09 settembre 2017 13:36

The National, Guilty party
I National non sono certo degli esordienti. Gran parte del pubblico, soprattutto quello italiano, li conosce da relativamente poco tempo, ma la band statunitense è attiva da almeno 16 anni. E questo lo si capisce bene da Sleep well beast, il loro settimo disco. Un album dal passo lento, nel quale il gruppo comincia per la prima volta a guardarsi indietro, a rallentare il ritmo e a esplorare atmosfere ancor più malinconiche del solito.

Insomma, i National sono invecchiati. Lo si sente nella voce del cantante Matt Berninger, che non ha più il baritono potente dei giorni migliori (durante i concerti la cosa comincia a essere un problema). Eppure i fratelli Dessner, che non vivono più a Brooklyn ma si sono spostati nella più bucolica cittadina di Hudson, hanno la situazione sotto controllo e dimostrano ancora una volta di essere le vere menti del gruppo. Hanno lavorato per sottrazione, mettendo attorno alla voce di Berninger degli arrangiamenti minimalisti, quasi da musica da camera. Il primo brano, l’elegante Nobody else will be there, è il manifesto dell’album: Berninger canta in modo quasi stentato, le chitarre sono nascoste, mentre l’elettronica e gli archi sono in primo piano.

I pezzi più interessanti sono quelli in cui la formula sonora dei National viene innovata: l’introversa Walk it back, dove un sintetizzatore dialoga con gli arpeggi, la catartica Empire line, un emozionante flusso di coscienza durante un viaggio in treno verso Albany, ma anche la sincopata Guilty party, in cui la band imita un po’ i Radiohead. Un altro pezzo ispirato e commovente è la conclusiva Sleep well beast, in cui i National fanno quello che gli riesce meglio: raccontare l’imperfezione delle relazioni umane, l’epica del quotidiano. Funzionano meno invece i momenti in cui i National vogliono fare troppo i National (il singolo The system only dream in total darkness, il rock inutilmente chiassoso di Turtleneck).

Nel complesso però Sleep well beast funziona, grazie alla sua coerenza stilistica e a un’atmosfera notturna che ricorda in parte gli episodi più introspettivi di Boxer. I National mettono a nudo la loro stanchezza, il declino diventa fonte d’ispirazione. Non sarà facile per loro fare un altro disco come questo.

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Tony Allen, Bad roads
Tony Allen è una leggenda della musica africana. È stato per anni il batterista di Fela Kuti ed è uno dei più importanti musicisti afrobeat viventi. Il suo nuovo disco si chiama The source ed è stato pubblicato per la prestigiosa etichetta jazz Blue Note, per la quale aveva già fatto uscire un ep tributo al batterista statunitense Art Blakey.

In The source la componente jazz classica prevale su quella afrobeat, ma il tocco di Allen resta inconfondibile. Le melodie e gli arrangiamenti sono frutto di un lavoro a quattro mani con il sassofonista Yann Jankielewicz. In un brano, Cool cats, c’è anche un cameo di Damon Albarn al pianoforte (i due negli anni scorsi hanno collaborato nei progetti The Good, The Bad and The Queen e Rocket Juice and The Moon). Alcuni pezzi, come Bad roads, costruita su un contrabbasso pulsante, sono davvero un concentrato di classe. Per i più nostalgici di Fela Kuti c’è Tony’s blues, dove i ritmi afrobeat vengono prepotentemente fuori.

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Vagabon, The embers
La settimana scorsa il New York Times ha pubblicato un articolo (pubblicato anche sul sito in forma multimediale) intitolato Rock’s not dead, it’s ruled by women. Il quotidiano sostiene che il miglior rock in circolazione negli Stati Uniti sia scritto e suonato dalle donne e fa diversi esempi. Tra le musiciste citate c’è Laetitia Tamko, cresciuta in Camerun e trapiantata a New York.

Tamko pubblica musica con il nome d’arte Vagabon. Il suo disco d’esordio, Infinite worlds, è uscito a febbraio, e mescola lo-fi, indie rock, chitarre alla Built To Spill e cantautorato rock alla Pj Harvey. Il pezzo che apre il disco è la dimostrazione di come la sua voce sappia essere tanto delicata quanto potente.

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Colapesce, Ti attraverso
Scrivere belle canzoni pop non è per niente facile. Colapesce sa farlo e lo conferma ogni volta che pubblica qualcosa di nuovo. Ti attraverso è il primo singolo estratto dal suo prossimo disco, ancora senza titolo né data d’uscita. È stato prodotto insieme a Mario Conte e a un altro autore italiano di primo livello, Jacopo Incani, in arte Iosonouncane.

Colapesce ha sempre una grande cura per gli arrangiamenti dei suoi pezzi e Ti attraverso non fa eccezione: il pezzo è guidato da un pianoforte beatlesiano, mentre le melodie vocali strizzano l’occhio a Lucio Battisti. Anche l’ironia, arma a doppio taglio di tanto scialbo cantautorato indie italiano, viene dosata il giusto (“Dai, ti porto a ballare, ti porto a ballare musica brasiliana, lascia stare gli inglesi, la trap, i cassoni non fanno per te, che sei nata e cresciuta a Catania”).

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Širom, Maestro kneading screams of joy
I Širom sono una band slovena di folk sperimentale. Del trio fanno parte Iztok Koren, Ana Kravanja e Samo Kutin. Scrivono e improvvisano musica ispirata ai paesaggi della loro terra, spesso usando strumenti costruiti da loro stessi.

Il video di Maestro kneading screams of joy è stato girato nell’altopiano del Carso. La canzone farà parte del secondo album, I can be a clay snapper, che è uscito l’8 settembre. C’è da perdersi, in mezzo alle immagini di questa natura e agli intrecci dei loro strumenti a corda.

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P.S. Continua l’aggiornamento della playlist di settembre, che trovate qui sotto.

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