Nelle aree allagate il 6 giugno a causa della distruzione della diga di Nova Kachovka le acque hanno cominciato a ritirarsi, lasciando intravedere le reali proporzioni del disastro ambientale ed economico. Il conto delle vittime è salito a 52, di cui 17 sulla sponda occidentale del fiume Dnepr, controllata dall’Ucraina, e 35 su quella orientale, occupata dalla Russia, ma decine di persone risultano ancora disperse. Nei seicento chilometri quadrati colpiti dall’inondazione, disseminati di migliaia di carcasse di animali e contaminati da acque reflue e inquinanti di ogni tipo, la principale minaccia è ora quella di un’epidemia. Sulla costa del mar Nero sono stati individuati livelli preoccupanti di salmonella ed escherichia coli. Le autorità ucraine hanno vietato la balneazione e la vendita e il consumo di prodotti ittici. L’Organizzazione mondiale della sanità ha inviato una missione d’emergenza, ma la Russia ha negato al personale l’accesso alle aree che controlla e ha rifiutato gli aiuti offerti dalle Nazioni Unite. Mosca continua ad attribuire la responsabilità del disastro all’Ucraina, ma secondo un’inchiesta del New York Times gli elementi raccolti finora suggeriscono che la diga sia stata distrutta da una grossa carica esplosiva piazzata al suo interno. Solo le forze russe, che controllavano la struttura, avrebbero potuto compiere un’operazione simile. Nel frattempo la controffensiva lanciata dall’esercito ucraino all’inizio di giugno nel sudest del paese continua. Kiev ha annunciato di aver liberato il villaggio di Pjatychatky, nella regione di Zaporižžja, l’ottavo dall’inizio dell’operazione, ma ha ammesso che la situazione al fronte resta difficile. Le forze ucraine stanno subendo perdite significative e avanzano più lentamente del previsto, anche perché i russi sembrano aver imparato dagli errori commessi nei mesi scorsi e stanno impiegando tattiche più efficaci. ◆

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Questo articolo è uscito sul numero 1517 di Internazionale, a pagina 26. Compra questo numero | Abbonati