31 ottobre 2017 14:00

Si chiama écriture inclusive, scrittura inclusiva, e da alcune settimane fa discutere l’opinione pubblica francese. Il Manuel d’écriture inclusive, curato dall’agenzia di comunicazione francese Mots-Clés, la descrive come un “insieme di attenzioni grafiche e sintattiche” che in un testo “permettono di assicurare uguale rappresentanza agli uomini e alle donne”. Nota e praticata da tempo negli ambienti femministi, ha cominciato a diffondersi in Francia nel 2015, quando l’Alto consiglio per l’uguaglianza tra donne e uomini (Hce) ne ha raccomandato l’uso.

Concretamente, si basa su poche semplici regole. Prescrive di declinare al femminile, quando è necessario, i nomi di professione (sindaca, ricercatrice, ingegnera). Raccomanda di sostituire le parole “uomo” e “donna” con parole o locuzioni più neutre e universali: “diritti umani” invece di “diritti dell’uomo”, per esempio, o “il corpo insegnante” invece di “gli insegnanti”. Invita a combattere la predominanza del maschile nella grammatica usando sia il femminile sia il maschile quando ci si riferisce a gruppi di persone: scrivendo “gli elettori e le elettrici”, “i collaboratori e le collaboratrici”, per esempio; oppure usando il point médian (punto mediano), un segno che separa e mette in evidenza le desinenze del maschile e del femminile: “un·a collega”, “gli·le italiani·e”, “molti·e collaboratori·trici”, “gli·le insegnanti”.

A fare esplodere la polemica è stato l’impiego della scrittura inclusiva in un libro destinato agli studenti francesi di terza elementare. “Molto fieri·e di aver pubblicato il primo manuale scolastico in scrittura inclusiva!”, ha twittato il 23 settembre la casa editrice Hatier.

Gli sforzi per dare visibilità linguistica alle donne si stanno diffondendo sempre di più

L’Alto consiglio per l’uguaglianza tra donne e uomini ha lodato l’iniziativa: “Le rappresentazioni a cui i·le cittadini·e sono costantemente esposti·e rafforzano gli stereotipi di genere e le disuguaglianze tra uomini e donne”, aveva denunciato l’istituzione nella sua guida.

Ma il giudizio non è stato unanime. Molti insegnanti hanno protestato spiegando che la scrittura inclusiva rende più difficile la lettura e confonde le idee ai ragazzi di terza elementare che devono imparare la grammatica. Il quotidiano Le Figaro ha parlato di “una lingua che disturba l’occhio ed è un insulto alla chiarezza e alla musicalità indissociabili dalla lingua francese”. Il filosofo e conduttore radiofonico Raphaël Enthoven ha denunciato “un’aggressione dell’egualitarismo alla sintassi” evocando la neolingua di 1984. Poi il 26 ottobre l’Académie française ha lanciato il suo grido d’allarme apocalittico : “Davanti a questa aberrazione ‘inclusiva’, la lingua francese è ormai in pericolo mortale, e di questo la nazione è da oggi responsabile di fronte alle generazioni future”.

Al femminile
L’aspirazione a una lingua meno sessista non è una prerogativa dei francesi. E alcune regole di quella che i francesi chiamano écriture inclusive sono note e rispettate in molti paesi. Pensate al femminile dei nomi di professione in italiano: a giudicare dalle schermaglie che si leggono su giornali e social network, c’è da pensare che anche se non tutti sono d’accordo, quasi tutti sono sensibili all’argomento.

Anche il point médian ha i suoi corrispettivi o quasi. Lo spagnolo usa la chiocciola al posto della desinenza di genere per lasciare la possibilità a chi legge di scegliere il maschile o il femminile: “compañer@“ invece di “compañero” o “compeñera”. Con la stessa funzione la chiocciola è usata anche in italiano, dove convive con l’asterisco in formule come “car* tutt*”.

Gli sforzi per dare visibilità linguistica alle donne sfruttando declinazioni, locuzioni, ripetizioni o parafrasi funzionano e si stanno diffondendo sempre di più. Al contrario, gli espedienti grafici come il point médian o l’asterisco faticano ad affermarsi, probabilmente perché hanno un problema di fondo: sono illeggibili, cioè impronunciabili, e di fatto invece di suggerire un’alternativa sembrano segnalare un vuoto, una mancanza, un’omissione. In definitiva risultano frustranti per il lettore.

Nella lingua inglese, dove non ci sono desinenze di genere, la distinzione tra maschile e femminile è affidata in gran parte ai pronomi he, maschile, e she, femminile, e ai relativi possessivi. In nome di una lingua meno sessista, nel mondo anglofono da alcuni mesi si discute la proposta di usare il pronome della terza persona plurale, they, come un pronome singolare privo di genere, chiamato singular they.

È ancora presto per dire se quest’uso si affermerà. Nel frattempo, per garantire pari visibilità linguistica a uomini e donne, l’inglese continua a usare un vecchio trucco: quando si riferisce a gruppi o professioni in generale, alterna indifferentemente il pronome maschile e quello femminile. È un accorgimento semplice e molto efficace, che funziona benissimo anche in italiano. Un esempio lo trovate nella pubblicità della nuova newsletter di Internazionale e Good Morning Italia, che non è rivolta solo alle donne anche se chiede: “Sei abbonata a Internazionale?”.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it