Scrivo queste parole dalla Cisgiordania con un profondo senso di dolore e di sconfitta, mentre i termini contrastanti “vittoria”, “genocidio”, “cancellazione”, “lotta eroica” e “conquista storica” ricorrono continuamente quando si parla del popolo palestinese e degli abitanti di Gaza in particolare.

La Striscia di Gaza mi ha incantato, come ha incantato molte persone che l’hanno visitata e hanno conosciuto il suo popolo. È stata una parte inseparabile della Palestina storica fino a quando non è stata tagliata fuori, dopo la creazione dello stato di Israele e l’espulsione dei palestinesi dal loro paese nel 1948-1949. Da lì è emersa come entità sociale e geopolitica distinta. La sua caratteristica principale è l’alta percentuale di rifugiati (circa il 75 per cento della popolazione), provenienti da decine di villaggi e città che Israele ha spopolato e distrutto.

La Striscia di Gaza che conoscevamo come un’entità geografica compatta di 365 chilometri quadrati era ancora abbastanza grande da contenere la diversità dei villaggi e delle città, dei nuovi quartieri e dei vecchi, della costa e delle colline, dei poveri e dei ricchi, dei rifugiati e dei nativi. Era piccola e affollata, così i suoi abitanti vivevano sempre di più l’uno sull’altro man mano che il loro numero cresceva, e si aveva la sensazione che tutti conoscessero tutti e che non ci fossero segreti. Era così piccola e con legami così stretti che sembrava che tutti gli abitanti prendessero parte attiva a qualsiasi evento politico, sociale e militare.

Nonostante il distacco, la distruzione e il passare del tempo, i rifugiati del 1948 e i loro discendenti hanno conservato i legami familiari, sociali e affettivi con i loro villaggi e le comunità perdute. Attraverso la realtà condivisa dell’isolamento e dell’espulsione, e nella compattezza del luogo, la popolazione di Gaza ha sviluppato i tratti distintivi collettivi di una comunità non immaginaria e non astratta: un umorismo tagliente, calore e ospitalità, ingegnosità, industriosità e solidarietà, ostinazione e diffidenza, coraggio e tenacia, insularità e curiosità, orgoglio del luogo e una ferita per il disprezzo degli altri.

Man mano che negli anni si aggravavano gli effetti della chiusura imposta da Israele nel 1991, che ha trasformato Gaza in una vasta struttura carceraria, l’industriosità e l’ingegno sono stati sostituiti da un’apatia e da un’inazione diffuse, accanto all’emergere di un’intraprendenza, di una creatività impressionante e di una vivida volontà di vivere. Con tutte queste contraddizioni e difficoltà, la Striscia di Gaza si è evoluta in un proprio quadro di appartenenza e lealtà patriottica, rappresentando allo stesso tempo tutti i palestinesi e la loro causa – una sorta di microcosmo palestinese – più di qualsiasi altro gruppo di palestinesi.

Mettere in luce

Circa due anni fa ho scritto: “Questo quadro unico è una delle spiegazioni (anche se non l’unica) della straordinaria resilienza del suo popolo e di come ha affrontato per decenni situazioni estreme e da incubo che sono difficili da immaginare, culminate in attacchi militari israeliani sanguinosi”. All’epoca, non potevo concepire gli orrori della guerra attuale.

Le guerre sono un’estensione della politica, e quella in corso è parte integrante della politica che Israele realizza da anni per ostacolare qualsiasi progetto nazionale palestinese verso la libertà e l’indipendenza. Tuttavia, non si può negare che questa guerra di distruzione sia stata innescata dagli attentati compiuti da Hamas in Israele il 7 ottobre 2023.

Davanti a un forno a Deir al Balah, nel centro della Striscia di Gaza, il 24 ottobre 2024 (Ramadan Abed, Reuters/Contrasto)

Gli attacchi di Hamas – contro soldati israeliani e installazioni militari, contro civili nelle loro case e durante una festa all’aperto – hanno frantumato l’arroganza di Israele e hanno messo in luce la sua debolezza strutturale come potenza militare. Qual è questa debolezza? È l’incapacità e il rifiuto di comprendere che il dominio sul popolo palestinese, negando la sua storia, i suoi diritti e la sua libertà, non è sostenibile in eterno. L’impenetrabile convinzione, l’arrogante certezza che sia possibile vivere una vita buona e felice e allo stesso tempo controllare, opprimere e imprigionare più di due milioni di palestinesi di Gaza – e trarre profitto da questa oppressione e questo sfruttamento – si è infranta il 7 ottobre quando molte centinaia di militanti di Hamas e un numero imprecisato di civili palestinesi hanno abbattuto le mura della più grande prigione del mondo, anche se solo per poche ore. Negli annali delle lotte di liberazione nazionale, questo potrebbe certamente essere considerato un risultato.

