Forse è cosi che finisce tutto: autogoverno, autodifesa, autocontrollo, libertà, unità, famiglia. Forse il destino degli Stati Uniti è veder morire la propria anima insieme ad almeno 19 bambini e due adulti, massacrati il 24 maggio in una scuola elementare di Uvalde, in Texas. Ci siamo noi, il popolo statunitense, da entrambi i lati di quell’arma e di un’infinità di altre armi, in un’infinità di parchi giochi, centri commerciali, strade e case, che uccidono i nostri figli e noi stessi. Che uccidono il nostro futuro. È questo che siamo diventati: non possiamo più mandare i nostri figli a scuola senza l’ansia che finiscano sotto tiro. Quando ci sentiamo in pericolo tiriamo fuori le nostre armi. Le nostre armi ci mettono in pericolo, quindi ne compriamo altre.

Nel 1838 Abraham Lincoln disse che gli Stati Uniti non sarebbero mai stati sconfitti da un nemico straniero: il vero pericolo veniva dall’interno. “Se la distruzione sarà il nostro destino, ne saremo gli autori e gli esecutori. Come nazione di uomini liberi, supereremo tutto o moriremo per suicidio”. Lincoln era ormai presidente quando il paese rischiò per la prima volta il suicidio per decidere se libertà significa che qualcuno è libero di sfruttare gli altri o che tutti devono essere liberi. La guerra civile fu semplice, con un nemico chiaro (anche se eravamo noi stessi) che indossava uniformi diverse. Ora non è più così semplice. Siamo ancora il nostro nemico, ma per cosa ci stiamo uccidendo? Non lo sappiamo. Continuiamo a prendere le armi e a premere il grilletto. Eleggiamo rappresentanti politici che promettono di agire, ma non li mettiamo mai davanti alle loro responsabilità. In ogni caso, gli omicidi continuano.

Questo potrebbe essere il suicidio di cui parlava Lincoln. Forse moriremo così. Non per un grande ideale ma a causa della perdita dell’amore e del rispetto reciproco e del sogno che ha unito i nostri antenati. È qui che finisce il sogno americano, non su un campo di battaglia, ma nelle nostre case e scuole, per mano nostra e del nostro prossimo? ◆ as

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Questo articolo è uscito sul numero 1462 di Internazionale, a pagina 17. Compra questo numero | Abbonati