11 gennaio 2018 17:56

Mildred ha deciso. Si presenta dal concessionario pubblicitario della cittadina in cui vive e affitta tre grandi cartelloni pubblicitari piazzati, uno in fila all’altro, in una delle strade che entrano in paese. Non per pubblicizzare qualcosa, ma per una sua denuncia personale. Sette mesi prima la sua figlia adolescente è stata violentata e uccisa, ma la polizia locale non ha risolto niente.

Qua e là questo articolo può contenere degli spoiler, quindi occhio.

L’atto di Mildred può essere interpretato in tanti modi, come una denuncia, ma anche come un disperato grido di aiuto da parte di una donna che non si dà pace. Fatto sta che questa sua “campagna” (chiamiamola così) avrà molte conseguenze. Presentato a Venezia dove ha vinto il premio per la migliore sceneggiatura e fresco vincitore di quattro Golden globe, Tre manifesti a Ebbing, Missouri del regista e commediografo londinese di origini irlandesi Martin McDonagh (In Bruges) è bellissimo e complesso. Può essere interpretato e visto in tanti modi e non necessariamente ce n’è uno migliore dell’altro.

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Nick James, su Sight & Sound, ha scritto che i tre grandi cartelloni pubblicitari praticamente abbandonati, a cui Mildred decide di dare una seconda vita, sono perfetti per rappresentare le promesse mancate di un’America che ha smarrito se stessa, in un luogo, il Missouri, in cui dalla conquista del west a oggi sono cambiate davvero poche cose. Anch’io per lunghi tratti del film ho pensato a una società americana che non crede più in se stessa. Ma più che un film sulle contraddizioni degli Stati Uniti, Tre manifesti sembra quasi indicare una possibile ancora di salvezza.

Non si può dire che sia un film ottimista, ma forse suggerisce che invece di decidere chi siamo attraverso internet o la tv, faremo meglio a guardarci intorno, a interessarci di quello che succede alla porta accanto, al piano di sotto, nella strada di casa eccetera. E McDonagh suggerisce questo attraverso dei personaggi (almeno tre, a cui se ne aggiungerei personalmente un altro paio) eccezionali, tra l’altro interpretati da attori eccezionali. Prima di tutto Mildred, interpretata da Frances McDormand. In certi momenti, quando attraversa la main street di Ebbing, mi ha fatto pensare a John Wayne che dalla prigione se ne va al saloon senza preoccuparsi che qualcuno presto o tardi gli sparerà addosso.

Poi c’è Woody Harrelson nei panni dello sceriffo Bill Willoughby. È con lui che se la prende Mildred con i suoi cartelloni. Probabilmente sono cresciuti insieme proprio a Ebbing, probabilmente Mildred sa che lui ha fatto tutto quello che poteva per trovare chi ha ucciso la figlia. Ma sarà proprio lui a capire che con il suo gesto Mildred vuole semplicemente dare un taglio alle cazzate, alle ipocrisie, alle cose non dette che però tutti sanno. E Willoughby, forse anche perché non ha scelta, decide di cogliere fino in fondo l’invito di Mildred.

Infine Jason Dixon, interpretato da Sam Rockwell. Goffo, ignorante, suscettibile, al limite dell’idiozia, l’agente Dixon diventa la dimostrazione che le azioni di Mildred e il “sacrificio” di Willoughby a qualcosa possono servire e che gli esseri umani, anche e soprattutto i più malridotti, trovano senso all’interno di una comunità. Partire da soli per un viaggio verso l’ignoto è un gesto disperato. Partendo insieme a qualcun altro è più probabile che si arrivi da qualche parte.

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Non ce ne voglia il buon Carlo Verdone autore, regista e interprete (accanto a Ilenia Pastorelli) di Benedetta follia. Ma il film da non perdere questa settimana è quello di Martin McDonagh.

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