Tuttavia, il mio senso di sconfitta è forte e persistente, ed è triplice. Per decenni, i palestinesi e gli attivisti di sinistra in Israele, me compresa, hanno avvertito gli israeliani e gli stati che sostengono Israele che la continua oppressione e la spietata dominazione avrebbero portato a una terribile esplosione, dannosa per tutti, a spargimenti di sangue e a sofferenze intollerabili. Ma l’attrattiva dei privilegi e dei benefici materiali che Israele ha offerto agli ebrei (sia cittadini israeliani sia di altri stati) che si sono trasferiti nei territori palestinesi occupati si è rivelata più forte: ville a prezzi accessibili, sussidi ed esenzioni fiscali, migliore istruzione e assistenza sanitaria, terreni per l’agricoltura e altre attività commerciali concessi gratis o a un prezzo simbolico.

A questo si deve aggiungere che il territorio occupato è diventato un enorme laboratorio per l’industria israeliana delle armi e della tecnologia di sorveglianza all’avanguardia, due delle esportazioni più redditizie dell’economia israeliana. Le carriere e i redditi di persone di tutti i ceti sociali sono strettamente connessi a queste industrie legate all’occupazione e all’apparato burocratico necessario al mantenimento di un regime ostile e repressivo imposto a più di cinque milioni di palestinesi.

Gli ebrei israeliani sanno che qualsiasi accordo di pace richiederebbe pari diritti per i cittadini palestinesi di Israele e il risarcimento o la restituzione delle loro terre e proprietà rubate da Israele nel 1948, nonché l’equa distribuzione delle fonti d’acqua tra ebrei e arabi nell’intero paese.

La fine dell’occupazione e l’uguaglianza dei diritti sono quindi concepiti, consciamente o inconsciamente, come una minaccia alla vita e al benessere di molti ebrei israeliani. Tutto questo è stato rafforzato da teorie e retoriche razziste e messianiche. Queste teorie (compreso il sessismo) si sviluppano e si diffondono per giustificare lo sfruttamento, le discriminazioni di ogni tipo e la repressione, ma a un certo punto prendono vita propria, diffondendo veleno mentre un numero sempre maggiore di generazioni le considera come leggi naturali inconfutabili.

Ve l’avevamo detto

Noi di sinistra, quando abbiamo avvertito che non c’era nulla di “naturale” nel dominare un altro popolo, ci siamo appoggiati ai valori universali ed ebraici; abbiamo invocato lezioni storiche sul fallimento di un potere eccessivo; abbiamo cercato di appellarci alla ragione e di sostenere che è nell’interesse di Israele mettere fine all’occupazione. Invano. Io stessa ho scritto e detto più di una volta che potremmo raggiungere un livello di brutalità dal quale non c’è ritorno.

È stato un avvertimento che non potevo immaginare sarebbe diventato una profezia: per quanto l’attacco di Hamas sia stato ben pianificato e meticoloso dal punto di vista militare, ha anche scatenato la rabbia, personale e collettiva, accumulata da migliaia di persone e il loro desiderio di vendetta nei confronti degli israeliani (compresi i cittadini stranieri che lavorano in Israele e i cittadini palestinesi di Israele). I miliziani del movimento di resistenza islamica e i civili di Gaza che si sono uniti a loro non hanno fatto distinzione tra soldati e civili, adulti e bambini e neonati, per lo più ebrei ma anche alcuni non ebrei. Quel giorno sono state uccise o fatte prigioniere persone care di circa 1.400 famiglie. Ci sono prove di abusi sessuali e stupri. Altre migliaia di persone sono state ferite o si sono salvate per un pelo (il numero delle vittime di Hamas del 7 ottobre è stimato in circa mille). È considerata la peggiore sconfitta e il peggior trauma che abbia colpito gli israeliani dal 1948.

