06 luglio 2017 12:16

Gentile bibliopatologo,
ho notato che da qualche anno molti libri hanno in copertina delle foto di facce. Forse il flagello è cominciato con La solitudine dei numeri primi di Paolo Giordano. Ecco, io se in copertina c’è un volto, bello o brutto, il libro non lo compro. Peggio ancora quando usano le facce degli attori del film tratto dal romanzo. Perché devono togliermi il diritto di immaginare il volto del protagonista?
–Sfacciato

Caro Sfacciato,
ma dove credi di vivere, nella casa delle libertà? Se Balzac avesse voluto lasciarti il diritto di immaginare i suoi personaggi, non avrebbe impiegato pagine e pagine per descriverli minuziosamente e per coartare quanto più possibile la tua fantasia indisciplinata da fricchettone. Di Vautrin, in Papà Goriot, ci dice perfino il colore della peluria sulle falangi. Certo, mi dirai, ho scelto come esempio proprio uno scrittore naturalista e ammiratore della fisiognomica di Lavater; ma tutta la storia del romanzo, specie ottocentesco, sta lì a ribadire l’illegittimità delle tue pretese.

Il problema, piuttosto, è un altro: è difficilissimo immaginare un volto mettendo insieme i pezzi forniti in una descrizione, anche la più viva e particolareggiata. Così funziona la nostra mente. Magari siamo in grado di riconoscere in un lampo, entrando in un bar semibuio, un tizio che avevamo visto l’ultima volta vent’anni prima sui banchi di scuola, quando non aveva ancora la barba ma aveva ancora tutti i capelli (quello del povero Fabris di Compagni di scuola, che nessuno riconosce, è un caso rarissimo); ma se dovessimo fornire alla polizia un identikit del nostro stesso volto, o del volto della persona a noi più familiare, stai sicuro che ne verrebbe fuori il ritratto di un perfetto sconosciuto.

Quando leggo la descrizione di un personaggio letterario cerco di ricavarne un’immagine, di mettere insieme il puzzle, ma girata la pagina ho già sovrapposto a quella faccia artificiosa i lineamenti di un conoscente, o di un paio di conoscenti accorpati. Balzac si sarebbe incazzato. Quanto meno, nei film più accurati o nei quadri che ritraggono personaggi dei classici (altra copertina ricorrente), i volti e i costumi sono scelti seguendo pedissequamente le indicazioni dell’autore.

Le copertine con volti non meglio identificati, di solito giovanissimi e diafani, le detesto cordialmente anch’io. Non sono così certo che il romanzo di Paolo Giordano abbia aperto le danze; forse ha solo reso accettabile presso l’editoria prestigiosa uno stile grafico tutt’altro che raro nell’editoria meno prestigiosa. Sta di fatto che alla copertina di La solitudine dei numeri primi (faccetta che sbuca dal fogliame, e ci fissa) è seguita quella di Bianca come il latte, rossa come il sangue di Alessandro D’Avenia (faccetta che sbuca da dietro un rametto, e ci fissa), e ancora altre faccette e altro fogliame. Ma cos’avranno da fissare, poi?

Il fatto è che quelle copertine vogliono cavarti di bocca due tra gli aggettivi più stucchevoli della lingua italiana, al cui congiungimento dobbiamo innumerevoli esemplari di kitsch letterario. Parlo di intenso e fragile. Propongo perciò di battezzarle “copertine Alba Rohrwacher”. Ma il vero dramma di queste facce è la loro assoluta fungibilità: i loro occhi vorrebbero trapassare l’anima del lettore con inaggirabili sguardi d’interpellazione, d’invocazione inerme, di fascinazione erotica – sguardi intensi e fragili, appunto; l’ironia vuole che finiscano per ricordare le fotografie più scialbe del mondo, quelle usate per riempire le cornici d’argento nei negozi di arredamento. Sarà per questo che non ho mai comprato una cornice d’argento e non ho mai letto un libro con la “copertina Alba Rohrwacher”.

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