27 marzo 2024 11:55

Sette donne e un uomo posano in una stanza. Due sono a capo scoperto, indossano abiti moderni, le altre portano copricapi e abiti tradizionali. Hanno in mano pezzi di stoffa o rocchetti, alcune sono impegnate a cucire. Due sono in piedi, lo sguardo fisso in camera. Alle loro spalle è appeso un cartello su cui c’è scritto, in arabo e inglese: “Sindacato delle donne arabe di Ramallah”. La fotografia è datata tra il 1934 e il 1939.

Due beduini posano davanti alla loro tenda, tra la fine dell’ottocento e l’inizio del novecento. Sono coperti da lunghe vesti tradizionali, lei ha i capelli raccolti in grandi trecce nere, lui ha una sciarpa bianca che gli incornicia il viso, tenuta da un solido cordone nero.

Due ragazze di Nazareth si abbracciano, guardando dritte nell’obiettivo, senza sorridere. Sono clienti di Karima Abbud, la prima fotografa professionista palestinese, che nel 1928 gestiva uno studio a Gerusalemme e uno ad Haifa.

Sono alcune delle immagini contenute nel libro Against erasure: a photographic memory of Palestine before the Nakba, appena uscito nel Regno Unito per la casa editrice Haymarket books, dopo una prima pubblicazione in Spagna, e curato dalla fotografa Sandra Barrilaro e dalla giornalista Teresa Aranguren, entrambe spagnole, con una profonda conoscenza del conflitto israelo-palestinese. È una testimonianza visiva della società palestinese prima del 1948, quando centinaia di migliaia di persone furono costrette a lasciare le loro case e le loro terre in seguito alla creazione dello stato d’Israele, in quella che i palestinesi chiamano Nakba, catastrofe. È una società ricca, sfaccettata, moderna. Le fotografie – raccolte soprattutto dagli archivi di famiglia grazie ad anni di lavoro dello storico Johnny Mansour, che vive ad Haifa – ne mostrano tanti aspetti: il lavoro (agricoltura, pesca, artigianato), la sanità (medici e infermieri, pazienti, strutture) e la vita sociale, con persone di diverse estrazioni e provenienze ritratte in posa o nella quotidianità. Ci sono ritratti individuali e di gruppo: squadre di calcio, classi e gite scolastiche, formazioni politiche, familiari, amici e colleghi.

Sono gli anni tra la fine dell’impero ottomano e il dominio britannico sulla Palestina. Anni di grandi trasformazioni e turbolenze, in cui i segni della catastrofe futura erano già visibili all’orizzonte. “Lunga vita alla Palestina”, si legge su una bandiera nera issata nel bazar di Gerusalemme il 2 novembre 1917, il giorno in cui fu firmata la dichiarazione di Balfur, che prevedeva di creare una “dimora nazionale per il popolo ebraico” in Palestina all’indomani della prima guerra mondiale. Quel giorno i negozi del bazar restarono chiusi in segno di protesta, come mostra una foto in cui si vede una fila di portoni di legno sbarrati. Vent’anni dopo la popolazione palestinese insorse contro le politiche britanniche e l’aumento dell’immigrazione ebraica. La rivolta durò tre anni, dal 1936 al 1939, e fu repressa con violenza dalle truppe britanniche, come illustrano le fotografie dei soldati tra le macerie delle case fatte saltare in aria a Jaffa e degli abitanti che rovistano in cerca delle loro cose nelle cittadine di Lidda (oggi Lod) e Halhul.

Durante i ventisei anni di mandato britannico (dal 1922 al 1948), varie ondate di immigrazione ebraica trasformarono la composizione demografica della Palestina. Nel 1947 gli ebrei formavano ormai il 33 per cento della popolazione totale, anche se possedevano ancora solo il 6,6 per cento del territorio. Dopo la seconda guerra mondiale decine di migliaia di sopravvissuti all’Olocausto emigrarono in Palestina, incoraggiati da un movimento sionista sempre più forte. Nel novembre 1947 le Nazioni Unite approvarono un piano che prevedeva la divisione della Palestina in due stati, uno per la popolazione ebraica e uno per quella araba, e l’amministrazione della città di Gerusalemme da parte di un’entità internazionale speciale. In seguito le forze britanniche si ritirarono dalla Palestina e Israele dichiarò l’indipendenza il 14 maggio 1948. Così scoppiò la prima guerra arabo-israeliana, nella quale Egitto, Iraq, Giordania, Libano e Siria invasero Israele, che vinse il conflitto e conquistò il 77 per cento del territorio palestinese.