Due giorni dopo il massacro, con un grande dolore che da allora non mi ha più abbandonato, ho scritto: “In un solo giorno, i civili israeliani hanno sopportato quello che i palestinesi hanno sofferto per decenni e continuano a soffrire continuamente: invasione militare, morte, brutalità, bambini uccisi, corpi abbandonati in strada, assedio, paura paralizzante, timore per la sorte dei propri cari, la loro cattura, la voglia di vendetta, il desiderio di uccidere in massa chi è coinvolto (i miliziani) e chi non lo è (i civili), l’inferiorità, la distruzione degli edifici e la rovina di una festa o di una celebrazione, la debolezza e l’impotenza di fronte a una forza armata onnipotente, l’umiliazione pungente. Ancora una volta: ve l’avevamo detto. L’oppressione e l’ingiustizia senza fine esplodono in momenti e luoghi inaspettati. Come l’inquinamento, lo spargimento di sangue non conosce confini”.

Nella sua risposta, Israele ha agito come ci si poteva aspettare e ha cominciato subito una vendicativa campagna genocida di devastazione che è ancora in corso. Il numero di palestinesi uccisi dai bombardamenti e l’inimmaginabile portata della distruzione aumentano di giorno in giorno. Alla fine di novembre, l’esercito israeliano ha ucciso più di 44mila palestinesi, di cui più della metà sono donne e bambini. Altre migliaia di persone risultano disperse. Il numero di miliziani palestinesi uccisi in combattimento all’interno della Striscia non è noto e non è chiaro se siano inclusi nel conteggio ufficiale. Almeno la metà degli edifici di Gaza è stata distrutta dai bombardamenti e dai combattimenti tra l’esercito israeliano e i militanti di Hamas. Circa il 90 per cento degli abitanti della Striscia di Gaza, che sono circa due milioni di persone, sono stati sfollati. Decine di migliaia di persone sono fuggite dalle loro case nel nord e nel sud del paese. Tante vite preziose e tante sofferenze avrebbero potuto essere risparmiate se avessero ascoltato. Ma non l’hanno fatto.

Raccolti avariati

La seconda ragione del mio senso di sconfitta è meno personale ma non meno dolorosa: il fallimento della lotta popolare di massa contro l’oppressione israeliana. A differenza della lotta armata, la rivolta popolare non armata coinvolge tutta la popolazione: donne e uomini, giovani e anziani, operai, amministratori e studiosi, come nella rivolta tra il 1987 e il 1991, la prima intifada, e nei primi giorni della seconda intifada del 2000.

Una rivolta di massa che include molti strati sociali sarà inevitabilmente varia ed efficace attraverso diversi canali: confronto di massa con le forze di occupazione, disobbedienza civile contro la burocrazia dell’occupazione, attività culturali, iniziative di educazione popolare, campagne politiche di base, comitati popolari di sostegno e mutua assistenza, una consapevole disponibilità a sacrificare la vita normale e a correre rischi, e un’ampia partecipazione alla pianificazione e allo sviluppo della strategia a lungo termine. Tutto questo dà alla lotta un carattere democratico nella sua essenza.

Il messaggio politico di questi sforzi nonviolenti è stato respinto da Israele

Non è difficile spiegare la grande svalutazione dello status della lotta popolare tra i palestinesi: a ogni passo, la grande impresa collettiva ha prodotto raccolti avariati, a livello politico, nazionale e personale.

La prima intifada ha portato a negoziati tra palestinesi e Israele, che hanno prodotto gli accordi di Oslo. Questi dovevano essere un accordo di pace e i palestinesi erano convinti che entro il 1999 avrebbero portato a un piccolo stato indipendente accanto a Israele. Anche se stavano facendo un compromesso doloroso, essendo disposti ad accettare solo il 22 per cento della Palestina storica, sostennero gli accordi per risparmiare alle generazioni future il dolore e le privazioni di una vita sotto occupazione. Dal momento della firma, tuttavia, Israele ha sfruttato l’accordo per ostacolare qualsiasi possibilità di creare uno stato simile, costruendo insediamenti e comprimendo i palestinesi in piccole enclave all’interno della Cisgiordania, e separandoli da Gaza.

