20 giugno 2017 17:56

È passato quasi un mese da quando una banda di miliziani armati ha preso d’assalto il centro di Marawi, nel sud delle Filippine, sventolando la bandiera nera del gruppo Stato islamico (Is) e, nonostante i capi dell’esercito contassero di reprimere la rivolta in pochi giorni, il 20 per cento della città è ancora nelle mani dei jihadisti.

Marawi, duecentomila abitanti quasi tutti sfollati dopo l’attacco dei fedeli dell’Is, è il cuore musulmano dell’isola di Mindanao, la seconda dell’arcipelago per estensione, dove vive gran parte della minoranza musulmana del paese (il 5 per cento della popolazione), a maggioranza cattolica. Mindanao è anche l’isola da cui proviene il presidente Rodrigo Duterte che, impegnato nella sua lotta armata alla droga, a quanto pare aveva preso sotto gamba la minaccia islamista nella regione.

Il gruppo che guida l’insurrezione in nome del califfo, capeggiato dai due fratelli Omar e Abdullah Maute, nel novembre del 2016 aveva tentato un’impresa simile nel villaggio di Butig, non lontano da Marawi. Issata la bandiera nera dell’Is sulla sede del municipio, occupate una moschea e una scuola, i circa duecento uomini guidati dai Maute hanno resistito quattro giorni all’intervento dell’esercito. Stavolta, invece, sembrano essersi organizzati e armati meglio, avvantaggiati anche da una conoscenza dettagliata della città.

Ma chi sono questi jihadisti che hanno giurato fedeltà al califfo? E quanto è plausibile che l’Is riesca ad attecchire a migliaia di chilometri di distanza da Raqqa e a fondare un califfato nell’arcipelago asiatico? Le risposte e una breve storia dell’insurrezione islamista a Mindanao, sede di movimenti separatisti armati fin dai tempi della colonizzazione spagnola, ce le fornisce Paolo Affatato nel capitolo dedicato alle Filippine di A oriente del califfo, un volume a cura di Emanuele Giordana da poco uscito per Rosenberg&Sellier con contributi di Giuliano Battiston, Guido Corradi, Tiziana Guerrisi, Matteo Miavaldi, Massimo Morello, Andrea Pira, Ilaria Maria Sala, Lucia Sgueglia.

Insurrezioni locali e tensioni postcoloniali mai sopite creano terreni fertili per il progetto jihadista

Una guida utile alla galassia sunnita fuori dal mondo arabo dove lo Stato islamico prova, con più o meno successo, a espandere la sua influenza o dove semplicemente i riverberi del jihad globale generano nuovi accoliti, proprio come succede in Europa, in Africa, negli Stati Uniti o in Australia. Paesi o province dell’Asia a maggioranza musulmana (o con una presenza importante di comunità di fede islamica) che insurrezioni locali, frustrazioni secolari e tensioni postcoloniali mai sopite rendono terreni potenzialmente fertili per un allargamento a est del progetto di Al Baghdadi, ma dove non è scontato che l’Is riesca davvero a mettere radici.

L’Afghanistan e il Pakistan in primis, paesi dove l’Is ha stabilito una succursale locale nella provincia del Khorasan sfruttando le divisioni interne ai taliban e dove però deve vedersela con Al Qaeda, oltre che con gli stessi taliban. Prima che le notizie della battaglia di Marawi arrivassero sui nostri giornali, l’idea di una presenza dello Stato islamico in Asia era limitata a questa parte di mondo alle prese con una guerra contro la militanza armata che dura da diciassette anni e non fa che peggiorare.

Ma il miraggio di un califfato, veicolato da una strategia di comunicazione sofisticata e accattivante, ha già sedotto giovani frustrati partiti per la Siria e l’Iraq come foreign fighters dalla Russia e dalle repubbliche ex sovietiche del Caucaso e dell’Asia centrale, dove i regimi autoritari usano il pericolo del jihad per reprimere gli oppositori e i dissidenti; dall’Indonesia, il paese musulmano più popoloso al mondo già alle prese con il terrorismo islamico interno e dove il progetto del califfo è stato abbracciato da esponenti dei movimenti radicali preesistenti; dalla Thailandia a maggioranza buddista, con un’insurrezione armata nel sud musulmano in corso dai primi anni duemila; dallo Xinjiang, la regione cinese tradizionalmente abitata dalla minoranza musulmana degli uiguri, repressi culturalmente e violati nella loro libertà di culto dalle autorità di Pechino, che a forza di mandare cittadini di etnia han a colonizzare l’ex Turkestan orientale con l’intento di disinnescare la minaccia separatista ne ha alterato la demografia.

Ma oltre ad attrarre nuovi combattenti in Siria e in Iraq, l’Is negli ultimi due anni ha ispirato azioni violente contro gli attivisti laici che in Bangladesh criticano apertamente l’estremismo religioso. Ed è facile che l’ideologia del califfato possa far presa sull’esasperazione dei musulmani vessati dai fondamentalisti buddisti in Birmania o dai nazionalisti indù in India.

Le ragioni che rendono la galassia a est di Raqqa vulnerabile al messaggio di Al Baghdadi sono tante e legate alla storia e al presente di ciascun paese. Farsi un’idea di quali siano aiuta a capire, per esempio, come mai in queste ore una città nel sud delle Filippine sia ostaggio di quattrocento giovani, adolescenti o poco più, che stanno dando del filo da torcere al governo di Manila.

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