momenti dove la voce del regista è udibile fuori campo e l’unico momento dove il suo volto è in campo. Non a caso.

In questo documentario ci sono naturalmente molte altre voci, tutte da scoprire e ascoltare con attenzione, si ricostruisce il clima di gioia intensa nel paese, di felicità popolare, senza entrare nel dettaglio degli iniziali successi e delle successive difficoltà del governo di Allende, facendo così assurgere questi frammenti di intervista a esili ma preziosissimi frammenti di una memoria perduta, una memoria collettiva, duplice, binaria, una memoria su “noi e “l’altro”. Anzi, sul fatto che “noi” siamo “l’altro” e viceversa. Lo stile filmico leggero accentua la forza del messaggio, perché le questioni qui affrontate sono tanto gravi quanto è delicato il tocco con cui sono trattate.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it