Gli attivisti che hanno aderito al principio della lotta non armata per lavorare contro l’espansione degli insediamenti, insieme agli ebrei di sinistra impegnati, sono stati e sono perseguitati dalle forze di sicurezza israeliane, che li minacciano, eseguono arresti, presentano accuse infondate e compiono violenze fisiche che causano lesioni e perfino morti.

Nel 2018 i palestinesi di Gaza hanno cominciato a protestare in massa contro l’assedio e per il diritto al ritorno nei loro villaggi distrutti e hanno continuato per più di due anni. Ci sono stati lanci di pietre, molotov e palloncini incendiari che hanno bruciato i campi al di là del confine, ma non hanno messo in pericolo vite umane. Eppure i soldati che sparavano da dietro la recinzione di frontiera hanno ucciso molti manifestanti e ne hanno feriti altri, causando disabilità permanenti e amputazioni.

Israele ha presentato la campagna della società civile per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni e l’attivismo legale internazionale contro i suoi crimini di guerra come gesti antisemiti, usando cinicamente il genocidio degli ebrei del 1939-1945 per costringere i paesi occidentali a criminalizzare l’iniziativa.

Il chiaro messaggio politico di questi sforzi nonviolenti è stato respinto da Israele e la rivolta disarmata ha avuto scarse conseguenze sugli occupanti e sull’occupazione. Il passo logico, per molti palestinesi, era chiaro: infliggere più dolore all’occupante finché non avesse capito. Questa fu la conclusione nel 2000, quando l’esercito israeliano uccise manifestanti disarmati e impose severe restrizioni di movimento a tutta la popolazione all’inizio della seconda intifada. Le organizzazioni armate palestinesi, guidate da Hamas, tornarono alle tattiche degli anni novanta per opporsi ai negoziati con Israele: attentati suicidi sugli autobus, nei mercati e nei ristoranti, che uccisero molti cittadini israeliani. Nel tempo Hamas ha sviluppato e perfezionato la sua capacità di lanciare razzi contro Israele, inviando contemporaneamente messaggi politici e religiosi contrastanti sul futuro del paese e dei due popoli che lo abitano.

Gli attentati suicidi degli anni novanta e duemila e la guerra dei razzi sono riusciti a fermare l’espansione degli insediamenti di Israele e la sua volontà di costringere i palestinesi in enclave rubandogli più terra, risorse e spazio? No, tutto il contrario. Hanno avuto successo come terrificante mezzo di vendetta, è vero, ma non sono riusciti a fermare la colonizzazione. Eppure l’aura della resistenza armata non fa che brillare di più per molti palestinesi e per i loro sostenitori nel mondo.

Corsa alle armi

Questa è la terza ragione del senso di sconfitta che mi attanaglia, come socialista femminista: il sistema profondamente maschilista di sviluppare e produrre armi, commerciarle, raccogliere i profitti e scatenarle è considerato un assioma e un punto di partenza indiscutibile sia come misura del potere nazionale, della sovranità e dell’apparente diritto alla violenza autorizzata sia come mezzo supremo e venerato di resistenza all’oppressione. Ma a differenza del cinquecento e dell’ottocento, oggi le armi e gli armamenti e qualunque corsa a riempire gli arsenali hanno la capacità di portare alla distruzione del mondo e dell’umanità in generale.

La Striscia di Gaza che conoscevamo è stata distrutta e la sua comunità è stata smantellata dalla macchina da guerra israeliana. Israele ha ucciso e ferito un numero incalcolabile di civili. Non abbiamo ancora cominciato a fare i conti con il trauma. Le persone istruite, i ricchi, chi ha contatti all’estero e ingegnosità stanno lasciando Gaza e continueranno a farlo. La ricostruzione richiederà decenni. Assisteremo mai a una svolta politica e sociale che presenterà questa terribile distruzione e la strategia di resistenza armata di Hamas come “utile”? È troppo presto per dirlo. ◆ dl

Amira Hass è una giornalista israeliana. Vive a Ramallah, in Cisgiordania, e scrive per il quotidiano israeliano Haaretz.

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Questo articolo è uscito sul numero 1592 di Internazionale, a pagina 44. Compra questo numero | Abbonati