Il primo film di fiction di Alice Diop, ultraradicale e volutamente poco spettacolare, parte dalla vicenda di Fabienne Kabou, la donna originaria di Dakar condannata a vent’anni di carcere nel 2016 per infanticidio. Diop mette in piedi un confronto tra la protagonista del film, una giovane scrittrice che assiste al processo, e il racconto dell’imputata. Contrariamente ai classici film processuali, Saint Omer non insiste sul terrore, sulle emozioni o sull’empatia, ma sulle parole dell’imputata (un linguaggio molto articolato che all’epoca destò uno stupore vagamente razzista). Diop non cede al linguaggio del documentario: attraverso un complesso insieme d’identificazioni e invocando la Medea pasoliniana, difende la forza curativa del ricorso alla finzione, ma anche la sua prossimità con la follia.
Laura Tuillier, Libération

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Questo articolo è uscito sul numero 1478 di Internazionale, a pagina 89. Compra questo numero | Abbonati