18 gennaio 2018 17:07

Caro bibliopatologo,
abito sonorità diverse (la formula è di Julia Kristeva) da quando, anni fa, sono stata costretta ad abbandonare il mio paese e la mia lingua. Per chi una volta aveva immaginato la scrittura come destino, c’è la consapevolezza dell’esistenza di un altro esilio che può pesare fortemente: l’esilio dalla parola. Non ne faccio una tragedia, ne vediamo altre peggiori! Ma quando leggo nella mia lingua madre, mi perdo nell’incantesimo di parole quasi dimenticate che rendono ineffabile ciò che avrebbero dovuto nominare. E quando frequento autori che non posso leggere in lingua originale, faccio ricorso – non senza rimorsi – alla mia protesi, l’italiano, perché ormai la mia lingua, quella segreta, quella dei sortilegi, non mi sembra più adeguata. Credi che la mia patologia possa peggiorare avendo già raggiunto l’età della nostalgia?
– Stella

Cara Stella,
hai mai sentito parlare di Annette Mbongo Smith? È una scrittrice poco nota, perciò ti risparmio la fatica di cercare la sua voce su Wikipedia e ti riporto qualche notizia sulla sua vita e la sua opera:

Ultimo frutto del rigoglioso albero della letteratura meticcia, la Mbongo Smith è nata a Parigi da padre congolese e madre californiana e scrive in inglese storie ambientate nella sua terra d’adozione, Cipro. Dieci anni di lavoro per il suo romanzo d’esordio, Katofatos, termine dialettale cipriota, intraducibile, che indica la sensazione di avere l’orizzonte sempre alle spalle. Potremmo forse dire “spaesamento”, lo stato d’animo che viviamo per oltre mille pagine seguendo la protagonista nelle sue incessanti peregrinazioni, nel suo continuo sradicamento, così bene espresso da una lingua che salta continuamente dall’inglese turistico al cipriota (scelto per i dialoghi) al congolese, lingua dell’inconscio e delle viscere, con interiezioni indifferentemente prese dall’argot parigino o dallo slang giovanile di Los Angeles. L’edizione italiana di Katofatos è dedicata al traduttore che si è tolto la vita dopo aver consegnato le bozze.

Manca solo un’informazione: Annette Mbongo Smith non esiste, e quella che hai appena letto è una pagina satirica di Michele Serra sulle immaginarie novità editoriali del 2006. In compenso esiste – o meglio, è esistito, ma ha smesso di esistere più di cinquant’anni fa – il poeta americano William Carlos Williams, che nei primi anni venti scrisse alcuni bellissimi versi dedicati a una ragazza di nome Elsie.

La poesia cominciava così: “I frutti puri impazziscono”. Ti sto imbrogliando di nuovo, perché Williams dice più esattamente the pure products of America go crazy, ma è un imbroglio fatto a fin di bene. La versione amputata, infatti, è il titolo di un libro dell’antropologo James Clifford, I frutti puri impazziscono, che ti consiglio di leggere – anzi, che ti prescrivo – perché credo che dentro ci troverai i balsami essenziali per l’arsione della tua nostalgia.

Quelli che Clifford chiama i “frutti puri” sono le tradizioni autentiche, incontaminate, a cui regolarmente guardiamo come a un giardino perduto dal quale siamo stati scacciati e che ora è sorvegliato, come l’Eden dopo la caduta, da un cherubino dalla spada fiammeggiante che sbarra la via del ritorno. Ti cito qualche frase dalle prime pagine:

Se le tradizioni autentiche, i frutti puri, si stanno ovunque arrendendo alla promiscuità e all’insignificanza, la scelta della nostalgia non possiede fascino. Non c’è un ritorno possibile, non c’è un’essenza da recuperare. (…) Qualsiasi perseguimento di una terra promessa, qualsiasi ritorno a “sorgenti” originarie o recupero di una tradizione genuina implica discutibili atti di purificazione. Tali pretese di purezza sono in ogni caso sempre minate dal bisogno di inscenare autenticità in contrapposizione ad alternative esterne.

Ed ecco la mia domanda: sei sicura che la tua lingua madre non sia diventata un oggetto di nostalgia, un luogo simbolico a cui associare un sentimento di esilio, solo dopo che hai dovuto abbandonare il tuo paese e vivere tutti i giorni in mezzo a persone che si parlano con suoni per te poco familiari? È possibile, cioè, che nella tua nostalgia sia all’opera, come in tutte le nostalgie del resto, una potentissima illusione ottica, il miraggio dello specchietto retrovisore?

Sono congetture che faccio con tutta la circospezione del caso perché non ho mai dovuto, finora, abbandonare il mio paese, quindi è probabile che io abbia preso fischi per fiaschi. Non me ne volere. Ma prova a dare un’occasione, anche una soltanto, alla mia idea: che la lingua d’origine sia diventata per te la sonorità segreta dei sortilegi e degli incantesimi, l’eco intima delle cose ineffabili, proprio perché te ne senti esiliata. Se così fosse, non hai perso una lingua madre: hai trovato una lingua magica.

Il bibliopatologo risponde è una rubrica di posta sulle perversioni culturali. Se volete sottoporre i vostri casi, scrivete a g.vitiello@internazionale.it.

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