07 marzo 2019 16:33

Gentile bibliopatologo,
di recente ho lasciato la casa che condividevo con una coinquilina che non mi era affatto simpatica. Nel soggiorno comune aveva allestito il suo scaffale che conteneva un po’ di tutto: da Borges a Dan Brown, da Ernst Jünger a Baricco. Dopo essermi trattenuta per i mesi della convivenza, al momento di lasciare l’appartamento ho confiscato sei libri per sottrarli a tale confusa promiscuità. Non era la prima volta che mi capitava di appropriarmi di nascosto di opere di autori amati per salvarli da compagnie disdicevoli. Mi giustificavo pensando che anche loro, i libri, avrebbero approvato. Si tratta di snobismo? Cleptomania? Gelosia da scaffale? O forse è solo sete di giustizia?

–Greta

Gentile bibliopatologo,
tutti i libri comprati e divorati in questi anni avevano trovato una loro collocazione nella piccola casa in affitto condivisa con il mio fidanzato. Dovrei chiamarlo ex, perché non stiamo più insieme. Ci siamo lasciati perché, dopo un fidanzamento di dodici anni, una notte ho scoperto che lui aveva un figlio da un’altra donna. Ma il punto non è questo. Il punto è che il figlio è stato concepito nel salotto di quella casina, proprio davanti ai miei libri. Ora che il dolore comincia a rarefarsi per lasciar spazio all’amarezza, mi chiedo se anche i libri si siano sentiti feriti e oltraggiati. Hanno anche loro bisogno, come noi tutti, di essere salvati da qualcuno?

–Giulia

Cara Greta, cara Giulia,
ho un atroce sospetto: niente niente eravate coinquiline, voi due? La congettura aprirebbe un ventaglio entusiasmante di possibilità romanzesche ma, se per avventura si rivelasse corretta, mi proietterebbe sul podio dei più grandi gaffeur di tutti i tempi. A ogni modo, che abbiate condiviso o meno lo stesso tetto, di certo condividete un’idea: che i libri debbano essere salvati. Quella parola potrebbe condurci facilmente a Rainer Maria Rilke e alla nona elegia duinese, dove le cose effimere “confidano che noi, più effimeri di tutti, le salviamo”, ma preferisco che mi seguiate per una via un po’ più tortuosa.

Japatino, Getty Images

Se i libri rischiano di soffrire la promiscuità di uno scaffale mal assortito, se possono sentirsi oltraggiati da un tradimento amoroso consumato all’ombra dei loro dorsi, vuol dire che sono dotati di una vita propria e di una propria coscienza. In altre parole, care Greta e Giulia, siete due lettrici animiste. Uso una nozione un po’ desueta, coniata dagli etnologi ottocenteschi per descrivere le religioni dei popoli primitivi, e tuttavia non lo faccio per meglio apparecchiarvi una lezioncina illuministica. Certo, farei presto a dirvi che i libri sono oggetti tra gli oggetti, inerti parallelepipedi di carta senza volontà né anima, che se ne infischiano di dove li posiamo e di cosa facciamo in loro presenza, e soprattutto non si curano della fantasmagoria di proiezioni interiori con cui li avvolgiamo. Ma è un altro il motivo per cui parlo di animismo: perché prima di me lo aveva già fatto un grande bibliofilo, lo scrittore britannico Holbrook Jackson.

Alcuni lettori, si legge in The anatomy of bibliomania (1930), “arrivano ad amare i libri di per sé stessi, li trasfigurano mediante le passioni, e per un geniale animismo li rendono più reali, più vivi di ogni altra cosa corporea”. Il capitolo in cui cadono queste frasi si intitola Of bookfellowship, e con un florilegio di citazioni erudite – le opere che i grandi bibliofili dedicano alla loro mania fanno spesso il verso ai trattati barocchi – parla appunto della compagnia dei libri: Holbrook Jackson assicura che sono i migliori tra gli amici, che con i libri puoi conversare amabilmente, che restano sempre uguali a sé stessi eppure sono nuovi ogni volta, che non si offendono se li trascuri e sono sempre pronti a spalancare le pagine per te.

Non vi chiedo di abbandonare il vostro animismo, senza il quale la vita del lettore sarebbe una cosa ben triste; vi chiedo, al contrario, di abbracciarlo fino in fondo e di portarlo alle logiche conseguenze. Se i libri hanno un’anima, nulla vi autorizza a supporre che sia una mera proiezione della vostra.

Che ne sai, cara Greta, che a differenza di te e della tua coinquilina antipatica, Borges e Dan Brown non andassero d’amore e d’accordo, felici di condividere lo stesso scaffale sotto l’occhio spento ma vigile del bibliotecario Jorge de Burgos?

E chi ti dice, cara Giulia, che i tuoi libri non si siano appassionati a quella storia segreta di passione e infedeltà? In fondo, si saranno detti nei loro simposi notturni, mentre tu ignara dormivi nella stanza accanto, molti di noi – specie gli amici dello scaffale “romanzo francese ottocentesco” – non raccontano d’altro: una volta tanto non possiamo assistere a un adulterio vero? Perché questa padrona gelosa deve imporci il trasloco impedendoci di conoscere le tappe successive della storia?

Se i libri non hanno un’anima, allora sono del tutto indifferenti al luogo in cui sono riposti; se invece ce l’hanno, ebbene, quell’anima non è la vostra, è la loro. La vita delle cose “stranamente ci riguarda”, dice Rilke nella sua elegia. Stranamente: nell’ansia di specchiare la vostra anima nell’anima dei vostri libri, state attente a non perdere di vista quell’avverbio.

Il bibliopatologo risponde è una rubrica di posta sulle perversioni culturali. Se volete sottoporre i vostri casi, scrivete a g.vitiello@internazionale.it.

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