Aleksandar Hemon (Gary Dock, Alamy)

Il nuovo romanzo di Aleksandar Hemon è immenso. Non perché sia inusitatamente lungo – non lo è – ma perché contiene praticamente tutto quello che il titolo promette: viaggi che durano anni e vite che toccano diversi continenti; imperi che crollano e città piene di storia; amori incancellabili, perdite strazianti; sogni e canzoni e patologiche manie di grandezza; allusioni furbe e battute sporche. Il mondo e tutto ciò che contiene è, a seconda dei momenti, lirico e cinico. È emotivamente coinvolgente quanto è intelligente.

Tutto comincia a Sarajevo. Hemon, un bosniaco che vive negli Stati Uniti, ha scritto dell’assedio degli anni novanta usando registri molto diversi. Questo libro invece ci porta nel 1914, quando Sarajevo fu teatro dell’attentato che fece scoppiare la prima guerra mondiale. Il protagonista è Rafael Pinto, ebreo sefardita, studente a Vienna, farmacista, omosessuale e oppiomane. Mentre l’automobile dell’arciduca Ferdinando e della moglie entra in città, Pinto è nella sua bottega che pianta un bacio sulle labbra baffute di un Rittmeister austriaco. È un gesto audace, ma siamo a Sarajevo, una città poliglotta e multireligiosa in cui è possibile osare congiungimenti non ortodossi. Finché l’Onnipotente – colui che ripetutamente crea mondi e li distrugge – pone fine al mondo in cui Pinto è cresciuto e gli fa trovare l’amore del musulmano Osman e attraversare il continente eurasiatico a piedi, portandolo 35 anni dopo fino a Shanghai, verso la sua patetica Liebestod.

Nella frase precedente ho usato due parole in tedesco. E non me ne scuso: i lettori di Hemon devono essere pronti ad accettare un vocabolario inusuale. Questo è anche un libro sulla lingua e quella usata da lui è una ricca miscellanea di idiomi.

Alla fine compare un narratore in prima persona. È uno scrittore. Forse lo stesso Hemon. È a Gerusalemme per un festival letterario e incontra un’anziana che canta per lui in bosniaco e gli racconta la storia dei suoi due padri. Così, mentre noi leggiamo la fine di questo romanzo, all’autore viene l’idea di scriverlo. E a noi non resta che la sofferenza di essere strappati da questa illusione romanzesca così abbondante e generosa. Lucy Hughes-Hallett, The Guardian

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Questo articolo è uscito sul numero 1544 di Internazionale, a pagina 77. Compra questo numero | Abbonati