15 giugno 2018 06:54

Nella Stanza delle meraviglie di Todd Haynes ci sono molte cose belle. Il film è tratto dal libro di Brian Selznick (che ha anche sceneggiato il film), lo stesso autore della Straordinaria invenzione di Hugo Cabret. E non mancano i punti in comune. I protagonisti sono due bambini di dodici anni. Nel 1927, Rose scappa di casa e dal New Jersey va a New York, in cerca della madre, diva del muto, impegnata a Broadway. Nel 1977, Ben scappa di casa e dal Montana va a New York, in cerca del padre di cui non ha alcun ricordo. Tutti e due i bambini sono sordi, tutti e due finiscono al museo di storia naturale di Manhattan. Le loro storie si specchiano e s’intrecciano.

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Millicent Simmonds (la bambina sorda apprezzata recentemente in A quiet place) e Oakes Fegley sono meravigliosi rispettivamente nella parte di Rose e in quella di Ben. E sono incavolati con il mondo, il che stempera almeno un po’ quella sorta di ricatto per cui siamo forzati all’empatia e alla tenerezza nei confronti di bambini carini protagonisti dei film. E poi, per lunghi tratti, siamo costretti nel punto di vista di un bambino sordo. Non sentiamo le voci e, nel caso di Ben, non capiamo neanche il linguaggio dei segni.

Panorami e diorami hanno un ruolo fondamentale nel film. Di solito i plastici (per esempio quello leggendario della Roma antica che sta al museo Pigorini) esercitano un grande fascino. Ma qui la cosa sembra cercata in modo artificioso. Il regista di Io non sono qui e Carol è capacissimo di dar vita a ricostruzioni minuziose, ma non arriva al nitore di Wes Anderson. L’omaggio al cinema muto, poi, in alcuni tratti è grossolano e quasi sfiora la parodia.

Ma forse il difetto più grande di La stanza dei sogni è che a un certo punto Haynes sembra alzare il piede dall’acceleratore. Eravamo tutti pronti a un finale strappalacrime che non arriva mai, lasciandoci a metà strada con un bel groppo in gola. La luce che illumina il diorama si spegne e Haynes non ci dà più monetine per riaccenderla.

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A quiet passion è molto di più di una biografia di Emily Dickinson. Il regista britannico Terence Davies s’impegna a dare molte più dimensioni alla storia, proprio come dovrebbe fare chi vuole proporre un ritratto di un grande poeta o di un grande artista. Emily Dickinson è perfetta per rappresentare un mondo (quello di metà ottocento) bloccato in modelli che ormai gli vanno troppo stretti. Più che una rivoluzionaria o un’anticonformista per ribellione, Dickinson è più semplicemente avanti. Intorno a lei una famiglia che non la isola, ma semmai la protegge.

Cynthia Nixon è perfetta nella parte: anche se è un volto popolare non è mai invadente. Anzi. Ma è vero che tutto il cast funziona alla grande. L’unico rimpianto è di non essermi preparato adeguatamente sulla poesia di Emily Dickinson prima della visione. Chi può rimedi.

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In Ogni giorno, di Michael Sucsy, Rhiannon (Angourie Rice) è fidanzata con Justin, un ragazzo superficiale che la trascura. Un giorno però, Justin è diverso dal solito, più premuroso e gentile. Rhiannon è piacevolmente sorpresa ma poi scopre che Justin era “posseduto” da A, un essere, un’entità che ogni giorno si sveglia in un corpo diverso. Adesso A e Rhiannon si sono innamorati. A questo punto Rhiannon cambierà partner ogni giorno pur di rimanere sempre insieme ad A. Che meraviglioso rompicapo. Al di là di come andrà a finire, Rhiannon scoprirà che l’apparenza, le convenzioni e i pregiudizi in amore non contano e non devono contare. Se Ogni giorno, tratto da un romanzo di David Leviathan del 2012, fosse stato una commedia o un horror magari sarebbe stato all’altezza di una premessa quantomeno curiosa. Invece si prende molto sul serio. Leviathan nel 2015 ha scritto anche il seguito, Another day. Visti i tempi è facile che anche i produttori cedano alla lusinga di un sequel.

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