Durante la guerra e nel periodo precedente le milizie israeliane cacciarono circa 750mila palestinesi dalle loro case e ne uccisero almeno 15mila. Il libro Against erasure documenta lo spopolamento di 418 villaggi palestinesi durante la Nakba. Furono completamente distrutti o ci andarono a vivere nuovi abitanti ebrei, che cambiarono i nomi dei luoghi in quello che lo storico palestinese Saleh Abdel Jawad ha definito “sociocidio”. In una delle introduzioni al volume, Bichara Khader, esperto di mondo arabo dell’università di Louvain, in Belgio, ricorda che il termine si riferisce alla “distruzione totale dei palestinesi, non solo come entità politica o come gruppo politico nazionale, ma come persone”, accompagnata da un “memoricidio”, la cancellazione della memoria individuale e collettiva.

Una memoria che invece è riaffermata e valorizzata nelle pagine del libro, fotografia dopo fotografia. Per ricordare, come commenta lo scrittore, poeta e attivista palestinese Mohammed el Kurd nella prefazione, che “la storia della Palestina non è cominciata con la fuga”. E anche per sfidare la narrazione dominante e il “brutale revisionismo” che ha raccontato la Palestina come una terra “senza popolo” o con abitanti privi di radici, nomadi e sottosviluppati. E soprattutto, conclude El Kurd, per “fermare la mistificazione della Nakba architettata dal punto di vista culturale e politico che, per generazioni, ha fatto sembrare il suo annullamento talmente remoto da essere impossibile”.

Il libro mostra anche immagini della Nakba: gli antichi palazzi della città vecchia di Haifa demoliti dalle truppe israeliane; alcune ragazze che trasportano pochi averi sulle carrozzine mentre lasciano Jaffa; una lunga colonna di camion pieni di profughi che da Gaza si dirigono verso Hebron; folle che dalla spiaggia di Gaza cercano di salire a bordo di piccole barche che stanno per salpare verso il Libano e l’Egitto. E poi si vedono i primi campi profughi: Nahr el Bared, nel nord del Libano; Aida, vicino Betlemme; Qalandia, tra Gerusalemme e Ramallah, dove all’inizio degli anni cinquanta alcune ragazze giocano a basket con un canestro improvvisato in un terreno ancora incolto e disabitato.

Forse, come molte persone della loro generazione, pensavano che l’esilio sarebbe stato temporaneo, che il diritto al ritorno nelle loro case e nelle loro terre, riconosciuto anche dalla risoluzione 194 approvata dall’assemblea generale dell’Onu nel dicembre 1948, sarebbe stato garantito. Invece ora, 76 anni dopo, si rischia una nuova Nakba nella Striscia di Gaza, dove più di 32mila persone sono state uccise e più di un milione sono state costrette a lasciare le loro case dopo l’inizio dell’operazione militare israeliana in risposta all’attacco di Hamas nel suo territorio il 7 ottobre 2023. E aumentano le violenze dei coloni e dell’esercito israeliano in Cisgiordania, dove negli ultimi mesi sono stati uccisi più di quattrocento palestinesi.

Di fronte a queste nuove atrocità è bello immergersi nelle immagini di una Palestina senza muri di separazione, senza insediamenti illegali, senza checkpoint. Una Palestina dove tutti i suoi abitanti erano liberi di muoversi, studiare, lavorare e amare. Tre immagini raccolte nel volume mostrano i passaporti appartenenti agli Al Farra, una famiglia cristiana di Haifa che amava molto viaggiare. Durante l’assedio e il bombardamento della città, nell’aprile del 1948, gli Al Farra cercarono rifugio nella loro casa di campagna sul monte Carmelo. Una foto li ritrae intorno a un tavolo sotto agli ulivi. Rimasero lì per due anni e poi tornarono ad Haifa, dove trovarono la loro casa occupata da una famiglia ebrea. I documenti furono emessi nel 1944 sotto il mandato britannico. C’è scritto “Passaporto di Palestina” in inglese, arabo ed ebraico.

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