12 aprile 2018 18:36

La casa sul mare, il nuovo film di Robert Guédiguian, è ambientato in una calanque, un’insenatura stretta in cui le rocce si tuffano nel Mediterraneo, non lontana da Marsiglia. È un ambiente familiare per il regista marsigliese, come familiari sono i tre attori principali, presenti in praticamente tutti i film di Guédiguian. Ariane Ascaride, Gérard Meylan e Jeanne-Pierre Darroussin interpretano tre fratelli che si ritrovano al capezzale del padre, proprietario di un piccolo ristorante sul mare. Ognuno di loro si porta dietro la sua storia, più o meno drammatica, di cui l’eredità paterna scriverà un capitolo importante. In quello che potrebbe sembrare un melodramma familiare sospeso in uno scenario senza tempo, irrompe l’attualità che ha l’aspetto di tre bambini migranti, braccati dalla polizia. Guédiguian non tradisce i suoi estimatori. Come scrive Jean-Baptiste Morain su Les Inrockuptibles “è incredibile come il regista, con il suo lato nostalgico e il suo cinema che sembra immutabile, riesca a parlarci della nostra realtà”.

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“Nessuno ha la forza di fermare un’indagine dell’Fbi, neanche l’Fbi”, tuona a un certo punto Mark Felt, The silent man per alcuni, Gola profonda per altri. È lui il protagonista del film di Peter Landesman, tratto dall’autobiografia scritta dallo stesso Felt, subito dopo aver rivelato a Vanity Fair che fu proprio lui l’informatore di Woodward e Bernstein. Il film racconta con un ritmo piuttosto compassato le scosse politiche che hanno seguito la morte di J. Edgar Hoover, mentre alla Casa Bianca c’era Richard Nixon. Ovviamente dà spunti per riflettere sulla fragilità della democrazia e altre amenità, ma rimane piuttosto superficiale e cede alla retorica sul patriottismo statunitense.

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Nella primissima scena di Il cratere, il film di Silvia Luzi e Luca Bellino, presentato all’ultima Mostra del cinema di Venezia, una bambina ripete una lezione sul verismo di Verga (in italiano) e sul realismo di Flaubert (in francese) davanti allo specchio, accennando anche quelli che sembrano passi di danza. Può suonare come una dichiarazione d’intenti degli autori che per interpretare Rosario e sua figlia Sharon hanno scelto proprio i veri Rosario e Sharon, che in qualche modo reinterpretano la loro storia. Rosario è un ambulante in cerca di riscatto da una vita dura che punta tutto sul successo della figlia di 13 anni, Sharon, che ha una bella voce e sa cantare bene. La strada che l’uomo ha scelto per la figlia è davvero stretta. E strette, claustrofobiche, sono anche le inquadrature in cui Luzi e Bellino hanno incastrato tutto il loro film. Del resto angusta e soffocante è anche la realtà in cui vivono Rosario e Sharon. Come se ne esce?

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Nel film di Kim Ki-duk, Il prigioniero coreano, un pescatore della Corea del Nord con la barca senza più benzina va alla deriva verso sud. Scattano i meccanismi che regolano la tensione tra le due Coree. Le autorità di Seoul prima provano a far confessare al povero pescatore di essere una spia di Pyongyang, poi cercano di convincerlo a diventare un dissidente. Il povero pescatore vorrebbe tornare dalla sua famiglia al nord, ma pensa davvero che i nordcoreani prenderanno per buona la sua versione dei fatti? Le Monde parla di “odissea kafkiana” per un uomo “spezzato dal regime totalitario” di una Corea, ma “incapace di vivere nell’eden capitalistico promesso dall’altra”.

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Condannato per frode fiscale, Numa Tempesta, finanziere potente e senza scrupoli, è costretto a prestare servizio in un centro di accoglienza per senza dimora come pena alternativa al carcere. Numa (Marco Giallini), abituato a gestire miliardi di euro, si trova costretto a scroccare telefonate a poveracci che faticano a mettere insieme cinque euro per una ricarica del cellulare. Tra loro Bruno (Elio Germano) con cui Numa stabilirà un rapporto piuttosto stretto. Nelle intenzioni di Luchetti, il film è una “una farsa sociale”, una “commedia invernale” sul potere del denaro. Invernale, ma forse troppo distaccata e quindi un po’ indulgente, nei confronti di tutti, miliardari, poveracci ed escort.

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Nel 2012 Rupert Everett ha avuto un grandissimo successo portando in scena Oscar Wilde nel dramma di David Hare, The Judas kiss. La pièce raccontava i momenti cruciali nella vita del celebre scrittore condannato ai lavori forzati per reati legati all’omosessualità. In The happy prince, Rupert Everett (che è anche al suo debutto alla regia) torna a vestire i panni di Wilde nell’ultimo scorcio della sua vita, quando, uscito di prigione e deciso a non tornare più in Inghilterra, finisce i suoi giorni povero e malato in Francia. Un seguito ideale dunque di The Judas kiss, in cui l’attore britannico ha investito molto. Anche se, come scrive Tim Robey sul Daily Telegraph, il film verso il finale va un po’ troppo in cerca della lacrima facile, è innegabile “l’empatia di Everett verso un personaggio che, evidentemente, sente più suo” di ogni altro personaggio interpretato nella sua lunga carriera.

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In uscita anche Rampage. Furia animale, di Brad Peyton, con Dwayne “The Rock” Johnson alle prese con degli animali infettati da un virus (creato dall’uomo) che li trasforma in predatori che crescono a dismisura.

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